Dall’assenza

Se il tempo finisse alla congiuntura tra dolore, piacere e vergogna?

 Enigma dei Lotofagi

Il vecchio Lotofago iniziò a narrare: «Alcuni degli uomini che sono ora qui tra noi raccontano che Elena era figlia di Nemesi. Quando Nemesi depose l’uovo che conteneva Elena, lo consegnò a Leda perché lo nascondesse e i Titani non potessero trovarlo. Leda lo costudì e, una volta dischiuso, lo mostrò a Tindaro, suo marito e re di Sparta, affinché insieme ne avessero cura.
La bambina non pianse mai, neanche quando fu rapita da Teseo. La sua bellezza straordinaria ammaliò l’eroe ateniese, che non le fece violenza. Teseo, pertanto, fu il primo uomo a impadronirsi di Elena e la storia del rapimento si diffuse subito in tutto il Mare Mediterraneo. Si narra che Teseo l’avesse rapita soltanto perché era ancora una bambina e nessun eroe prima di lui aveva compiuto una tale impresa. Infatti tutti gli altri eroi – lo stesso Eracle – avevano atteso che la bambina sacrificale crescesse diventando una donna dalle abili mani e solo allora l’avrebbero stanata e violata, quando sarebbe giunta in quell’età che assomma la caccia alla monta. Teseo riportò a casa Elena quando era oramai una donna.
La storia divenne paradigma: per amare Elena, bisogna rapirla.

La storia divenne paradigma: per amare Elena, bisogna rapirla.

Altri invece narrano che Odisseo era stato nominato primo protettore del simulacro di Elena – il nome del simulacro di Elena fu modellato su quello del Palladion di Atena: Elenion. Ma a differenza della statua lignea della Glaucopide, la quale rappresentava Pallade, amica di Atena e da questa uccisa durante un gioco, l’Elenion era fatto di purissima metis. Il mastro intagliatore che lo levigò si gettò dalla rupe più alta del Parnaso. Fu Menelao colui che ne subì irrimediabilmente l’inganno, allorché Odisseo, rinunciando a ucciderlo nella rissa indetta da Tindaro, pur avendo massacrato altri imponenti eroi, tra cui lo stesso Aiace, consegnò Elena all’Atride. Tindaro volle, infatti, rispettare una tradizione più antica quando, per ottenere Elena in sposa, convennero a Sparta cinquanta pretendenti invitati dal re stesso, il quale sapeva non si sarebbe compiuto il rapimento prima che i pretendenti non si fossero scannati l’un l’altro, com’era uso tra gli eroi. I loro nomi sono andati persi, tranne Odisseo, che ora siede tra noi, dimentico del suo nome, del suo retaggio e del ritorno, e Menelao.
Quando Elena fu rapita da Alessandro, l’Elenion fu portato a Sparta da Odisseo. L’itacese suggerì a Menelao, divenuto nel frattempo re del Peloponneso, di chiamare l’Elenion con il nome di Elena, per non destare sospetti, e Menelao accolse il consiglio, come aveva sempre fatto. Elena sostituì l’Elenion che l’aveva sostituita.
La notte stessa in cui Elena e Menelao si ritirarono nelle loro stanze, a concepire figli non di carne ma di memoria, Odisseo sognò la sua guerra. La piana di Ilio dal monte Eta al fiume Scamandro era deserta. Le navi degli Achei tornavano in Grecia, Odisseo poteva ancora scorgere gli alberi delle triremi beccheggiare. Camminò lungo la terra sulla quale si sarebbe dovuta consumare la carneficina da cui sarebbero nate le storie degli uomini. Niente accadde. La terra era infeconda, la città vuota. Odisseo attraversò le mura, salì le gradinate del palazzo di Priamo, entrò nella sala del re, ma non vide nessuno. Il silenzio lo accolse, unico ospite. Qui si ricordò di Elena, del casus belli, dell’inganno che egli stesso aveva innescato. Il pensiero di Elena è sempre il primo a scoprirmi dall’assenza, mi disse Odisseo quando giunse nella nostra città. Il pensiero ricostruisce l’evento. Dall’occhio alle zone di elaborazione dell’immagine – e ritorno. Il pensiero di Elena si innesta solo a partire da ora. Odisseo è chi anticipa il simulacro, e precedendolo lo supera. È una corsa all’indietro e all’interno per giungere fuori o aldilà di Elena. “Io vedo” è una preghiera inascoltata, lamento di ombre che vagano tra la vita e la morte.

Poi il sogno mutò la sua sostanza, e l’orrore e la morte vi presero parte.

Poi il sogno mutò la sua sostanza, e l’orrore e la morte vi presero parte. Ora con una mano Elena tiene fermo il volto di Odisseo, mentre con l’altra, impugnato un coltello affilato, recide i legamenti della mandibola, l’osso cede e la bocca si spalanca. Allora con lo stesso coltello taglia il palato, il sangue cola dalle fauci. Infine asporta il cervello e lo rigira tra le mani, ancora caldo, fumante. Come l’augure che legge nelle viscere dell’animale sacrificale, misurandone la temperatura e vagliando il colore del sangue, così Elena nelle increspature, tra gli interstizi. L’indice passa in rassegna le curve, gli avvallamenti tra i lobi, e poi giù fino all’amigdala. Prima l’unghia levigata, poi falangetta, falangina, falange. Il dito è tutto dentro. Elena sorride – un ghigno di cattiveria senza ironia – mentre penetra anche con l’intera mano, a scovare il punto debole, l’infermità, la paura, il desiderio.

Elena sorride – un ghigno di cattiveria senza ironia – mentre penetra anche con l’intera mano, a scovare il punto debole, l’infermità, la paura, il desiderio.

Il desiderio di Elena è dentro di me, mi confessò Odisseo (molti lo hanno descritto in lacrime, io non lo farò, poiché come ogni Lotofago non conosco il pianto), ed è già molto se riesco a muovermi in questa concrezione di spazio. Nel mezzo si moltiplicano le interpretazioni. La mente è il medium, non ne esiste un altro. Può proiettare ciò che accade ed essere la superficie dell’evento.
Quando si risvegliò, l’alba raggi di croco si levava all’orizzonte. La casa di Menelao risuonava dei passi di Elena, che sfuggiva allo sguardo dell’ospite, alle sue brame d’amore, al suo desiderio di inganno. Odisseo la inseguì nelle sale vuote. Ogni gesto era soltanto una messinscena, Elena non poteva essere più afferrata – così era stato sancito tra Tindaro e l’eroe, quando la sacrificarono nel simulacro. Lo stesso eroe che ora, nell’incanto della solitudine, anela al corpo di Elena. L’inganno ferisce doppiamente chi lo perpetra e chi lo subisce, per il quale l’ultimo pensiero è ineffabile».

Illustrazione di Jalun Deng