L’attesa

Il tentativo di soffocare una vibrazione spesso l’amplifica. È di questo ossimorico contrasto tra vibrazione e silenzio, movimento e quiete – nel quale è riassumibile la logica dell’universo stesso – che la creazione di Vinnie Marakas, già autore dell’album Pour Les Enfants, si fa messaggera. Un morso sul legno. Una forza attutita, ovattata che proprio sotto il lenzuolo che tenta di coprirla rivela la sua animosità e potenza. La sua direzione è verso l’interno, a tentare di sondare ancora i linguaggi misteriosi del pensiero e della coscienza. Ne viene fuori un canto interiore svuotato dalla presenza di un Io lirico, abbandonato alle suggestioni infinite della mente.
La musica nella quale il testo affoga e riemerge, nel frattempo, trascina melodicamente l’ascoltatore in questo oceano al di dentro, spingendo anch’egli/ella all’abbandono dell’Io in favore della sola vibrazione.

(Lorenzo Lombardo)

non riesco a pensare il silenzio
pesare ogni minuto gelido
che immobile mi trapassa

fermo
e sazio d’ansia
ascolto il frigorifero ansimare

intanto
un lembo di muro bianco
fa da specchio al tempio interno

neon serpeggiante tra i gusci d’uovo spezzati
e visi di fumo pallido
che forse ridono di me

neon serpeggiante tra i gusci d’uovo spezzati
sommerso inverno immenso
che spento resta tondo e incerto

quando a un tratto
in fondo al buio intatto e terso
un botto, cauto
ma intenso
fa il verso a un vetro infranto

ed io cado,
ed io cado,
ed io cado
m’acquieto e muovo e cado
e muovo e cado
e muovo

ancora echeggia un colpo
lento

e di nuovo mordo il legno

Testo, voce, musica e video: Vinnie Marakas


VINNIE MARAKAS è profeta e impostore, il nome della sua opera è scritto sul manto delle tigri.

Bandamianto

Socchiudo gli occhi, trattengo il fiato, le braccia come ali distese ad assorbire le particelle di equilibrio diluite in uno spazio chiuso che trasuda piscio, ruggine e candeggina. L’acido lattico impregna le fibre e coagula nei muscoli delle gambe che tremano per sforzo e paura, ginocchia flesse in un inchino svogliato. Il cuore batte lento e i polmoni gonfiano i propri alveoli trasformandosi in vesciche natatorie nel tentativo inutile di farmi tornare in posizione eretta. Alzo lo sguardo al cielo, vedo il battente della finestra sfiorare un soffitto di nuvole gonfie di pioggia che pulsano come una giugulare recisa e osservo le goccioline d’acqua lottare con la forza di gravità per riuscire a galleggiare nel silenzio di un temporale. 

Partivamo dall’edicola accanto al Bar Savoia in sella a biciclette cigolanti; ogni mattina le stesse strade prima di fermarci nel giardino del castello a raccogliere mozziconi di sigarette.

Bandamianto. Ci chiamavamo così fin da quelle estati senza scuola grondanti di una noia che incollava le magliette alla pelle, giornate perse dentro lo scheletro spolpato dello stabilimento Eternit, un relitto incagliato nel panorama monodimensionale delle risaie.
Partivamo dall’edicola accanto al Bar Savoia in sella a biciclette cigolanti; ogni mattina le stesse strade prima di fermarci nel giardino del castello a raccogliere mozziconi di sigarette. Poi in discesa lungo il viale alberato verso la vecchia fabbrica, dove una recinzione sbocconcellata dalle fauci degli anni fungeva da blando deterrente per un gruppo di ragazzini di provincia con le gambe da insetto stecco e gli zaini pieni di sogni sulle spalle. All’interno delle mura la carcassa del blocco uffici, invasa da piante infestanti intente a ricamare inesorabili lichenificazioni geometriche, marciva sotto il sole tra cataste di macerie e immondizia. Entravamo da una finestra, incurvavamo le schiene e ricordo che poi dovevamo camminare su di un’asse sospesa nel vuoto, in silenzio, un passo dopo l’altro, mentre il cuore martellava la gabbia toracica ogni volta che lo sguardo si perdeva nel buio della voragine sotto di noi. Raggiungevamo in fila indiana il locale mensa, l’unico rimasto intatto, anomala reliquia di un passato effimero perso nella memoria. Esuli detenuti in una prigione dorata, fumavamo tabacco bevendo birre da pochi spiccioli, immersi in luci polverose, credendo di poter sconfiggere chiunque e diventare degli eroi anche solo per un giorno, come nella canzone di Bowie.
E qualcosa in quello spazio fuori dal tempo s’impossessava dei nostri corpi, imputridiva le nostre anime ancora candide e aggrediva le speranze dell’adolescenza ossificandole in una sorta di silente brumazione.

