Invocare i paesaggi perduti | Parafiction e fabulazioni nelle opere di Elia Suleiman e Walid Raad

In questo reportage ci interrogheremo sul legame tra arte, paesaggi, documenti e storia in alcune opere di due artisti appartenenti alla stessa generazione e nati nel cosiddetto Medio Oriente.
Da una parte, Walid Raad, artista libanese che si occupa principalmente di arti visive e di performance sulle guerre civili nel suo Paese. E dall’altro, il cineasta palestinese Elia Suleiman, che realizza film ispirati alla storia dell’occupazione israeliana della Palestina. Entrambi gli artisti sono andati in esilio negli Stati Uniti e attraverso il loro lavoro artistico invocano i loro luoghi di nascita.

In questo senso, siamo interessati alla proposta di Fernanda Caravajal di pensare all’esilio come a una perdita del paesaggio:

“Se esiste una dialettica tra il soggetto e la geografia, il cui territorio di mediazione è il paesaggio, da una certa certa prospettiva, l’esilio potrebbe essere inteso, tra l’altro, come una perdita di paesaggio. In effetti, il paesaggio funziona spesso come dispositivo di costruzione del territorio nazionale”.

Caravajal, 2012

Vale dunque la pena chiedersi come si manifesta la perdita del paesaggio nelle opere di Suleiman e Raad, quali paesaggi della loro patria costruiscono nelle loro opere e in che modo.
Costruiamo le figure di “paesaggio-limbo” e “paesaggio-fabbricato” come possibili risposte a queste domande.

Parole chiave: arte contemporanea

In entrambi gli artisti compare una forma estetica ibrida, che combina il documentario e ciò che di solito è considerato finzione, così come un incrocio tra personale e collettivo, pubblico e privato. Utilizzano documenti storici e autobiografici che fungono da inneschi per creare opere che hanno una forte componente ironica sui processi politici della regione nota come Medio Oriente. Entrambi sono andati in esilio negli Stati Uniti e invocano i loro luoghi di nascita: Nazareth, sotto l’occupazione israeliana e Chbani, in Libano, da lontano.

Si potrebbe dire che i due artisti realizzino opere di finzione o, come svilupperemo in seguito, “basate su eventi reali”, “parafiction”, poiché spesso le produzioni di questi autori toccano il campo del fantastico e del delirante.
Così ci portano a interrogarci sul legame tra arte, esilio, paesaggi, storia, memorie e documenti nel contesto dell’arte contemporanea.
Di seguito, proponiamo di analizzare alcune opere di questi artisti per ragionare su alcune possibili operazioni, incroci, somiglianze e differenze.

Costruire un paesaggio limbico attraverso il cinema: i film di Elia Suleiman

Elia Suleiman è un regista palestinese in esilio che ha vissuto negli Stati Uniti e in Europa.
La sua famiglia è rimasta a Nazareth, una città che è stata occupata dallo Stato di Israele fin dalla Nakba[1] del 1948. I suoi quattro lungometraggi Cronaca di una sparizione (1996), Divina Scomparsa (1996), Intervento divino (2002), Il tempo che ci rimane (2009) e Il Paradiso, probabilmente (2018), trattano principalmente la propria storia personale e familiare in parallelo alla propria storia personale e familiare in parallelo alla storia dell’occupazione israeliana.
Ritrae la vita quotidiana nella Palestina occupata e, allo stesso tempo, ritrae anche la Cisgiordania.
Questi ritratti si svolgono spesso in un contesto distorto, fantasioso ed esasperato.
Con il suo secondo film, Intervento Divino, ha vinto il Premio della Giuria e il Premio della Critica Internazionale al Festival di Cannes e la candidatura ufficiale della Palestina al Premio Oscar, che però non è stata accettata perché “la Palestina non è un Paese”, anche se l’anno successivo ha ricevuto un riconoscimento all’Academy of Arts and Sciences.

