Aria Nera | Luigi De Rosa

Stesa su un panno bianco come la lana Aria osserva il proprio destino stravaccato e immobile sul soffitto a pannelli.
L’occhio sinistro bendato, metà della faccia ricoperta di graffi e punti di sutura, le gambe completamente sfatte, spappolate, cicatrizzate, insaccate fra bende e gesso, la codeina che le svaga il corpo distendendone i confini: tutta la stanza d’ospedale parla di lei, e aspetta. Gli oggetti inanimati sussurrano. Le cerniere plumbee cigolano. Le luci galleggiano nelle ore stanche, cercandosi fra loro come vecchi solitari. Tutto aspetta una decisione psicofisica che lei non è in grado di prendere, un imminente Evento Storico: stare bene.

Ma Aria è fuori dalla Storia da quattro settimane. Forse da sempre.

Distante anni luce da qualsiasi modo normale di vivere, di intendere e volere, da qualsiasi discorso terrestre o pseudo-umano, vaga fra immagini pop e gotiche allo stesso tempo, esplosioni di colore liquido, neon, colori primari lampeggianti e oscure guglie di pietra immerse nella nebbia.
All’inizio credeva che sarebbe morta di dolore. Ci sono voluti giorni perché il velo rosato e ovattato dell’incidente le si togliesse di dosso, perché tornasse a sentire alle gambe qualcosa che non fosse puro male. Le automobili sono chiaramente mezzi infernali, tentativi infantili di essere più veloci della morte.
L’orologio crepa il silenzio mentre Ala Nera striscia sotto il lettino, a spostare polvere e ricordi. Enorme e ruvida, a volte sembra quasi di fumo, altre una membrana di plastica ricoperta di petrolio liquido caldo, che lascia segni sul pavimento biancastro.
Schifosa. Lurida. Appiccicosa. Un manto sottile che assorbe ogni colore sostenuto da un fascio di nervi impazziti, vibranti, fuori sincrono.
Eppure Aria ne è profondamente innamorata da giorni. Adora il suo strusciarsi sotto di lei. La sua umiltà quasi depravata. Ne ama l’odore acre da puttanella marcita. La densità da buco nero. Il marezzo impercettibile ricoperto di peli. Il suo essere parte di un corpo scomparso, pezzo solitario lasciato al suo destino assonnato.
È questione di traslazione: non potendo scegliere niente del suo corpo, non potendoci effettivamente fare nulla, si è scelta una nuova anima scavando nel cassetto di quelle possibili.
L’anima adesso è quel suo pezzo di coscienza che sballa e schizza nel tempo interiore come la sguattera scabrosa di una chiesa maledetta, che crolla di giorno in giorno sotto il fuoco di aeroplani mascherati e mani inguainate, dove l’aria polverosa non si muove e dove l’organo a volte suona da solo note insignificanti, frigide. Dove è possibile sfamarsi di silenzio e presente, ascoltando le termiti che mangiano le panche e il crocifisso piangente. Una scopa, una paletta, il freddo frusciare delle pantofole nel buio quasi sacro illuminato da fasci pallidi: si tratta di pulire il pulibile e andarne fieri; di restare saldamente attaccati alle macerie. Alla prospettiva infinita delle colonne. Alla caduta, alla decadenza. Aspettando solamente che tutto quanto svanisca.
Da dove è nato tutto ciò? Cosa spinge una ragazzina di diciassette anni verso territori così foschi? La patologia è innata, o appena nata? Di chi è la colpa? Capriccio, o necessità? Aria non lo sa, ma a volte è terrorizzata da sé stessa.
Getta una lacrima sul cuscino, e torna a parlare con Sigfrid perché non riesce più ad ascoltare il fruscio di Ala Nera. È un amore da prendere a piccole dosi. Pesante fardello generazionale. Ogni colpo è come una dichiarazione lunare e contemporanea, così tanto chiara e definita e senza passato o futuro da far venire i brividi.
Con l’anima Aria spazza via i residui che la legavano al mondo.
Ffffffffffffffffffffsssssssssssssssssssfssshhhhhhhhhhhhhhhhhh.
Sigfrid è l’altra faccia della medaglia: un topo di neon rosa che le sta sempre vicino alla testa, a rosicchiare e squittire parole acide, quasi lisergiche. Lunatico e cocainomane, odora di balsamo ed emette un leggero calore frizzante.

È la parte divertente della faccenda, la futilità più totale e senza pretese.

