«Mi parli un po’ di questa…» il dottore vaglia il suo jukebox mentale di parole psichiatricamente consone, «inclinazione nei confronti dei calzini.»
«Ho un debole per i calzini» taglia corto Saverio.
Il terapista getta il capo all’indietro e per un attimo l’impressione è quella di un attacco di narcolessia. Quando ne riemerge sfarfalla le palpebre faticando a mettere a fuoco la situazione. I ruoli medico-paziente, al momento, sono un po’ confusi, pensa Saverio. Poi con le orecchie tese controlla se nello studiolo non sedimenti l’eco di quanto ha pensato: non è più tanto sicuro che la sua laringe abbia mantenuto il riservo.
«Ammetterà che spesso con lei il discorso vada a parare lì» commenta il terapista da una distanza imprecisata. «I calzini.»
«Ho un debole per i calzini» ripete Saverio.
«Questo l’ho capito.»
«Voglio dire: ne ho tante paia. È la mia piccola (non dire mania, non dire mania) passione, un modo come un altro di collezionare oggetti. C’è chi lo fa con i francobolli, chi con le monete. Io ho scelto i calzini.»
Tu i grassi saturi, scocca Saverio facendo rimbalzare veloce l’occhio sul ventre e sul pube del terapista che, di concerto, formano una geometria perfettamente sferica lungo l’orizzonte della scrivania: il tramonto di un satellite remoto nel panorama di un remoto pianeta.
«La scorsa volta mi disse di avere perso un calzino» fa il punto il terapista.
Saverio scuote la testa con l’espressione di chi avverta una nota stonata. «Non proprio» precisa, «no: diciamo che mancava un calzino all’appello.»
«E immagino che lei fosse particolarmente affezionato al calzino in questione.»
Saverio inspira più aria che può, con molta calma. «Trattasi di collezione: è più che naturale cercare di preservarla integra, altrimenti non sarebbe più una collezione, sarebbe (che ne so?) un mucchio di roba senza senso.»
«E cosa ha fatto quando si è reso conto che gliene mancava uno?»
Carrellata di flashback in rapida successione: Saverio scatta con il cellulare una fotografia del calzino rimasto zoppo; Saverio scatta sei fotografie del calzino rimasto zoppo, seleziona la migliore, si affaccia al computer e apre l’applicazione che utilizza per impaginare testi e brochure; Saverio compone un volantino molto accurato dove in alto svetta la scritta “Mi hai trovato?”, al centro campeggia la foto raffigurante un calzino a righe gialle e blu, e in basso sono riportate indicazioni circa materiali, orari, sdrammatizzazioni di circostanza, oltre alle immancabili frange con impresso il numero da chiamare; Saverio manda in stampa trenta copie del volantino, le ammucchia per bene, si munisce di puntine da disegno e nastro adesivo; esce dalla porta di casa; constatazione sommaria delle facce dei passanti; valutazione del quadro d’insieme e di come, fino a quel momento, egli abbia agito troppo d’impulso e senza una strategia mirata; Saverio con l’indice spinge gli occhiali su lungo la china del naso facendo loro riguadagnare la posizione più consona, gesto che sottolinea una nuova presa di coscienza; scena finale – interno giorno – pila di volantini che precipita nel sacchetto della differenziata.
«Non ho fatto niente di particolare» risponde Saverio.
«Niente?»
«Scartabellato qua e là, le solite cose.»
Sulla scrivania del terapista manca la piantina delle volte scorse. Forse è morta. Saverio non sa nulla di piante, roba troppo spontanea per lui, troppo poco ortogonale. Eppure ci teneva a sapere se prima o poi dalla pianta sarebbe spuntato un fiore. Valuta se sia il caso di chiederne ragione al terapista, ma desiste.
Sulla scrivania del terapista manca la piantina delle volte scorse. Forse è morta. Saverio non sa nulla di piante, roba troppo spontanea per lui, troppo poco ortogonale.
Maria ha il profumo dei fiori. Non dei veri fiori: Saverio ne conosce pochi tipi, e prova disgusto per il profumo di ognuno di essi. Maria profuma dell’idea di fiori, e insieme di mattino, un mattino sereno di fine estate, limpido, più precoce di un’alba, quando la luce è appena un’intenzione a fior di labbra e le poche persone in giro paiono monaci incappucciati dalla penombra. Maria. Usciva ogni mattina alle sei per la sua camminata. Saverio usciva alla stessa ora a giorni alterni e correva per dieci, dodici chilometri. Di tanto in tanto, situazione meteorologica permettendo, allungava fino a venti.