Elia Suleiman in un suo film

Iniziamo contestualizzando Suleiman nel contesto del cinema palestinese.
Nel libro Cinema palestinese: Paesaggio, Trauma e Memoria, Nureth Gertz e Michel Khleifi hanno individuato quattro periodi del cinema palestinese: il primo periodo è quello compreso tra il 1935, quando fu prodotto il primo film, e il 1948, l’anno della Nakba. Il secondo periodo va dal 1948 al 1967. Questo periodo è chiamato “l’era del silenzio”, in quanto praticamente nessun film fu prodotto a causa della situazione politica in cui si trovavano e vivevano gli artisti palestinesi. A poco a poco, questo silenzio ha cominciato a essere rotto, quando la fotografa Salafa Misral ha esposto istantanee della vita palestinese e dei suoi martiri. Nacque così l’esigenza di creare un archivio per documentare questa lotta.
Fu istituita l’Unità Cinematografica Palestinese e fu realizzato il primo film documentario, No a una soluzione pacifica, prodotto nel 1968 da Mustafa Abu Ali, considerato uno dei più importanti registi palestinesi e ancora oggi ricordato come uno dei fondatori del cinema rivoluzionario palestinese.
Questo segna l’inizio del terzo periodo, quello rivoluzionario. Tra il 1968 e il 1982 iniziano a essere prodotti film, soprattutto dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).
Prendono una posizione forte contro l’occupazione israeliana e mostrano la resistenza del popolo palestinese.
In questo contesto politico, l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza si espanse, e poi, nel 1967, ha avuto luogo la Guerra dei Sei Giorni. Il quarto periodo, come definito da questi storici, inizia nel 1982, dopo l’invasione israeliana del Libano e il massacro di Sabra e Chatila.
Come ha osservato il regista siriano Bashar Ibrahim, negli anni ’90 il cinema palestinese ha iniziato a essere visibile nei festival internazionali.

Nonostante il fatto che in Palestina non esista un’industria cinematografica vera e propria, a partire da questi anni la scena locale e internazionale ha iniziato ad assistere a una proliferazione di film e registi palestinesi.

Nella fase attuale, che possiamo definire la “new age”, i film sono intrinsecamente legati alla politica, concentrandosi sulla resistenza post-2000, l’epoca della seconda Intifada.[2]
Secondo Irit Neidhardt, sono state le produzioni indipendenti di Michel Khleifi che hanno permesso nuove forme di rappresentazione.
Queste direzioni guidano in un modo o nell’altro tutti i film realizzati a partire dal 1990, quando Elia Suleiman e Rashid Mashrawi presentarono i loro primi cortometraggi.
Interpretando i ruoli principali nelle loro stesse opere (Omaggio per un omicidio, 1993, Cyber Palestine, 1999), Suleiman porta l’espressione indipendente sempre più verso l’individuo. (Neihardt, 2010).

Di seguito ci concentreremo sul suo ultimo film, Il Paradiso, probabilmente, presentato in anteprima mondiale nel 2018 al Festival di Cannes.
Questo quarto lungometraggio segna l’inizio di una nuova fase, dopo la sua “trilogia dei film palestinesi”. Il film è costituito da tre capitoli che corrispondono alle tre città in cui Suleiman ha vissuto: Nazareth, New York e Parigi. In questi capitoli esplora l’identità globalizzata, i rituali obsoleti e la burocratizzazione della religione e della politica, l’iper-tecnologizzazione delle forze repressive statali e il ruolo innocuo dei funzionari pubblici.

Questo confronto tra luoghi produce, allo stesso tempo, un profondo contrasto con i giochi di somiglianza e differenze.
Questo film ci pone di fronte alla domanda su cosa significhi essere “cittadini del mondo”, una domanda che nasce dall’esperienza identitaria di Elia: il suo passaporto è israeliano, la sua identità nazionale è israeliana. È palestinese, anche se oggi la sua città natale si trova nei territori occupati.
E la sua cittadinanza è doppia: diversi anni fa ha adottato la cittadinanza francese, insieme alla compagna, la cantante libanese Yasmine Hamdam, che spesso collabora con lui.