Esuli detenuti in una prigione dorata, fumavamo tabacco bevendo birre da pochi spiccioli, immersi in luci polverose, credendo di poter sconfiggere chiunque e diventare degli eroi anche solo per un giorno, come nella canzone di Bowie.

Riemergevamo da lì mutati fin nelle molecole, col desiderio di avere ogni cosa. Subito. Cominciammo con piccoli furti, poi rapine imbevute di sangue, adrenalina pura che ci avvelenava. Ogni volta rientravamo nelle viscere pulsanti della fabbrica, cani randagi che tornano da chi li nutre sapendo di essere loro stessi un pasto e lasciavamo sempre qualcosa di noi, come l’esuviazione di un serpente che restringe invece di accrescere.
Quando è arrivata Bianca pensavo di poter cambiare vita perché le risate di una figlia sono come il soffio di una valanga, la parte intangibile di ciò che è destinato a sconvolgere tutto.
Sbagliavo.
Bianca era nata una sera d’autunno e aveva ricevuto in dote il coraggio delle foglie accartocciate che resistono sui rami e la silenziosa malinconia delle giornate nebbiose.
Inginocchiato in lacrime davanti al suo lettino, ricordo di averle mentito, promettendole che non sarei più andato laggiù, mentre lei mi stringeva il volto, in cerca di una briciola di verità. Alla fine, sorrideva e annuiva, forse trovando un flebile chiarore disperso nel profondo. Un giorno, però, quel qualcosa ha sussurrato alle nostre orecchie, ha insinuato il dubbio che Bianca fosse un pericolo per Bandamianto, una spina conficcata nelle carni che ne rallentava il passo e la fine della sua esistenza sarebbe stata un sacrificio necessario per spingersi oltre. Un istante che ha destabilizzato la tensione superficiale di una vita e ha scosso il mio cuore di padre, una mioclonia sovversiva che ha reindirizzato un destino forse già scritto.

Alla fine, Bianca sorrideva e annuiva, forse trovando un flebile chiarore disperso nel profondo.


Ora, nascosto nel bagno di un Autogrill, i ricordi diventano reali e la realtà offusca il ricordo. Ascolto la pioggia sull’asfalto del parcheggio e sento le tenebre farsi vicine. Vorrei avere nella tasca della giacca una cimosa magica che cancelli parte del passato e sovrascriva memoria con altra memoria, così da morire senza rimpianti, ma le mie lacrime annacquano quest’ultimo desiderio. Non posso dimenticare i cadaveri dei compagni che ho ucciso a uno a uno e ho abbandonato al loro solitario destino di putrefazione. E non posso dimenticare che per salvare Bianca, i suoi capelli fini, la pelle che profuma di sogni, devo essere certo che nessuno possa farle del male. Me compreso. Non ho più tempo, non posso indugiare oltre, sento che qualcosa sta già invadendo l’amigdala del mio cervello per controllare la paura. Un lampo rischiara la notte e riluce sulla mia pelle sudata e pallida. Poi ritorna il buio. Sento il bisbiglio delle ombre, recido i polsi in profondità, abbandono il corpo, fotogramma immobile che precede una mortifera dissolvenza in nero.

Illustrazione di Gabriele Salvo Buzzanca

Lo zen e l’arte di saper fare fiorire un ricordo

Il 1984 è, grazia a George Orwell, un anno tanto simbolico da essere entrato prepotentemente nel linguaggio comune. Meno comune è invece pensare a questa data come quella in cui venne alla luce il capolavoro degli Husker Du, Zen Arcade.
Un concept album composto da 23 canzoni che “sporcano” l’hardcore con cui si erano fatti conoscere nei precedenti dischi con influenze folk, psichedeliche, a tratti addirittura pop, il tutto per raccontare la storia di una giovane persona nell’America degli anni ’80: spaesata nel vedere come il mondo si stava trasformando sempre di più in un grande centro commerciale, arrabbiata nel sentire sulla propria pelle i soprusi che tante altre persone vivevano mentre altra gente ingrassava, nostalgica verso qualcosa che non sapeva neanche definire (esiste un termine bellissimo in tedesco per questa sensazione, “sensucht”).
Ecco, sarà forse perché si autodefinisce “hardcore zen” e ho fatto una banale associazione di idee, eppure leggendo Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento di Alice Diacono, da ora VDBCUPSIM, ho provato sensazioni simili, una sorta di affinità d’intenti fra una giovane donna residente a Bologna e quei tre ragazzotti di Minneapolis.