La corsa è la capacità di trattenersi quando si ha tanto e di sprecare quando si stenta, è un esercizio di equilibrio e di incoerenza insieme: Saverio la pratica con estrema soddisfazione. A Maria l’esercizio di trasformare in energia quelle due spinte così contrarie non poteva piacere. Lei era per le geometrie piane, le linee morbide, i profili ondulati. E per di più fumava.
Saverio si chiede se non promanasse da lì, dal fumo, l’idea di mattino che comunicavano la pelle di Maria, i suoi capelli. Nello studio dello psichiatra/psicoterapeuta/medico-chirurgo Saverio si fruga in testa alla ricerca di un ricordo che giustifichi quell’associazione di idee.
«Come va con il farmaco che le ho prescritto?» chiede il terapista.
Saverio si stringe nelle spalle.
Maria non fumava tanto, ma certe cose non le poteva fare se poi, con una sigaretta, non ci metteva una spunta a fianco: non poteva finire di pranzare, cenare o fare colazione; non poteva staccare dal lavoro; non poteva sedersi tranquilla sulla tazza se prima e dopo non si era concessa una sigaretta; non poteva uscire dal cinema e infilarsi direttamente in auto.
Non fumava al chiuso, non lo sopportava.
«Ho incominciato a tredici anni.» Gli aveva confessato.
Saverio aveva fatto gli occhi come due fessure.
«È più la vita che hai passato a fumare di quella che hai passato senza.» Aveva concluso dopo un poco galante calcolo mentale.
«Mica fumo giorno e notte» si era difesa Maria debolmente. «A proposito, tutti quei calzini?»
Era inevitabile che prima o poi Maria sollevasse l’argomento.
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A furia di trovarsi al cospetto di Saverio in tenuta sportiva, Maria aveva cominciato a sorridergli e, di lì a breve, a salutarlo. Ai cenni di lei Saverio rispondeva il più delle volte con una specie di grugnito o, quando lo spirito lo assisteva, schiarendosi la voce e alzando due dita, un gesto di pace e bene che ricordava miseramente la posa di una statua di santo. La prima volta che si incontrarono dall’edicolante all’angolo, Maria attaccò bottone con disinvoltura. Saverio rispose a monosillabi. Da allora Saverio prese l’abitudine di comprare il giornale con cadenza quotidiana, cosa che Maria interpretò come un goffo tentativo di farle la corte, forse non del tutto a torto. Di lì a un paio di settimane guardavano al cinema un film premiato a Cannes e Maria, uscendo, si accese una sigaretta. Non avevano fatto in tempo a vederlo dall’inizio.
Saverio guidava la propria auto diretto al multisala fuori città. Maria attingeva a ruota libera dal proprio passato: paure d’infanzia, vagabondaggi adolescenziali, l’università. Parlare con lei era come fissare un grande domino, guardare le sue tessere cadere docilmente, una dopo l’altra, senza sforzo: il tono leggero di lei, quella sua normalità riposante.
Poi gli eventi si misero per traverso.
Trovarono il parcheggio sotterraneo del multisala praticamente deserto. Saverio rallentò, sfilando fra le colonne in cemento armato, immune al richiamo delle strisce gialle dei posteggi liberi. Mentre usciva e rientrava nel parcheggio una prima volta e poi una seconda, avvertì lo sguardo di Maria posarglisi addosso come un grosso uccello su un cavo elettrico troppo sottile.
«Scusa.» Si limitò a dirle.
Con la coda dell’occhio intravide gli angoli inaspettati di un sorriso. La tirò in ballo: «Dove credi sia meglio parcheggiare?»
«Che ne dici di…?» E con il dito gli indicò un posto qualunque, vicino alle scale mobili.
Saverio ci si infilò deciso. Poi deciso fece retromarcia. Ci si infilò di nuovo. Poi ci ripensò: «La metto al contrario se non ti ‘spiace.» Maria annuì. Saverio fece manovra, ma ebbe un ennesimo ripensamento e parcheggiò al contrario, sì, ma sul lato opposto. Infine tornò a parcheggiare dove gli aveva detto Maria e nel verso in cui lo aveva fatto la prima volta.