Come in molti dei suoi film precedenti, le scene sono costruite in maniera molto razionale, dando l’impressione di essere state pensate. accuratamente. Lo stile di ripresa di Suleiman è basato sul montaggio di una serie di vignette, che sono praticamente mute, come il silenzioso personaggio principale, in quanto il protagonista, da lui interpretato, non parla abitualmente, ma sembra essere un testimone esterno, lasciando parlare gli altri.

C’è un privilegio della narrazione visiva, delle piccole azioni, con un tono di comicità inespressiva, che si combina spesso con un umorismo crudo sulla vita dei palestinesi che vivono sotto la tirannia di ciò che lui chiama “una patetica occupazione”. Il regista, che interpreta se stesso, sostiene un atteggiamento da flâneur globalizzato: contemplativo e immutabile.

I film di Suleiman esplorano diversi livelli di umorismo: da battute sottili e appena percettibili a un umorismo legato al cinema classico, in cui si verificano grandi momenti coreografici, che si costruisce attraverso i movimenti dei corpi.

Battute ciniche, assurde, ma c’è anche un umorismo grottesco, che gioca con gli eccessi e i cliché.
Come a citare centinaia di film della storia del cinema in cui i gesti di Buster Keaton, Jacques Tati e forse anche di Woody Allen.
Le scene si ripetono, insistono, ritornano trasformate. Ripetizione e variazione, ripetizione e differenza.

Per tutto il tempo il suo personaggio è in tensione tra il familiare e lo strano, un essere “dentro” e un essere “fuori”. In particolare in Palestina, essendo stato esiliato, ha uno sguardo strano ogni volta che torna nella sua città natale. Ed è questa distanza che gli permette di rompere con le convenzioni dell’arte militante, che addirittura satireggia, producendo scene assurde popolate da gag, che spesso sono messe in discussione dalla militanza tradizionale della causa palestinese.
Ne è un esempio il momento in cui, verso la fine del film, il personaggio di Suleiman chiede a una lettrice di tarocchi: “Cosa ne pensi? La Palestina esisterà?” O ancora, quando viene mostrata una ragazza che protesta a Central Park vestita da angelo e con la bandiera palestinese dipinta sul petto.

Il personaggio di Suleiman enfatizza il suo ruolo di cineasta, in una sorta di “messa in scena” della propria professione, in diversi incontri con i produttori, momenti di scrittura della sceneggiatura o semplici incontri con i colleghi.
Mette in discussione le condizioni della produzione cinematografica industriale e i suoi mandati, per esempio quando un produttore cinematografico gli annuncia: “Non è che vogliamo che un film sulla Palestina sia troppo didascalico o esotico. Ma potremmo quasi dire che il suo film non è abbastanza palestinese. È un progetto che non corrisponde alla nostra linea editoriale, nel senso che è ambientato in Palestina, ma avrebbe potuto essere altrove. Avrebbe potuto essere qui”, e per questo motivo, decidono di non finanziare il presunto film (che è quello che stiamo guardando).

Questa battuta si riferisce non solo alle richieste dei mercati cinematografici di oggi,  ma anche alla posizione politica di Suleiman di pensare la Palestina “oltre la Palestina”, come metafora di una problematica globale. Come ha dichiarato in un’intervista:

“Il conflitto arabo-israeliano è il conflitto del mondo e viceversa, quindi non so più quale sia il microcosmo di cosa, perché globalmente la Palestina si è moltiplicata e ha creato molti palestinesi. Penso che, se andate in Perù, anche lì troverete la Palestina come uno stato serio, grave (…). Questa è una realtà che si sta vivendo in tutte le parti del mondo, e non necessariamente solo tra i palestinesi. Voglio dire che si tratta di un’esperienza che può essere identificata con qualsiasi parte del mondo. Oggi viviamo in un luogo chiamato “globo”, un luogo fatto di esperienze multiple. I miei film non sono necessariamente necessariamente sulla Palestina. Sono palestinesi perché vengo da quel luogo – rifletto la mia esperienza, ma identifico tutti i palestinesi che esistono.”

