Il poema eroico femminile | Un estratto da “Figlie del sé. L’epica rivoluzionaria di Amelia Rosselli e Patrizia Vicinelli” di Marzia D’Amico 

È possibile ravvisare nell’opera poetica di Amelia Rosselli (1930-1996) e Patrizia Vicinelli (1943-1991) un esempio di scrittura epica moderna? A questa domanda risponde Marzia D’Amico, ricercatrice che lavora sulla poesia femminista verbovisuale, con il libro “Figlie del sé. L’epica rivoluzionaria di Amelia Rosselli e Patrizia Vicinelli”, edito da Mimesis, un contributo al dibattito sul ruolo che ha avuto la letteratura femminista nel panorama poetico italiano. Ne pubblichiamo volentieri qui un estratto.

Nonostante sia stata autorevolmente annunciata,[1] la fine della poesia nel XX secolo non è avvenuta. A dispetto di ogni paternalistico e greve tentativo di disincanto, la poesia e la figura del poeta si sono mantenute salde nella loro multiformità, declinandosi in maniera inclusiva ed estroflessa dichiarando una capacità di adattamento che pacificasse la tensione tra tradizione e innovazione continuamente. A dimostrarsi particolarmente malleabile è stata la poesia scritta dai soggetti subalterni, capace di vivacizzare i margini della cultura letteraria canonizzata; è il caso della poesia scritta da soggetti non maschili in Italia. Non tanto la letteratura è venuta a mancare, quanto un’agilità di periodizzare,[2] aprendo così a una simultaneità di discorsi e codici: un’instabilità data dall’assenza di un punto univoco di osservazione e di narrazione; questa instabilità ha destabilizzato i generi, il concetto di canone (e anticanone), la netta separazione tra pubblico e privato, informando così ogni ibridazione formale e contenutistica. L’esclusione dal panorama letterario istituzionale, anche nella tarda novecentesca fase di cambiamento, si mantiene costante per i nomi di donne. Come prontamente catalogato da Biancamaria Frabotta:

In generale la presenza delle donne nelle antologie della poesia italiana del dopoguerra è tradizionalmente quasi inesistente. Basterà qualche esempio: nessuna poetessa nella prima edizione Lirica del novecento curata da L. Anceschi e S. Antonielli (Firenze, Vallecchi, 1953); una sola poetessa nella prima edizione della Poesia italiana contemporanea curata da G. Spagnoletti (Parma, Guanda, 1959); tredici poetesse nell’ampissima raccolta di E. Falqui, La giovane poesia (Roma, Colombo 1956) che nella seconda edizione conta ben 140 poeti. Le cose non miglioreranno con l’avvento della neoavanguardia e del Gruppo ‘63: il Manuale di poesia sperimentale di G. Guglielmi e E. Pagliarani (Milano, Mondadori, 1966) non conta presenze femminili.[3]

Nonostante un certo ritardo rispetto alle esperienze internazionali, la poesia scritta da donne è ben presente nel panorama letterario italiano. Si tratta di una poesia che proietta la propria ombra oltre l’altezza irregolare del muro della lirica pura radicata nella tradizione italiana, un confine spesso imposto criticamente da una lettura superficiale e univoca della produzione non-maschile.

La consapevolezza autoriale che si è sviluppata a partire dal secondo dopoguerra, e più specificamente dai moti politici e artistici che contraddistinguono gli anni Sessanta e Settanta, viene praticata nella dimensione della scrittura in versi: questo sviluppo oltre-lirico della scrittura di donne è stato però spesso ridotto e assimilato proprio alla forza di quei movimenti, come potesse in qualche maniera estinguersi in un’esperienza più extra-letteraria e, così, perdere della programmaticità formale e stilistica. L’appuntamento con l’inesorabile necessità di rivendicazione di spazio di genere – che ha trovato una sua specificità nel contesto politico-sociale in figure di riferimento quali, ad esempio, Carla Lonzi[4] – ha inevitabilmente prodotto una riflessione all’interno della scrittura poetica di matrice femminile. Ciò nonostante, l’originalità delle voci che hanno saputo riformulare queste necessità sociali in poesia è stata de facto sottovalutata o, quantomeno, non canonizzata.[5]

Dal bisogno di reinterpretare il carattere femminista dei testi poetici delle autrici contemporanee nelle sue forme artistiche, lessicali, e specifiche nasce dunque il manifesto Fragili Guerriere, a firma di Rosaria Lo Russo e Daniela Rossi.[6] In questo manifesto, le autrici sottoscrivono non solo l’intento di praticare la poesia come necessità espressiva di un “Io poematico” marcatamente femminile, bensì rintracciano nelle figure di Amelia Rosselli e Patrizia Vicinelli quello di madri di un nuovo genere di poesia. La parola genere assume quindi una doppia valenza, pertinente nella sua duplice declinazione alla carica espressiva un genere nuovo del Soggetto poetico attivo, quello femminile; e un genere (quasi mai) praticato autorialmente: quello dell’epica.