Ora le sta suggerendo di dormire, per eliminare l’audio (per Sigfrid è normale esprimersi in termini spettacolari o televisivi). Aria ci prova, ma tutto sbalza e ruota dietro le palpebre, e la troppa assenza le mette paura. Per quanto strafatta, può ancora provare panico.
Sigfrid le entra in bocca e va a dare una sistemata al cuore, accarezzandolo finché non si calma. Esce tutto pieno di saliva e sangue, poi svanisce dicendo: “Visto? Ora devo farmi una doccia”.
La ragazzina resta sola nel niente. Ala Nera prova ad uscire allo scoperto, vibrando nauseabonda, sfiorando i bordi del letto con un pat pat fumettistico. Il tessuto viscido tocca una guancia di Aria, che si gira dall’altro lato inorridita. La ama ma non sopporta che la tocchi. È un amore sofferto, una decisione segreta.
La cosa peggiore sarebbe essere scoperta. Nessuno deve sapere che quella cosa nera coincide esattamente con lei.
Ma attorno non c’è nessuno, in questo ospedale così triste e cinematografico, perciò Aria per questa volta decide di lasciarsi andare. Ala Nera le tocca le gambe, infilandosi sotto le medicazioni, sopra gli squarci e il gonfiore.
È calda e gelida allo stesso tempo. Spazza via il dolore con cura.
Aria ride mugolando commossa ma il mondo rimane serio.
Poi Ala Nera sale, sfiorandole i fianchi e la pancia, il petto che si sta gonfiando, il collo rigido, sudato: è una commistione di liquidi umani e inumani. Una fusione di intenti.
Di colpo entra qualcuno. Ala Nera  scatta ferina e sparisce sotto il letto. Aria non ha mai provato tanto fastidio in vita sua. È peggio di qualsiasi risveglio da un sogno meraviglioso.
Il medico le chiede come va oggi. Le sorride. Aria alza le spalle. Non ha più niente da condividere con gli esseri umani. Tutto ad un tratto l’uomo, a cui era così grata, le pare una specie di pezzo di carne che si muove senza alcun coordinamento. Un gonfiore organico ripieno di… di… di speranze.
Cazzo non c’è niente che le dia più fastidio delle fottute speranze. Di quel supponente positivismo da quattro soldi che sembra dire “io conosco, io guarisco, io controllo”.  Di quell’aspettarsi che le cose vadano meglio, che l’unico futuro che possa esserci includa il miglioramento, la struttura, la crescita.
Crescita verso cosa?
Chiude gli occhi in preda ad una specie di orrore cosmico, e chiede all’uomo di andare via.
Lui prima di uscire dice che i genitori di Aria verranno a trovarla fra poco. La ragazzina trattiene a stento un conato.
Sola, osserva Sigfrid che le compare in mezzo alla fronte, fra gli occhi. Nel rosa riesce a vedere galassie e mandala, tunnel metafisici fatti di nulla.
Sono le sole strutture che ormai riesce ad accettare. Il topo dice che Aria è sulla buona strada, che finalmente il suo rapporto con Ala Nera sta migliorando. Dice che presto si potrà agire: potranno avere la loro vendetta, dopo anni. Mostrare al mondo la sua vera faccia, i suoi veri limiti. Prendere ogni cosa che esiste e rivoltarla come un calzino, azzannando alle caviglie qualsiasi maledetto significato. “C’era bisogno di arrivare quasi alla morte?”, chiede Sigfrid. In fondo conoscevi già tutto. In fondo sapevi cosa non andava della tua vita, della vita di tutti. In fondo volevi già vomitare.
La telepatia consente alla ragazzina e al topo di parlare in contemporanea a volte. “Non esiste altro per la tua generazione…” stanno dicendo. “Non esiste altro per la tua generazione se non chiese sconsacrate senza più il tetto e animali di pixel, lande fredde e televisioni giganti, alberi scheletrici, organi morti, esploratrici bambine con zaini gialli, conigli verdi, mosaici e finestre distrutte, frutta allineata che precipita e sparisce, sguattere in ciabatte che provano a pulire aspettando il delirio finale.