«Andata?» tentò Maria con tono incoraggiante.
«Andata» confermò Saverio. E poco dopo, asciugandosi i palmi sui pantaloni: «Mi dispiace.»
«Niente che un bidone di pop-corn non possa aggiustare.»
Saverio sorrise con poco trasporto fissando il volante da dietro le lenti che si andavano appannando. Persero le prime battute di un film il cui senso, per una ragione o per l’altra, nessuno dei due comprese appieno e sul fondo del secchiello dimenticarono tre dita buone di pop-corn.
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«Negli ultimi tempi ha preso qualche decisione di sua spontanea volontà?» chiede il terapista con un sorriso indulgente. Per settanta euro a seduta il medico è la cosa che più si avvicini a un transfert con sembianze paterne.
Saverio si cala come meglio può nel ruolo del figlio: mente. «Ho deciso di non rinnovare l’abbonamento ai canali sportivi.»
Il suo unico, vero confidente, da un paio di anni a questa parte, è tale @samsa_barbecue, avatar di un forum popolato da una nutrita schiera di bipolari, narcisisti, ninfomani, ipertimici, depressi cronici, ossessivi compulsivi, borderline, mitomani et alia fra le fila dei quali figura anche il nostro Saverio.
«Ho mollato Maria» digitò Saverio, sperando che @samsa_barbecue rispondesse in fretta. Da tempo aveva smesso di tentare di indovinare il volto dietro a quel nickname: poteva trattarsi di un ragazzo iscritto al secondo anno di psicologia come della terza o quarta personalità di un borderline alcolista a un paio di ansiolitici dalla quota suicidio. Non aveva importanza. Saverio immaginava ritto al terminale un tizio in giacca e pantalone tweed coordinato, cravatta regimental, mani appoggiate in mezzo all’ordine maniacale di una scrivania e – ovvio – lunghe antenne su una testa di blatta dietro un paio di occhialetti spessi. In sintesi: il suo migliore amico ideale.
La risposta arrivò dopo qualche minuto. «Una decisione di tua spontanea volontà, complimenti. Fammi indovinare: la ragazza voleva uscire dalla saletta d’attesa e tentare la sortita al sancta sanctorum. Ma il tuo Mossad emotivo l’ha fatta fuori prima che toccasse il maniglione antipanico.»
Faccia buffa di Saverio. «Ahimè, il mio inconscio è del tutto sprovvisto di maniglioni antipanico.»
Faccia buffa di @samsa_barbecue.
Oltre al forum psico-confidenziale, l’altro sito che Saverio frequenta più spesso è un negozio on-line di abbigliamento con una ricca selezione di biancheria intima. Ogni settimana, dal sito in questione, nella casella di posta elettronica, Saverio riceve la newsletter con gli ultimi arrivi della categoria di prodotti da lui selezionata: calze da uomo taglia quarantatré. Saverio, ogni martedì, acquista un nuovo paio di calzini, il primo della lista suggerita, qualunque sia il colore, qualunque la fantasia.
Maria osservava asettica i quattro cassettoni pieni di calze di ogni tipo, senza mostrare intenzione di volere indagare oltre. «Li indossi tutti?»
Non era esattamente la domanda che Saverio si aspettava. «Mai tutti insieme» rispose.
Maria rise. «E te li ricordi tutti?»
Non aveva previsto che Maria abbozzasse a quel modo, lei per cui la massima espressione di eccentricità era dimenticarsi addosso gli occhiali da sole entrando in ufficio. Eppure la sua mimica facciale era tutta comprensione, non-chalance e divertita curiosità. Anzi: «Mi piace questo tuo modo di vestire, sempre grigio e incolore in superficie e imprevedibile, eclettico in profondità.»
Saverio deglutì rumorosamente.
Da tempo aveva smesso di tentare di indovinare il volto dietro a quel nickname: poteva trattarsi di un ragazzo iscritto al secondo anno di psicologia come della terza o quarta personalità di un borderline alcolista a un paio di ansiolitici dalla quota suicidio.
«Mica male, la ragazza!» Aveva commentato @samsa_barbecue. «Potrebbe sembrare l’anima gemella, ma sono più incline a pensare si tratti di sindrome della crocerossina.»
