La qualità della vita post-pandemica si è gradualmente abbassata, mettendo seriamente a rischio la salute mentale di tuttə. Eppure, la vita frenetica lavorativa non conosce sosta, togliendo tempo e modo di prendersi cura di chi abbiamo accanto. Prendersi cura, a differenza di ciò che spesso viene ribadito come un mantra, non è un lavoro svalutante né adibito all’ambito femminile. Semplicemente, sembra che in questo castello di carte nel quale siamo chiamatə a vivere detto “neoliberismo”, non ci sia posto per la cura. Quasi si trattasse di una debolezza di cui vergognarsi, dopo due anni di stasi economica e sociale non sembriamo disposti a prenderci maggiormente cura di chi ci circonda.
Quanto di questa situazione abbia effettivamente a che vedere con il tratto egoistico distintivo degli esseri umani e quanto sia frutto dell’incapacità endemica del sistema economico nel quale viviamo, non ci è dato sapere; uno studio del Regno Unito ha dimostrato che, di fronte al tracollo delle infrastrutture dedicate alla cura, dai consultori agli ospedali, molte amministrazioni stanno provando a offrire più sostegno alle iniziative di supporto grandi e piccole. L’unico modo per uscire da questa emergenza perenne, oltre alle sovvenzioni del PNRR, è ripensare in modo radicale delle modalità meno burocratiche e mirate di fornire aiuti a chi ne ha bisogno.
Nello stato di cose presente, dominato da privatizzazioni e dalla mercificazione accanita, spesso si fa fatica a distinguere la cura di sé (self-care) dalla cura a livello sociale (welfare). Risocializzare e internalizzare i sistemi di cura condivisa è il prerequisito fondamentale verso un’economia della cura. Nel frattempo, si potrebbe imparare ad amarsi di meno e amare di più.
Smettere di separare il «noi» da ciò che lo circonda. Ricordarsi che in un’epoca nella quale il lavoro culturale introietta e riproduce le stesse dinamiche del capitalismo, l’autorə «contro» è connessə costantemente con il tutto.

Immaginare un modello diverso: rischio e cura a confronto
Ogni narrazione comporta un margine di rischio, uno spazio vuoto in cui si insinua ciò che dà senso al racconto e a chi vi interagisce. Quando in una narrazione si crea il momento e lo spazio del rischio, ciò a cui si va inevitabilmente incontro è una strada biforcuta: si intraprende la separazione, lo scardinamento assoluto e la prosecuzione in solitudine o, al contrario, lo spazio del rischio diventa spazio fecondo, di ri-marginalizzazione, dove i lembi si ricuciono e acquistano un senso che, prima del rischio, non avrebbero potuto avere.
Il punto è riuscire a rendere possibile la seconda strada, rendere chiaro che il rischio implica anche la creazione di nuovi mondi e altre narrazioni, che nel ricongiungimento c’è spazio per concepire nuovi dispositivi narrativi in grado di rivalutare il presente e far emergere un’altra idea di futuro.
Il rischio può essere il modo attraverso il quale la progettualità della narrazione viene messa in discussione alla luce del suo possibile fallimento. Come interviene a plasmarla e in che modo diventa il presupposto di una progettualità nella cura dell’individuo, della società, dei sistemi, del mondo?
Me, myself and nobody, via Marco Castelli
La poesia come strumento di indagine e conoscenza del sé
Se dico acqua, berrò?
Se dico pane, mangerò?
Pronunciando qualcosa, non lo si tiene tra le labbra, eppure lo si produce ancora e ancora. Come possono le parole costruire, distruggere, trasformare, scuotere identità se loro stesse non sono mai identiche e se non funzionano secondo rapporti di identità con ciò che rappresentano? Come si muovono queste strane operazioni su un materiale che non è stabile, pur avendo regole, soglie, misure più o meno precise? Mentre scrivi, chi scrivi?
Tu chi siamo?
E noi, chi sarà?
Il poeta moderno non propone immagini della realtà, ma corrispettivi della realtà (cfr. Guglielmi, Avanguardia e sperimentalismo, 1964)
Dunque l’opera d’arte non è lo specchio della realtà, bensì la fabbrica che la produce: essa contiene, in nuce, al di là di ogni idealismo, questo cambiamento concreto, in cui i segni della realtà vengono ricondotti alla loro pienezza semantica di materiale linguistico, pluralità di senso. La poesia, allora, diventa strumento di indagine e conoscenza del sé. Cerchiamo proprio questo: la tua partecipazione al micro e macrocosmo, allo scambio materiale, politico, digitale, poetico e umano. Cerchiamo la tua impronta. Se il sistema guarda il dito, noi vediamo la carta. Dove ti ha portato la poesia? Indicaci la via.