(Suleiman intervistato da Sabah, 2011)

Verso la fine de Il paradiso, probabilmente, c’è un’altra scena in cui il regista ha un altro incontro fallito con una casa di produzione a New York.
In questa scena, l’attore messicano Gael García Bernal, che interpreta se stesso, si lamenta di un progetto futuro, una serie sulla conquista spagnola, in cui, paradossalmente, i conquistadores parlano inglese. Parlando al telefono, lo sentiamo dire: “Sono qui con il mio amico Elia, un palestinese della Palestina, non di Israele, che sta girando il suo nuovo film Il Paradiso può aspettare…”. Questa battuta richiama la temporalità dell’attesa, un’attesa in cui vivono almeno tre generazioni di palestinesi che sopravvivono in Palestina.

Locandina di Il tempo che ci rimane (The Time That Remains), 2009

Questo tema è già stato affrontato nel suo terzo film, Il tempo che ci rimane, soprattutto a partire dal titolo, a proposito del quale il regista ha detto: “Posso dire che si tratta di una sorta di avvertimento sulla regressione dello status quo.” (Suleiman intervistato da Sabah, 2011).

Nella teologia cattolica, il limbo si riferisce a uno stato o luogo permanente dei non battezzati che muoiono in giovane età senza aver commesso alcun peccato, ma senza essere stati liberati dal peccato originale, che può essere rimosso solo attraverso il battesimo.
Nella Divina Commedia di Dante il primo cerchio corrisponde al limbo. È il cerchio più grande dell’inferno. Qui si trovano pagani virtuosi e persone che erano buone, ma che, non essendo state battezzate, non possono entrare in paradiso.
Riteniamo che questo tempo di sospensione, su cui si insiste nei film di Suleiman, possa essere pensato come un tempo-limbo che, a sua volta, ci rimanda a un tempo-limite, che è per lo più legato ai territori palestinesi – ma non solo. Il limbo che è la Striscia di Gaza, con i suoi 2,048 milioni di abitanti su 365 km², e quello spazio labirintico che è la Cisgiordania, popolato da posti di blocco e insediamenti illegali[3], dove vive il popolo palestinese.

Per tutta la durata del film, il film ripercorre quello che il titolo annuncia: la promessa del paradiso, una promessa che è associata in linea di principio alla storia religiosa che segna questa regione del territorio palestinese-israeliano e, infatti, il film si apre con una scena religiosa a Gerusalemme, ma per tutto il film diventa una premessa del mondo globalizzato, delle sue grandi città cosmopolite che ci inducono a porci la domanda: qual è il paradiso di un regista palestinese? L’esilio? Il ritorno in una Palestina senza occupazione? Essere cittadino del mondo? Vivere a New York o a Parigi? Poter fare film senza dover necessariamente essere dei pamphlet per la causa palestinese o ritratti regionalisti?

E forse, al di là delle battute, uno dei cardini fondamentali di questo film è la possibilità di pensare non a un paradiso, ma a un paesaggio possibile dell’esilio, un posto nel mondo. Il cinema di Elia Suleiman è spesso considerato un cinema della disperazione, che mostra uno stato di rassegnazione. Ma come lui stesso ha dichiarato:

“Credo che il semplice atto di fare un film, è un atto di speranza. Quindi le domande sull’assenza disperanza sono in contraddizione con il fatto reale dell’esistenza di un film. Se non avessi avuto speranza, non avrei fatto un film intitolato Il tempo che ci rimane, quindi non credo che questa domanda si riferisca al mio essere, perché penso che ci sia speranza. C’è solo speranza. Altrimenti non farei film.”

(Suleiman intervistato da Sabah, 2011)

Se, come ha ricordato Caravajal (2012), l’esilio significa la perdita del paesaggio d’origine, in certe occasioni il cinema può funzionare come una macchina per costruire paesaggi dall’esilio. In questocaso, fare un film come atto di speranza, costruendo un luogo dove la diaspora palestinese possa abitare.