Saverio valutò se i settanta euro a seduta non avesse fatto meglio a dividerli equamente fra @samsa_barbecue e Maria.
«E comunque quella roba non è altro che una camicia di forza chimica» aveva continuato, riferendosi al farmaco prescritto a Saverio: come andare dal meccanico perché la propria auto sbanda e uscirne con due cilindri in meno e tutte e quattro le ruote sgonfie. Per non parlare degli effetti collaterali.
E a Saverio quella recensione sarebbe anche potuta bastare. Ma poi era accaduta la cosa del parcheggio al cinema; e c’era stata la sera in cui era dovuto tornare a casa due volte nel giro di mezz’ora perché non riusciva a convincersi di avere chiuso il portone a doppia mandata; poi l’incontro casuale con un’amica di Maria («ti presento Saverio» «ah, lui?» aveva detto l’amica; solo «ah, lui?», con un’inflessione per cui Saverio aveva trascorso una notte insonne); e la fatica di fare le cose più banali; le angosce immotivate; e infine la statua del nanetto che Maria teneva – chissà poi perché? – sul proprio terrazzo trasformato in micro giardino pensile: in quell’angolino addobbato con tanta cura stonava come un naso da clown sul volto di una venere.
(«L’hai fatto cadere di proposito?» Maria fissava perplessa i cocci sparsi fra la polvere di gesso. Saverio ne incassò lo sguardo preparandosi al peggio, incapace di mentire. «Oh beh» minimizzò lei, «effettivamente non era un granché a vedersi.»)
In più c’era la questione del calzino mancante che, per quanto si sforzasse di tenere a bada, finiva sempre per affacciarsi nei suoi discorsi più di quanto avrebbe desiderato.
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Il medicinale andava sciolto in acqua e preso due volte al giorno dopo i pasti. Gli effetti collaterali più clamorosi furono: aumento di peso, dolore articolare, spossatezza, pelle secca, unghie rovinate, caduta dei capelli, problemi di concentrazione, apatia. Maria notò il cambiamento dopo appena due settimane. Alla fine della terza incominciò a fare pressioni perché Saverio cessasse la terapia: «non ne hai bisogno», non c’era ragione per cambiare qualcosa, nulla a cui porre rimedio, nulla da aggiustare, il concetto di normalità era solo un’accozzaglia fortuita di etichette, «sei un brav’uomo», dolce, premuroso e incredibilmente profondo e quella era l’unica cosa che contava.
Salendo le scale che portavano all’appartamento di Maria, Saverio ripassò mentalmente quella lista di confortanti luoghi comuni. Avrebbe voluto accucciarvisi dentro, immergersi nella loro quiete amniotica, ma un malessere fra la gola e lo sterno gli inviava segnali inequivocabili: non era giusto. Non era giusto che lui si appoggiasse alla normalità di Maria, alla sua ingenuità, al suo desiderio di aiutare gli altri; non era giusto che la trascinasse nelle sue nevrosi, che la sfruttasse per quel bisogno mai sopito di poggiare il capo sul grembo di qualcuno affinché questi gli sussurrasse che «tutto andrà bene»; c’era qualcosa di imperdonabilmente vizioso nel ricalcare le stesse rotte di sempre: ripetere errori che conosceva già; mietere vittime incolpevoli; trasformare prima o poi in avversario ogni presenza familiare. Avrebbe voluto mettere in fila quelle parole e servirle a Maria con voce ferma e sguardo deciso, sarebbe forse stato più uomo, ma non avrebbe scontato niente alla mediocrità di un discorso in fin dei conti ben misero.
Così, quando Saverio spalancò infine il portone di Maria e se la ritrovò dinnanzi, non riuscì a fare altro che guardarla sconsolato. Spinse gli occhiali su lungo la china del naso facendo loro riguadagnare una posizione più nitida, scosse la testa, appoggiò il mazzo di chiavi sul tavolino dell’ingresso e senza dire una parola prese la prima vera decisione da qualche tempo a quella parte, restituendo a Maria la prospettiva di una vita serena, il desiderio biologico di una famiglia che di certo su di lui non avrebbe mai attecchito o che, peggio, avrebbe generato aberrazioni e, forte di quella convinzione, girò sui tacchi e uscì in silenzio dalla vita di lei.
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«E oltre a correre cosa fa per rilassarsi?» chiede il terapista.