IL DELIRIO FINALE

Aria scaccia via il topo terrorizzata, assalita da vecchi sentimenti. Non ha mai il coraggio di proseguire quel discorso, così come non ha il coraggio di lasciarsi prendere fino in fondo da Ala Nera. Non ancora. C’è ancora qualcosa di affascinante nella tenerezza, nella famiglia, nel futuro che comunque c’è, e forse ci sarà davvero.
Solo che…
Entra un’infermiera giallastra a controllarle la flebo. Ciabattando nel silenzio, non guarda Aria negli occhi, ma Aria glieli guarda con attenzione. Osserva con il suo unico occhio la bocca nascosta dalla coperta bianca, la frangetta che si fa sempre più lunga e lucida.
Qualcosa in quella donna le fa ripensare all’incidente.
Non si esce dalla televisione, nemmeno in punto di morte: la classica brusca frenata, il classico rumore di metallo e di vetro, le classiche grida strozzate. Tutto è solo visuale, astratto, come di qualcun altro. Lo shock prevale sul momento topico, la reazione all’azione: non è poi tutto così? Lei, l’infermiera, il medico, i genitori: tutte entità puntuali che, sotto sotto, amano la stasi, la capitolazione, la fase morta, il punto di arrivo, tutto ciò che non accade fra un momento e l’altro, perché i momenti sono solo patatine.
L’infermiera esce, e subito dopo Ala Nera torna a toccare Aria: questa volta con più insistenza. Ha un fare giocoso, da sgualdrina.
Da qualche parte Sigfrid squittisce allegro. Farfalle rosa volano per la stanza, poggiandosi sopra a gargouille tetri, antichi.
“Aspetta un momento.”, dice la ragazzina ad Ala. “Aspetta.”
Entrano i suoi genitori. Le farfalle e i gargouille svaniscono di colpo, così come Ala Nera.
Soliti riti, solito affetto sgualcito e ritrito. Chissà se percepiscono la distanza della figlia. Chissà se ne comprendono almeno qualche motivazione.
Anni e anni passati sotto le acque del vuoto contemporaneo, sotto la finzione densa e cristallina di un mondo dove ormai può essere vera qualsiasi cosa e dunque non è vero niente. Dove esiste ogni modo per provare piacere e stare bene ma dove non sta bene nessuno. Dove tutte le persone sembrano cartonati in balia del vento. Dove enormi catene di montaggio montano sogni e deliri, usando materia e antimateria, bulloni e sentimenti. Dove l’eco-ansia diventa il nuovo modo di pensare al futuro. Dove le bambine ballano con Dracula senza nessun avvocato che le difenda. Dove anche la sua sete di sangue viene messa in discussione. Dove gli angeli sono volati via. Dove c’è una quantità di roba davvero schifosa.
Aria può avere tutto, andare ovunque, essere qualunque cosa, seguire i suoi sogni oppure distruggerli. È sempre stato così, sarà sempre così.

Non ci sono limiti al suo libero arbitrio: può  sostanzialmente essere ubiqua, divina, totale.
Solo che…

I suoi genitori vanno via: devono tornare a lavorare. Aria ne osserva le sembianze prima che vadano, sperando un’ultima volta in qualche cenno, in qualche cosa di reale, finalmente fuori dalla televisione.
Niente.
Fuori nevica. Il piccolo albero di natale lampeggia nella stanza. E chi poteva esserci sul pennacchio se non Sigfrid, con tanto di tuba e bastone da vaudeville?
È il momento di ballare. Il momento del delirio finale.
Senza più paura Aria lascia che Ala Nera la avvolga. Diventano una sola cosa appiccicosa e definita, un informe angelico infernale assalito dai tremori e dalla rabbia. Può camminare: ora sta bene.
Si toglie la benda mostrando l’occhio sinistro tumefatto, stralunato, frantumato.
Disperata, divertita, circondata da animali danzanti e musica 2bit, la ragazzina si alza dal lettino ed esce dalla stanza d’ospedale.
Nei corridoi prende fuoco ogni cosa. I vetri esplodono, i muri si spaccano. Ogni essere umano presente grida e si dispera, strappandosi gli occhi e mordendosi la lingua.
Il sangue scorre a fiumi e i neon lampeggiano mentre Aria Nera cammina senza fretta, lo sguardo terrorizzato ed estatico.
Non vuole lasciare niente. Vuole che ogni cosa si mostri finalmente per quello che è: distrutta, malconcia, decaduta, inutile.
E le rovine prendono forma, la polvere avvolge lettini e macchinari esplosi, i tetti si aprono verso il cielo arrossato dal tramonto inquinato e tossico, gli inservienti e i medici si riducono a larve abuliche, mentre una specie di cavaliere alato con orecchini rosa e anelli di diamante esce fuori dall’ospedale senza idee su dove andare, il destino ancora immobile e accidioso: una piccola inutile Apocalisse trasmessa in diretta, una sottile metafora inventata di sana pianta da una bambina in preda al delirio da farmaci.
Aria ride, e il mondo ride con lei.

Illustrazione di Spunky zoe