Invocare i paesaggi perduti: le fabulazioni di Walid Raad

Come ha detto un altro regista palestinese, Kamal Aljafari, il cinema può essere un Paese: “I film sono una ricerca di ciò che assomiglia al mio paese perduto. Il filosofo Theodor Adorno era solito dire che per un paese, la scrittura diventa un luogo in cui vivere. Io direi che per un palestinese il cinema è un paese”. (Aljafari intervistato da Boetti, 2011)

Nel caso di Walid Raad, figlio di padre libanese e madre palestinese, si tratta della storia della guerra civile libanese (1975-1991) – o delle “guerre civili libanesi”, al plurale, come ama sottolineare – che guida gran parte del suo lavoro artistico.

Walid Raad

Il suo progetto più noto, The Atlas Group (1989-2004), era un gruppo di ricerca artistica – di cui è stato l’unico membro – anche se era solito parlarne al plurale. Il gruppo Atlas si prefiggeva di svolgere compiti assurdamente esaustivi, come localizzare le autobombe fatte esplodere durante la guerra civile, come nella serie fotografica Siamo onesti. Il tempo aiuta (1998), realizzata durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982, su cui sono intervenuti con cerchi che mostrano le cicatrici lasciate dai proiettili e dalle bombe sugli edifici a seguito della guerra.

The Atlas Group, Let’s Be Honest. The Weather Helps (1998)

Questo progetto ha proposto una riflessione e una problematizzazione su come la storia possa essere raccontata e organizzata. La storia può essere raccontata e organizzata, ma anche costruita  e persino, come vedremo in seguito, fabbricata.

Raad condivide questa posizione con diversi artisti contemporanei, tra cui un altro artista libanese, Rabih Mroué. Come afferma la ricercatrice Aurora Polanco nel catalogo della mostra personale di Mroué in Spagna Image(s), mon amour: “Con la fabbricazione ci allontaniamo dall’organico, dal “vero”, per stabilirci nel cuore di una parola. Il cuore di una parola forte, con echi fotografici, brechtiana. Una parola che porta la forza e l’incantesimo, la linea retta e l’incantesimo” (Polanco, 2013, 23).

Nelle sue opere Walid Raad ritiene di inventare “documenti isterici”, di costruire “documenti” come archivio immaginario attraverso l’appropriazione di archivi reali, e in questo senso possono essere pensati come archivi ibridi. In un certo senso, le sue opere sono anche “fantasie costruite a partire da memorie collettive” (Respini, 2016), documenti che avrebbe voluto esistessero.

Le opere di Raad sembrano dirci: accediamo alla realtà attraverso le statistiche e i fatti, ma anche attraverso le esperienze, i ricordi, i sentimenti e attraverso la nostra immaginazione.

“Il gruppo Atlas segue il principio che il conflitto non è mai un’entità omogenea, i ricordi e l’esperienza personale quando racconta le storie” (Respini, 2016, 33). Un esempio di ciò è il suo lavoro Voglio essere in grado di accogliere di nuovo mio padre in casa mia, (2018) in cui prende il diario di suo padre durante gli anni della guerra, in cui descriveva la caduta libera della sterlina libanese e segnava anche il prezzo dei materiali da costruzione. Disegnò anche i tipi di bombe che caddero intorno alla sua casa, o almeno così Raa vuole farci credere.

Esposizione di Walid Raad

In un’altra sua opera, Meglio guardare le nuvole (2000-2015), realizza una sorta di rappresentazione scientifica delle specie vegetali i cui fiori sono realizzati con ritagli di volti di diversi politici. Questo artista non solo inventa i documenti, ma anche i personaggi che li hanno realizzati: questa risorsa gli permette di mettere in scena la prima persona, come un modo per dare autenticità alle sue storie.

Ad esempio, questi documenti sono stati presumibilmente donati da Fadwa Hassoun, una botanica che era a sua volta un ufficiale dell’esercito libanese in pensione. Il lavoro di Hassoun era quello di assegnare nomi in codice ai leader politici: Hosni Mubarak divenne la specie Malva neglecta; Mikhail Gorbaciov Purple Carline; Ronald Reagan Quercus coccifera o Kermes Oak; e Kamal Joumblatt in Oxalis articulata o Pink Sorrell. In questo modo, Raad ci dà accenni ai suoi scherzi e alle sue ironie e mette lo spettatore in un costante stato di allerta, dovendo essere sospettoso e interrogativo e mettere in discussione ciò che sta vedendo.