«Passo l’aspirapolvere.»
«Mi venga pure a trovare, quando vuole levarsi un po’ di stress.»
Risata di circostanza.
«Passo l’aspirapolvere sulle moquette» precisa Saverio. «Guardo cambiare il colore del tessuto quando la bocca dell’aspiratore ci passa sopra. Si disegna un rettangolo più scuro che lentamente fagocita la parte più chiara. Mi appagano le cose che si incastrano a dovere, che si completano: riordino la mia libreria, i miei calzini; gioco a Tetris; smonto, pulisco e riassemblo parti meccaniche che ho in garage.»
«Capisco.»
«Mi piace che le cose abbiano un ordine, almeno quelle che mi riguardano. Che aderiscano per bene. Per questo mi chiedo come io abbia fatto a ignorare i dettagli.»
«Chiedo scusa?» Il terapista si è appena riavuto da uno dei suoi momenti di smarrimento.
«I dettagli.» Come il nano da giardino e il luogo in cui l’aveva già visto.
«Mi piace che le cose abbiano un ordine, almeno quelle che mi riguardano. Che aderiscano per bene. Per questo mi chiedo come io abbia fatto a ignorare i dettagli.»
«È suo questo?». L’uomo stringeva in mano un libro, ma da quella distanza Saverio non riusciva a decifrare nulla della copertina. Allungò il collo oltre il muretto che divideva il suo microscopico, spoglio fazzoletto di terra da quello lussureggiante del vicino.
«L’ho trovato infilato nella griglia» spiegò l’uomo.
«La griglia?»
«Il barbecue.»
Nello spazio di un francobollo l’uomo era riuscito a infilare alberi da frutto, ortaggi, fiori, un camminamento, statue di gesso e persino un barbecue. Saverio pensò fosse urbanamente consono fargli i complimenti. L’uomo ne gongolò e un piglio duro che si era scolpito fra le sue sopracciglia si rilassò. Con un gesto della mano abbracciò i pochi metri quadri come fossero ettari a perdita d’occhio. «Mi costa lavoro, ma dà soddisfazione.» Annuì per fare sedimentare quella consapevolezza.
«Capita però che arraffino qualcosa, sa? Di tanto in tanto.»
«Davvero?»
«A voglia! Frutti, fiori. Mi è sparita pure una statua: un nanetto.»
«…»
«Giuro. E potrei scommettere che si sono fregati pure i calzini stesi ad asciugare.»
«…» reiterò Saverio.
«Beh, un calzino a dire il vero. Capace l’abbia trascinato via il vento, per carità.» Concesse l’uomo. «A righe gialle e blu. Magari è finito da lei.»
Saverio scosse la testa, circospetto.
«E il libro?» Incalzò l’uomo.
Saverio fissò i caratteri sulla copertina, l’illustrazione dello scarafaggio che non sarebbe piaciuta all’autore.
«Gregor Samsa…» gli uscì di bocca, mentre qualcosa dentro gli inciampava goffamente, dolorosamente. «No.»
L’uomo allontanò il volume dal viso quel tanto da avere ragione della propria presbiopia. «Qui dice Franz Kafka. Le appartiene?»
Saverio scosse di nuovo il capo dietro alle lenti appannate e già non ascoltava più mentre il vicino virava su innesti, bulbi e periodi in cui piantare.
Saverio si sorprese a ridere fra sé: la sola volta che aveva deciso qualcosa in tutta coscienza si era sbagliato. Ora si spiegava perché due cose tanto diverse avessero finito per incastrarsi così bene, perché si sentisse così poco straniero fra i confini di Maria: la strada era sempre stata lì, solo nascosta alla vista. Doveva concentrarsi sui dettagli, sugli indizi. Lei voleva che la trovasse, che non desse nulla per scontato, fosse anche a costo di rimetterci, di giocarsi per sempre quell’occasione.
Saverio sorrise ancora. Pensò di salire le scale di Maria con in mano una grossa calza, una grossa calza piena di pop-corn. Pensò a due lenti opache che acquistano nitidezza sovrapponendosi, alla resistenza che fa il torace nell’espellere aria e alla volontà che serve per convincere il corpo che solo così può incamerarne di nuova.
Pensò al capo di Maria sul suo grembo mentre le sussurrava: «Andrà tutto bene.»