Sia Rosselli che Vicinelli praticano un loro attivismo nel quotidiano, pur non riconoscendosi nell’esperienza dei collettivi femministi nazionali vivono secondo valori e pratiche femministe. Come possono proprio le loro esperienze radicarsi così fortemente nella storia come nella storia della letteratura italiana tanto che è possibile interrogare queste autrici oggi come maestre di una conoscenza della pratica prima di tutto poetica di esperienza originale e originaria? L’innovazione totalizzante del fenomeno che individuano Lo Russo e Rossi sta nell’ardire col quale queste autrici entrano nell’agone di un genere essenzialmente precluso alle donne: l’epica. Ne consegue una rivoluzione stilistica, tematica, ed etica che si consacra grazie alla scrittura di poemi di carattere eroico e fondativo: La Libellula e Impromptu, di Rosselli, e Non sempre ricordano e I fondamenti dell’essere, di Vicinelli.

Nel manifesto si legge che “Amelia Rosselli con La libellula, composta fra il ’58 e il ‘62 e Patrizia Vicinelli con I fondamenti dell’essere, scritto fra l’85 e l’87” inaugurano una “nuova poetica antiliricistica e poematica e di carattere sperimentale, in forte opposizione con il canone letterario italiano, ovviamente maschile, e al contempo in lacerante dialogo con esso, e fortemente interrogativo rispetto ad esso, soprattutto in relazione alla riformulazione, sovversiva ed eversiva, dell’imperante Io poetico, onnipresente (ovvero sia lirico che poematico) eroe della nostra tradizione letteraria”.

A differenza dei risultati anti-eroici delle pratiche maschili, però, il singolare posizionamento dato dalla loro marginalizzazione sociale e letteraria – prima di tutto in quanto donne – offre l’opportunità di raccontare la Storia attraverso la formulazione di un soggetto eroico moderno, attraverso un processo di ‘sliricizzazione’ originale che nella sua declinazione costituisce un modello femminile di possibilità.

Diversi elementi si combinano nell’esaltazione di questa nuova marca stilistica, elementi che raccolgono un mandato di affermazione nel contesto del mondo reale e che gettano le basi per una riscrittura nella dimensione poetica secondo nuovi connotati. Fragili Guerriere difatti, evidenzia la difficoltà che muove inevitabilmente le scelte di Rosselli e Vicinelli, le quali sviluppano una propria poetica guardando a “santi padri” – per citare Rosselli – eppure smarcandosi al contempo dagli stessi, per riuscire magistralmente nell’azzardo che è il “guadagnarsi sul campo l’autorizzazione a scrivere”. Un campo di battaglia – quello del mondo – fortemente antifemminile, entro il quale affermano una propria voce autonoma in relazione e in contrasto al canone secolare. A loro volta però, con conquistata autorialità, le autrici ripropongono un campo di battaglia nella dimensione poetica, già per le sue caratteristiche di epica rimembranza. La ripostulazione dell’Io poetico femminile acquisisce dunque un formidabile potere politico e letterario nella loro esperienza, che non perde la sua carica eversiva negli anni e anzi si pone alla base della “proposta di mobilitazione culturale” del manifesto sulla base della “rinascita degli ideali del movimento femminista”. Non ignorando la diffidenza che ambo le autrici hanno dimostrato nei confronti del movimento femminista (italiano) loro contemporaneo ma anzi interrogandola, è possibile individuare quegli elementi di liberazione di genere che i testi (e le figure) di Rosselli e Vicinelli hanno ispirato, avviando quella che Lo Russo descrive come la “novità della poesia epica scritta da donne”.

Amelia Rosselli, fotografia di Dino Ignani

I primissimi versi de La Libellula sono certamente tra i più noti dell’intera produzione rosselliana, e le letture proposte dalla critica dimostrano spesso facile coesistenza. La stratificazione progettuale attraverso la quale il poemetto si offre in lettura consente di osservare diversi aspetti simultaneamente. Immediatamente però è interessante puntualizzare come, a livello puramente formale, il richiamo ai “santi padri” in questa forma vocativa rimandi a una similitudine con la formulazione di un vero e proprio proemio.