Secondo diversi autori, le opere di Walid Raad possono essere considerate anche come esempi di ciò che Carrie Lambert-Beatty ha definito “parafiction” (2009/2015). Questo concetto suggerisce che una delle strategie più frequentemente usate dagli artisti contemporanei consiste nella creazione di situazioni fittizie, che  agiscono come se fossero realmente accadute, finzioni che vengono presentate come fatti. Le parafiction sono costruzioni che hanno un piede nella realtà e l’altro nell’immaginario.

La loro caratteristica distintiva è quella di riuscire a sfumare i confini che separano queste categorie creando situazioni che, senza essere reali o fittizie, hanno un impatto sulla vita quotidiana degli spettatori. “Nella parafiction, le bugie raggiungono lo status di verità, anche se solo temporaneamente” (Lambert-Beatty, 2015).

In un’altra delle sue opere, Notebook vol. 72: Missing Lebanese Wars (1989/1998), introduce anche un personaggio che donai suoi archivi al Gruppo Atlas.
In questo caso, la figura dello storico Dr. Fadl Fakhouri gli permette di mettere in discussione la figura dello storico come arbitro della storia.
Questo progetto consiste in un quaderno in cui sono presenti alcuni ritagli di giornale – tra cui fotografie ritagliate dal giornale «An-Nahar», il primo quotidiano in lingua araba del Libano.
Si tratta di ritagli su fatti secondari e anche di note assurde: per esempio, le scommesse sulle corse dei cavalli all’ippodromo, in cui l’importante non era il cavallo vincente, ma la distanza tra il naso del cavallo e la linea del traguardo, immortalato nell’immagine della foto finale che veniva pubblicata sul giornale del giorno dopo. In questo senso si potrebbe pensare che Raad pratichi una “estetica della marginalità” (Scasciamacchia, 2016) in quanto si occupa di ciò che non ha valore, il residuo. In questo senso, potremmo pensare che il nome The Atlas Group sia una sorta di citazione o omaggio all’Atlas Mnemosyne di Aby Warburg.

La messa in discussione della veridicità della fotografia giornalistica è forse dovuta allo stretto rapporto che l’artista ha con essa, dal momento che, una volta esiliato negli Stati Uniti nel 1983, Raad ha seguito dei corsi presso il Rochester Institute of Technology (RIT).

In una testimonianza ricorda il suo primo rapporto con la fotografia e come si è evoluto nel tempo:

“Nell’estate del 1982, mi trovavo con altre persone nel parcheggio di fronte all’appartamento di mia madre a Beirut Est, e ho assistito all’assalto israeliano via terra, mare e aria. La Liberazione della Palestina e i suoi alleati libanesi e siriani hanno risposto come meglio hanno potuto. Beirut Est ha festeggiato l’invasione, o almeno così sembrava, e questo è certo. Beirut Ovest ha resistito, o almeno così sembrava, e questo è certo. Un giorno, mia madre mi accompagnò addirittura sulle colline intorno a Beirut per fotografare l’invasione dell’esercito israeliano che stazionava lì. I soldati deponevano i loro corpi e le loro armi in attesa dell’ordine successivo di attaccare o ritirarsi. Avevo quindici anni nel 1982 e volevo avvicinarmi il più possibile agli eventi, o il più possibile alla mia macchina fotografica e agli obiettivi appena acquistati. Chiaramente, non abbastanza vicino. L’anno scorso mi sono imbattuto nei negativi conservati con cura di quell’epoca. Ho deciso di guardare di nuovo.”

Raad, citato nel catalogo della mostra A Project by Walid Raad, The Atlas Group (1989-2004) al National Museum of Fine Arts di Londra.