Illustrazione di Agnese Ugolini

Alice Diacono ha già pubblicato sul terzo numero di «Neutopia», Dopo la fine, un suo testo sul Centenario della Rivoluzione d’Ottobre ed è autrice di una raccolta di poesie, Il tempo di un bidè, e di un saggio sull’insurrezione comunista a seguito dell’attentato a Togliatti del ‘47, Santa Libera: storia di un’insurrezione armata.
VDBCUPSIM si compone di una serie di piccoli racconti, anzi di “romanzi condensati”, inframezzati dalle belle illustrazioni di Agnese Ugolini, in linea con la poetica dell’autrice. Questi racconti parlano di tantissime cose, ma il trait d’union è proprio l’autrice stessa, dato che sono letteralmente “pensieri” sulla sua vita, i suoi parenti, la politica, i suoi amori, il tutto narrato con una vena ironica che per davvero più di una volta strappa un sorriso.
È difficilissimo poter valutare criticamente un libro del genere, nella sua semplicità: a che pro trovarne i lati positivi o negativi quando si parla della sua vita?
La Diacono pesca a piene mani dal primo David Foster Wallace per la tendenza a rendere epico il realismo isterico e a scrivere lunghi ed estenuanti elenchi, così come da Miller nel creare una sorta di intimità fra lei e i lettori o le lettrici, ma anche dal linguaggio dei social network raccontandosi così nella maniera in cui tutte e tutti abbiamo imparato a parlare e pensare, e in una certa maniera rende finalmente grande il linguaggio piccolo di tutti i giorni, tanto che questo può essere davvero un libro per chiunque, dato che travalica le ormai vetuste distinzioni fra letteratura alta e bassa, fra realismo e fiction, fra prosa e poesia.

La Diacono pesca a piene mani dal primo David Foster Wallace per la tendenza a rendere epico il realismo isterico e a scrivere lunghi ed estenuanti elenchi, così come da Miller nel creare una sorta di intimità fra lei e i lettori o le lettrici.

Lei descrive il suo lavoro come “hardcore zen” e forse è davvero l’etichetta che più le si addice: veloce, graffiante e a prima vista semplice come il punk hardcore, profonda e allo stesso tempo leggera come i proverbi zen.
Malgrado l’ironia e l’aria di spensieratezza che permea tutto il libro, in ogni “racconto” si percepisce una sottile tensione che ci dice tanto del mondo in cui viviamo.
Quel senso di precarietà in una Bologna che si trasforma a suon di tigelle e manganello, quella Bologna che sgombera Xm24 dalla Bolognina per costruirci sopra uno studentato che si vanta di essere nel “cuore della ribellione della città”, la fragilità di tante persone che ci passano accanto, la rabbia per chi ha edificato il mondo che viviamo accompagnano in sottofondo le storie divertenti di Alice.

L’utero è mio e lo gestisco io è un’affermazione un po’ forte. Diciamo che è più lui a gestire me.

Si sorride, leggendo questo libro, ma a denti stretti, e improvvisamente si scorge un collegamento fra la sua vita e il suo saggio sul proletariato che in armi tenta di vendicare Togliatti e viene fermato dal PCI e dai socialisti.
Perché in entrambi i casi sorge spontanea una domanda: “E se fosse andata diversamente?”

Alcuni giorni agisco come se
non avessi paura del futuro.
Decido deliberatamente di far finta di essere tranquilla,
di non avere ansie e incertezze.
Mi aggiro per casa con movimenti dolci e lenti,
contemplando gli alberi fuori dalla finestra,
mentre sorseggio una tazza di tè verde
che faccio finta di farmi piacere perché dicono faccia bene
e aiuti a combattere i radicali liberi.

Alice Diacono, Antropocena

Ad accompagnare i testi c’è una playlist che indovina più di ogni altra cosa l’umore di un libro più complesso di quel che sembra a una prima lettura: c’è la provocatoria vitalità de Le Ragazze di Porta Venezia di Myss Keta, certo, ma anche i ritmi secchi e sferzanti, proprio come alcuni suoi versi, dei DAF e lo scambio dialettico fra il “pieno” e il “vuoto” dei Demdike Stare.

Eppure, continuo a pensare che nell’epopea di VDBCUPSIM ci sia la stessa tensione che animava gli Husker Du (o i Minutemen di Double Nickels On The Dime, altro album che mi è passato spesso per la mente leggendo questo libro): nel caos grigio di questo realismo capitalista, il tentativo di mettere un disordinato ordine partendo da se stessi/e e da ciò che ci sta più vicino.
Del resto, Husker Du in norvegese vuol dire “Ti ricordi?”

Alice Diacono, Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento, Battaglia Edizioni, 2019
Illustrazioni di Agnese Ugolini, Introduzione di Franco “Bifo” Berardi
202 pagine