Come osservato in precedenza da La Penna, ci troviamo davanti a un sistema di scrittura che spesso si inspessisce attraverso un capace uso dell’ironia; tanto che quella stessa invocazione non costituisce un avvicinamento effettivo, quanto piuttosto una pura evocazione. Si nominano, quindi, santi padri cui “non si tributa omaggio, o [di cui] si accetta l’aiuto elargito, ma da cui polemicamente ci si distanzia”. La tradizione – in questo momento tutta presente nella sua manifestazione formale – costituisce la struttura entro la quale prende il via un movimento costante di un soggetto libero, o che aspira a essere tale. Questa autonomia viene rimarcata già nel v. 2, dove al “prodotto cangiante” dei padri si oppone non un’alternativa ma una decisione: “io decisi” infatti è il primo caso di un lungo ricorrere alla puntualizzazione di un io cosciente che riprende le fila di sé lungo tutto il poema. E nonostante le difficoltà della scelta (“il salto per un addio più difficile”, v. 4) il gesto viene eroicamente compiuto, in distanziamento dall’eredità tutta maschile che premeva per forgiarne l’esistenza personale e poetica.

Amelia Rosselli, La Libellula

L’agency del soggetto poetico si manifesta quindi già dal secondo verso, e va rinforzandosi anche a livello strutturale agendo dentro e fuori del testo, come per il caso del verso nono: 2oh io canto per le strade” (v. 9). Il proemio infatti viene rinforzato da una formula similmente audace, che torna a battere sia concettualmente che sonoramente sulla ripetizione della prima persona singolare ma coniugando il verso a un presente storico perpetuo. Oltretutto, tale chiarificazione pone non solo il soggetto come elemento centralissimo del poemetto, ma inevitabilmente torna a Rosselli in quanto autrice, legittimando sé stessa nella sua scrittura: entrambi, questi, elementi che nell’indagine sul concetto di epica femminile si confermano fondamentali. La scelta di far precedere all’io quella breve e semplice formula di invocazione crea una dinamica che verrà perpetuata per tutto il poemetto, sottolineando la dialogicità sempre elevatissima tra il soggetto e la comunità cui si rivolge, così come Rosselli e il suo pubblico. Non a caso, la stessa autrice dichiara: “[m]i immaginavo come una grande folla per cui scrivevo”.[7] L’attenzione di quella folla viene richiamata perché il versificare di Rosselli, il parlare alla gente della gente, si istituisca nella sua forma più prossima a quella epica: carattere fondamentale del genere è difatti, da sempre, il canto. La scelta di adoperare il verbo cantare affonda le radici nella più antica tradizione della narrazione delle gesta e della storia, nella sua primaria essenza di convalidare l’esperienza pubblica. Questo, nella consapevole elevazione del soggetto poetico – soggetto narrante, testimone della storia che dà voce alla storia – per via della sua coscienza (vd. «Dunque / come dicevamo io ero stesa […]» vv. 13-14, enfasi mia).

L’espediente proemiale iniziale trova un’eco nella formula del verso nono, che a sua volta pare eco di un noto incipit proemiale quale quello di Virgilio:

«oh io canto per le strade»                               «Arma virumque cano»

Come Virgilio che scrive in dialogo e in opposizione a Omero, così Rosselli canta accanto ai “santi padri” della tradizione letteraria, le cui voci nel verso appena precedente premono sul suo narrare autonomo in un “echeggiare violento” (v. 8). Canta, Rosselli, tra la rarefatta eppur ancor udibile presenza del passato e in una direzione apparentemente incerta, poiché “solo il santo padre / sa dove tutto ciò va a finire” (vv. 9-10). Sfidando le narrazioni precedenti e l’impossibilità umana di conoscenza universale, il soggetto si impone comunque centralissimo nel suo narrare e non si lascia schiacciare dalle due morse. Al contrario, Rosselli lascia spazio per l’espressione di un desiderio: che la “benedetta benedizione” del confessore “[io vorrei] fosse fatta di pane e olio” (v. 13). La semplicità della benedizione suggerita non evoca solo il semplice linguaggio che Rosselli va cercando, bensì si cala anche nella situazione storica e intellettuale sua contemporanea con criticità.

Patrizia Vicinelli, fotografia di Alberto Grifi

È l’autrice stessa a definire l’esperienza poematica di Non sempre ricordano come poema epico: questo appare alla sua pubblicazione come parte integrante del titolo dell’opera, nel 1985 per Ælia Læia, alla terza riscrittura. La stesura di questa lunga epopea difatti subisce tre rimaneggiamenti, datati con rigore filologico da Cecilia Bello Minciacchi 1977, 1979 e poi, nel 1985, proprio a ridosso dell’imminente pubblicazione.