Successivamente, ha conseguito un dottorato di ricerca in studi visivi presso l’Università di Rochester e il suo dottorato di ricerca sulla prigionia di ostaggi occidentali in Libano. Ha anche coinvolto la Arab Image Foundation (AIF), un’organizzazione fondata nel 1997 insieme all’amico artista Akraam Zaatari a Beirut, la cui missione è raccogliere, conservare e studiare le fotografie del Medio Oriente, del Nord Africa e della diaspora araba.

Insieme hanno realizzato la mostra Mapping Sitting su ritratto e fotografia (2002), che raccoglie fotografie vernacolari che includono immagini provenienti da album di famiglia e di studi fotografici. Attualmente, partecipa anche a un gruppo di artisti, scrittori e curatori denominato Gulf Labor o Gulf Labor Coalition, il cui scopo è quello di denunciare lo sfruttamento che avviene nei franchising del Louvre e del Guggenheim sull’Isola della Felicità (Saddiyat in arabo). Quest’isola nei pressi di Abu Dhabi ospita residenze, hotel di lusso, campi da golf, un porto turistico e un distretto culturale, che si prevede di realizzare grazie al capital gain.

Gilles Deleuze sviluppa il concetto di fabulazione a partire dall’incontro con Henry Bergson e dal suo testo Evoluzione creativa.
Per Deleuze, la fabulazione è resistenza, ma non reattiva, come credeva Bergson, bensì creativa, propositiva e attiva, poiché ha il potere di trasformare.
Da questa concezione, nella fabulazione “si tratta di creare verità piuttosto che dare verità per scontate e, in questo senso, l’arte non aspira a raggiungere l’ideale di verità, ma piuttosto alla presenza di molteplici presenti incompatibili”, come direbbe l’autore, una continua trasformazione, che permette il divenire. La narrazione non anela al vero, ma diventa l’essenzialmente falsificante, cioè la potenza del falso lascia da parte il vero e pone piuttosto forze o intensità. La verità, piuttosto che raggiunta, deve giocare ad essere creata per trasformare il punto di vista fisso delle cose e creare così un divenire. In questo senso, la fabulazione è un atto politico, diverso dalla finzione. La finzione appartiene, secondo Deleuze, alla parola del padrone. “La favolistica diventa diventa una forza attiva, creativa, che lascia da parte il reattivo, l’oppositivo e il reattivo dall’opposizione e dalla risposta, e realizza un atto di parola, cioè crea”. (Chaverra, 2018).
Per Deleuze la favola ha un ruolo importante nella letteratura e nell’arte: “per inventare un popolo che manca” (2006), cioè una possibilità di vita, una collettività futura.

Attraverso la creazione di nuovi concetti, di nuovi archivi, è possibile costruire nuovi mondi possibili, nuovi popoli e nuovi territori o, per dirla con Deleuze, un “nuovo mondo”.

In questo senso, riprendendo l’ipotesi che abbiamo posto all’inizio sulla perdita del paesaggio, potremmo dire che dal suo esilio Raad guarda la guerra da una distanza spazialmente e temporalmente distinta, in quanto insiste sul “guardare di nuovo”, e di fronte alla perdita del paesaggio, si trova a “guardare” e di fronte alla perdita del paesaggio d’origine, risponde con la creazione di opere che contengono paesaggi fabbricati. Favolosi perché sono ibridi di documentario e finzione, perché sono speculazioni: cosa “sarebbe potuto accadere”, cosa gli sarebbe piaciuto. Paesaggi che sono costruiti attraverso indizi, attraverso dati precari e dubbi, da archivi marginali come il diario del padre, le note manoscritte di Fakhouri, i suoi appuntile specie botaniche di Hassoun o le fotografie che mostrano le strade libanesi affollate di persone e disseminate di autobombe e di edifici bombardati.