Sonorizzare il paesaggio: un’evoluzione della musicoterapia
In un’epoca dove il paesaggio sonoro in cui siamo immersi – sia quello che ci creiamo attorno volontariamente che quello con cui ci ritroviamo ad avere a che fare senza poter scegliere – tende troppo spesso ad allinearsi alla bulimia di stimoli e informazioni a cui anche gli altri canali di connessione alla realtà di cui disponiamo sono sottoposti: la pratica dell’ascolto è terreno di condizionamento, violenza o cura, fuga assorta o zona meditativa.
Fuor di metafora, è lo stesso Amleto che ci mette in guardia dal rischio, da non coscienti, di ritrovarci del veleno versato direttamente nell’orecchio.
Il tema della propria identità sonora, centrale in quelle pratiche musicoterapiche incentrate sul dialogo creativo e l’ascolto, è così importante da essere il punto di partenza da cui le pratiche stesse si diramano, e anche un ottimo grimaldello per aprire muri interni, stratificazioni dai resti di uno dei canali meno considerati e, per questo, più colonizzati del nostro corpo. Per la costruzione di un articolo che esplori queste pratiche e le proprie applicazioni (spesso così intense da generare esperienze comunitarie e di riscoperta, ancora più spesso interlacciate ai fenomeni culturali che inscrivono le estetiche musicali molto più sotto le lenti antropologiche che sotto quelle del piacere), Odile propone a coloro che lo desidereranno di mandarci un contributo testuale di qualsiasi forma e lunghezza che descriva il panorama sonoro in cui chi scrive si ritrova a vivere quotidianamente, con la possibilità di venire citato all’interno dell’articolo in uscita sul prossimo cartaceo.

Dalla fine dell’incubo al sogno: un’ambigua utopia
A metà Ottocento, in Gran Bretagna e poi nel resto del mondo i meccanismi messi in moto dalla Rivoluzione Industriale compiono un balzo in avanti, diventando da mero momento di produzione delle merci a ideologia. È la nascita del pensiero liberale classico, con il filosofo John Stuart Mill che propugna l’etica del libero scambio, concependo la libertà come fondamento primario del progresso industriale lontano dal mero interesse personale.
Un ottimismo diffuso verso il progresso tecno-scientifico apre le porte a visioni che contemplano la creazione di mondi nuovi, in cui l’umano diventa tutt’uno con lo spazio che abita: è la nascita, anche a livello letterario, dell’utopia, il luogo che si nega per far spazio al mero sogno irrealizzabile, alla speranza.
Come a Songs of Innocence fa seguito Songs of experience, però, alla fiducia nel progresso si contrappongono le strade ferrate, i fumi delle ciminiere e i rumori incessanti dell’industria che deformano i connotati spaziali delle città in crescita, aprendo la via a una disumanizzazione dove chi abita lo spazio lo abita da automa, figlio dei mostri della ragione.
Come l’utopia racconta il sogno, così la distopia ne racconta l’incubo. La domanda che ci poniamo, però, è: e se utopia e distopia fossero due facce della stessa medaglia?
L’utopia del capitale, del resto, ha realizzato i sogni di un mondo fittamente interconnesso, ma la crudeltà del suo dominio ha fatto sì che fame e carestia fossero momenti precostituivi del mantenimento dello stato delle cose.
Se l’Utopia è l’integrazione al mondo e la Distopia ne è l’Apocalisse, e se entrambe sono in realtà in un rapporto dialettico e consequenziale (l’utopia di qualcuno sarà la distopia per qualcun altro), dove può emergere la frattura? In che modo il nuovo tribalismo tecnoscientifico può lasciare spazio al Sogno?

La cura come sostegno collettivo: nuovi spazi urbani
Oggi associamo la parola cura ad un rapporto unidirezionale, quello tra medico e paziente, in cui uno (il paziente) è completamente passivo di fronte alle malattie, mentre l’altro (il medico) viene considerato l’unico che può agire e risolverle. Il prendersi cura di sé e degli altri è una pratica che viene automaticamente dimenticata. La cura perde la sua ritualità di gruppo per trasformarsi in un lusso esclusivo, custodito solo in alcuni punti della città.
Mettere la cura al centro della quotidianità significa riconoscere e accogliere la nostra interdipendenza. La cura è la nostra capacità innata, individuale e collettiva, di porre le condizioni sociali, politiche, materiali ed emotive affinché le persone e le altre creature del pianeta possano prosperare. Si propone la cura come processo attivo, ogni individuo della comunità deve essere incoraggiato a diventare attore protagonista, leader per sé e per gli altri, in grado di sostenere almeno nelle prime o più semplici fasi del bisogno.
Se ciò che si propone deve, di fatto, partire dalle persone, è anche vero che tale prospettiva si espanderà in modo tale che anche l’ambiente e lo spazio urbani subirà delle modificazioni, o meglio: lo spazio urbano si modificherà a sostegno di quest’evoluzione. L’obiettivo di Aleph è quello di trovare e raccontare gli spazi urbani in cui quest’idea di cura intesa come sostegno collettivo spontaneo è già messa in atto, per raccontarne i benefici e gli svantaggi.
Fotografie di Marco Castelli
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Le migliori entreranno a far parte del nuovo numero cartaceo
in uscita ad aprile!