La tendenza performativa dei testi di Vicinelli si manifesta su carta come nella dimensione orale, duplicando l’intensità di relazione con il suo pubblico d’arrivo, ponendo l’attenzione sulla tensione tra autrice e testo, tra testo e pubblico, tra autrice e pubblico.[8] La presenza fisica di Vicinelli, infatti, è intesa e da intendersi come vero e proprio strumento per manifestare performativamente il testo, che nelle sue diverse forme di resa esprime le diverse opportunità dello script testuale, come una partitura. Difatti, Non sempre ricordano subirà diversi interventi dalla sua prima stesura, perdendo per motivi editoriali il “forte portato grafico manoscritto, ricco di disegni e di soluzioni verbovisive”.

Era composto […] da splendidi tazebao a colori oggi purtroppo perduti; e un’altra stesura, sempre manoscritta, si dipanava su lunghi taccuini. Il carattere mutevole dei taccuini (o sezioni) del poema – ogni capitolo una nuova avventura – apparteneva fin dall’inizio all’intento di “epico” di Patrizia Vicinelli[9]

È già corretto riferirsi alla stesura testuale di Vicinelli come esperimento verbovocovisivo, essendo espressione della lezione Futurista delle possibilità offerte dalla tipografia (dimensioni, disegno, disposizione) per fornire indicazioni su come i testi lineari vadano performati vocalmente. Nel Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912, e più precisamente al punto 7 del supplemento datato 11 agosto – un’aggiunta al Manifesto principale come “risposta alle obiezioni” – è subito chiara l’intenzione marinettiana di fare dei ritmi cui può alludere la tipografia un’indicazione per una performance già mentale:

Uno spazio bianco, più o meno lungo, indicherà al lettore i riposi o i sonni più o meno lunghi dell’intuizione.

Si creano poi, sempre facendo agire i caratteri di stampa, degli ictus che gerarchizzano le parole nel corso della lettura, e allora:

Le lettere maiuscole indicheranno al lettore i sostantivi che sintetizzano una analogia dominatrice[10]

Si intuisce un’analogia tra la tecnica del paroliberismo e quella delle composizioni di Vicinelli in diversi aspetti pratici che si manifestano nella versione definitiva di Non sempre ricordano: l’uso efficace degli spazi e dei segni (semantici e paratestuali) al fine di coinvolgere attivamente il lettore, e le indicazioni che gli stessi costituiscono per l’azione del testo nello spazio performativo (orale, gestuale, sonoro). Viene lasciata invece da parte l’esperienza più adiacente ai contemporanei nazionali e internazionali coinvolti nella creazione e promozione della poesia concreta, ovvero “rivolta all’analisi dei supporti materiali; e decisa, su questa strada, a uscir fuori non solo dai confini della letterarietà, ma anche da quelli della letteralità […] per invadere i campi delle arti visive e sonore”.[11]

Patrizia Vicinelli, Non Sempre Ricordano

L’esigenza di Vicinelli di mandare alle stampe questo esperimento di scrittura è tanto forte da portarla a rinunciare a alcuni aspetti visuali e grafici che avrebbero rimandato la pubblicazione a tempo indeterminato; il primo progetto editoriale, così come immaginato dall’autrice in conformità con le precedenti produzioni poetiche o – più largamente intese – artistiche, come citato, accompagnava al testo a stampa vere e proprie sezioni riportate con grafia manuale dell’autrice stessa e numerosi tazebao. La rinuncia a questi ulteriori esperimenti para-testuali è certamente sofferta per una poetessa sperimentale e d’avanguardia come lo è stata Vicinelli, altresì la centralità di quest’opera per la sua poetica, e per l’impatto filosofico che Vicinelli riteneva questo testo in grado di possedere, la spinse a rinunciare ai suddetti, e presentare così il lavoro come potenzialmente concluso – su carta – nella sua forma prettamente lineare. Con ancora più accortezza si deve dunque trattare la disposizione e la scelta tipografica ragionata di quegli elementi che costituiscono il testo edito, e dando loro il giusto valore concettuale e assieme comunicativo.

Copertina ed estratto per gentile concessione di Mimesis Edizioni

Marzia D’Amico, poeta e traduttrice, è FCT Junior Researcher presso il Centro di Studi Comparati (CEComp) dell’Universidade de Lisboa. La sua ricerca esplora l’interazione tra tradizione e sperimentalismo nelle sue forme, espressioni, linguaggi e codici, con un’attenzione particolare alle implicazioni socio-politiche dietro la produzione di poesia verbovisuale da parte di soggetti non maschili. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Letteratura Italiana presso l’Università di Oxford (2019), dove ha indagato la revisione dei generi e l’autorialità femminile nell’Italia del XX secolo attraverso un’analisi approfondita del meccanismo letterario adottato dalla decostruzione intenzionale del genere epico di Amelia Rosselli e Patrizia Vicinelli.