Conclusioni: arte e storia come attività alchemiche

Questi due artisti invocano nelle loro opere i paesaggi perduti. Ma non è un tentativo di recuperare i paesaggi perduti come sono o erano, ma un’invocazione: li circondano, attraverso il gioco, l’umorismo, l’ironia, la speculazione, la parafiction e la fabulazione.
Con operazioni artistiche diverse, questi artisti scuotono i principi di ciò che crediamo essere la verità.
Ci portano a mettere in discussione il terreno politico. Giocano con il potere favoloso e immaginativo dell’arte per creare storie alternative parallele ai dati ufficiali della scienza, del giornalismo e della politica, con cui dialogano con ironia e umorismo.
Ci invitano a mettere in discussione la veridicità dei fatti e a notare il potere di chi trasmette le informazioni. Sia che si tratti di mettere in discussione la figura dello storico o dei media, come fa il Gruppo Atlas, che con tutto il suo lavoro ci mette di fronte alla permanente messa in discussione di ciò che è reale e ciò che non lo è.

Ma anche in Suleiman, che si interroga, per esempio, su chi e come prende il microfono in un atto militante della resistenza palestinese – una situazione che ricorre in quasi tutti i suoi film, con variazioni – o quando ci fa mettere in discussione le regole del cinema mainstream.

Come propone Roland Barthes, forse si può (anche) pensare allo storico come a un alchimista: “Lo storico non è, dunque, uno spirito critico, dotato di un potere esplicativo e posizionato in un atteggiamento di esplorazione: non è un lettore del passato; non decifra, ricompone; è un operatore, un chimico le cui manipolazioni sono incentrate sugli oggetti eterni dell’alchimia: la vita, la morte, i loro scambi” (Barthes, 2002). E anche l’arte può essere considerata un’attività alchemica, poiché manipola, stravolge e trasforma gli oggetti di uso quotidiano e può resuscitare storie opache e perfino realizzare processi alchemici sull’arte stessa.

In Suleiman, come abbiamo già detto, questa alchimia ricade sul ruolo del cinema quando mette in scena il suo processo produttivo e quindi mette “il cinema dentro il cinema”. In Raad, per esempio, quando realizza la sua opera Sezione 139 (2008), il cui spazio è un cubo completamente bianco che consiste in un modello in miniatura della stanza con le opere del Gruppo Atlas, ci mostra una fabulazione della propria mostra, trasformandola in una miniatura, mettendo un cubo in una miniatura e posizionando un piccolo cubo in una stanza in scala ridotta, che è la galleria.

Raad e Suleiman si affidano alla veridicità della finzione e all’assurdità del quotidiano: un taccuino di un presunto storico ci mostra annotazioni che cercano di misurare i dati assurdi e inutili di una corsa di cavalli, o quando un palloncino rosso con la faccia di Arafat si alza e attraversa un checkpoint[4] nel film di Suleiman, Intervento divino.
Il pallone vola in aria fino alla Città Vecchia di Gerusalemme e riesce ad attraversare tutti i confini illegali tra Israele e Palestina.

Copertina tratta da Il paradiso, probabilmente di Elia Souleiman
Traduzione di Irene Dorigotti


Maia Gattás Vargas è un’artista e ricercatrice audiovisiva di Buenos Aires. Ha studiato arte contemporanea latinoamericana e scienze della comunicazione. Tiene conferenze sulla teoria dei media e della cultura. Le sue opere affrontano il rapporto tra arte, scienza, paesaggio, natura e storia coloniale. Vento dell’Est è il suo primo lungometraggio. Insieme alla musicista Isabel Di Campello ha fondato un progetto di musica hip hop, “Palestina Mon Amour”.


[1] Nakba è un termine arabo che si riferisce alla creazione dello Stato di Israele il 15 maggio 1948 in terra palestinese. È una data controversa, che alcuni celebrano come la fondazione di uno Stato e altri piangono come l’inizio di una catastrofe.

[2] I film che cercano di essere un’alternativa al discorso israeliano dominante sul conflitto, sono quelli che costituiscono questa nuova ondata, all’interno della quale possiamo trovare Elia Suleiman.

[3] Gli insediamenti illegali, dove i palestinesi vivono da più di 73 anni, abitando un tempo in cui attendono la fine dell’occupazione e dove dove l’eterna promessa di liberazione è ancora lontana.

[4] I checkpoint sono postazioni militari israeliane che controllano gli spostamenti della popolazione palestinese a Gaza e in Cisgiordania.

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