[1] G. Ferroni, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Einaudi 1996, ma di stesso umore anche A. Belardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Bollati Boringhieri 1994, e sempre di A. Belardinelli, Poesia non poesia, Einaudi 2008.

[2] N. Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, il Mulino, Bologna 2005, p. 157.

[3] B. Frabotta (a cura di), Donne in poesia, Savelli, Roma 1976, p. 18.

[4] Carla Lonzi è stata filosofa e critica d’arte. La sua carriera di attivista e scrittrice del movimento è ricordata soprattutto dalla fondazione del gruppo politico Rivolta Femminile (stilando il Manifesto di Rivolta Femminile), che dà nome anche a una piccola casa editrice. Per queste edizioni Lonzi pubblica i suoi maggiori interventi critici sul tema della differenza sessuale e dell’autocoscienza. Fondamentale anche per lo spirito critico di questa tesi è Sputiamo su Hegel (1970) nel quale l’autrice critica ferocemente l’impostazione patriarcale anche del movimento politico e culturale di stampo marxista comunista.

[5] Per un’ulteriore rassegna delle antologie italiane contemporanee: C. Segre e C. Ossola, Antologia della poesia italiana. Novecento, Einaudi, Torino 2008 (solo Pozzi e Rosselli); R. Deidier, Da un luogo anteriore, Pequod, Ancona 2008 (dedica equilibrato spazio a diverse donne della “scuola romana”: Frabotta, Frezza, Cascella, Sicari, Bre); E. Sanguineti, Poesia italiana del Novecento, Einaudi, Torino 2007 (nessuna menzione); A. Afribo, Poesia contemporanea dal 1980 a oggi, Carocci, Roma 2007 (Valduga, Anedda); E. Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino 2005 (Rosselli, Valduga, Anedda); D. Piccini, La poesia italiana dal 1960 a oggi, Rizzoli, Milano 2005 (Rosselli, Lamarque); G. Manacorda, La poesia italiana oggi. Un’antologia critica, Castelvecchi 2004 (Anedda, Cavalli, Lamarque, Merini, Rosselli, Tarozzi, Valduga) quest’ultima riporta 7 autrici su un totale di 40 nomi, certamente un progresso dall’uscita della forse più rinomata antologia del Ventesimo secolo a cura di P. Mengaldo, Poeti del Novecento, 1978 nella quale troviamo unica poetessa citata – Amelia Rosselli – su un totale di una cinquantina di autori.

[6] Rosaria Lo Russo è poeta, traduttrice, saggista, lettrice-performer, voce recitante e insegnante di letteratura e lettura di poesia da alta voce (come recita la nota biografica del suo sito ufficiale). Daniela Rossi si occupa di poesia dal vivo come organizzatrice di eventi e festival letterari; ha curato tra le altre cose gli archivi multimediali in supporto delle edizioni Fuoriformato (Le Lettere) di Corrado Costa e Patrizia Vicinelli, e ha fondato nel 1990 “Riso Rosa – progetti sulla creatività e l’ironia delle donne”.

[7] M. Venturini, S. De March (a cura di), È vostra la vita che ho perso, p. 211.

[8] O addirittura triplicando, lì dove intervengono alla creazione o alla performance diversi media che filtrano, accompagnano o dialogano con il testo e la sua resa, come nel caso di un supporto visivo (e.g. proiezione di pellicola) o fonico (e.g. uso spettacolarizzante del microfono).

[9] C. Bello Minciacchi, ‘Introduzione’, in P. Vicinelli, Non sempre ricordano, pp. XXVII-LVIII (XLI). Purtroppo, questa prima versione è andata perduta, ne viene tramandata però la descrizione utile già di per sé a un raffronto critico. Scrive in merito, ad esempio, Lorenzini: “[…] me li aveva mostrati Patrizia – nove stesure in forma di poster, sorta di Tazebao a colori, e altre prove su taccuini snodabili orizzontalmente”. N. Lorenzini, in P. Vicinelli, op.cit., p. XVI.

[10] G. Manacorda (a cura di), I manifesti del futurismo 1909-1913, Empirìa, Roma 2001, pp. 108-112: 111.

[11] R. Barilli, A proposito di «Zeroglifico», “il verri” n.2, settembre 1976.

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