Nostra signora dell’ipocrisia | Il privilegio di giudicare le scelte altrui

Cloe Bianco, la ex-professoressa transgender che si è tolta la vita dando fuoco alla roulotte in cui alloggiava, era stata licenziata dal suo ruolo come prof di Fisica proprio a causa del suo cambio di genere. Dallo “sconforto” dei ragazzini al cambio di ruolo – da prof a segretaria, perché rimanesse nascosta – fino all’abbandono di tutto e alla solitudine nel suo camper.

Nessuna maschera dietro le mani | Un’intervista a Somma Zero

Somma Zero, all’epoca Simone Tencaioli, scrive e produce i suoi progetti ed è stato vincitore della seconda edizione del Premio Sanesi, avventura che gli ha consentito di intraprendere il viaggio di scrittura di Peek-a-boo!, il suo nuovo progetto, che sta per uscire per Radiobluenote Records e che vede alle produzioni il fondatore del collettivo torinese, Davide Bava. In occasione di questa nuova uscita, anticipata qualche mese fa dal singolo X, abbiamo deciso di contattare Somma Zero per ascoltare assieme il nuovo album e chiedergli come lo sviluppo dell’opera abbia preso forma.

Ciao Simone, benvenuto. Cominciamo dalla fine: il tuo nuovo lavoro, Peek-a-boo!, è un concept album a tinte cangianti, assieme fosche e energiche, lunare e solare. In questa terra di mezzo, intrecciati nei testi, si alternano immagini di un tempo statico, circolare, a cui ogni ribellione viene ricondotta come altra strada per la stasi, e invece la ricerca continua e speranzosa di una chiave di apertura del loop, in cerca di un nuovo inizio, e il tutto confluisce nella frase con cui il disco termina, “l’alfa è solo un simbolo spezzato d’infinito”. Come vivi, in questi testi, i due temi del tempo e della speranza?

Ciao Isidoro, cominciamo da una fine che in realtà è un inizio. Il verso a cui fai riferimento l’ho scritto più di dieci anni fa. Andare a pescare così lontano nel tempo è un modo per manifestare al contempo ciclicità ed evoluzione. All’evoluzione si collega la speranza, ciò che mi ha spinto a buttarmi in questo progetto. Immaginare e creare a parole una realtà migliore, sia esterna che interna, è il primo passo per stare meglio.

All’interno del tuo rapporto con la scrittura sul suono si è sempre di più incontrato un lavoro metrico cesellato e intenso, che qui in Peek-a-boo! libera soluzioni molto differenti tra loro, seguendo lo svilupparsi del racconto interno all’album. Come è cresciuta, per te, la tua scrittura, con questo ultimo disco, considerando che per la prima volta ti sei trovato a confrontarti con delle produzioni non tue?

È stato un esercizio interessante. Nei miei lavori precedenti testo e base crescevano su linee quasi parallele. Qui mi sono trovato a confrontarmi con una struttura preesistente, sulle prime è stato molto difficile. C’è stata una svolta quando ho capito che il testo non doveva a tutti i costi seguire rigidamente questa matrice, ma poteva farsi a sua volta schema. È come se avessi composto una seconda strumentale fatta di parole che si integra alle musiche di Davide.

L’esperienza della traccia Sproloquio, dalle sonorità che evadono molto da quelle in cui il resto del disco è ammantato, porta in scena il tema della maschera, indossata (per poi liberarsene) dal protagonista del disco sia come tramite per liberare altre parti di sé che per ottenere, tramite un’attitudine diversa, qualcosa a cui altrimenti non avrebbe accesso. Non posso non pensare al tuo agire sotto pseudonimo, quindi ti chiedo: percependo qualcosa di estremamente intimo nelle tue produzioni, quali sono i gradi di separazione tra Somma Zero e Simone?

In questo caso lo pseudonimo non crea dal nulla un’altra identità. Ha una funzione simile al titolo che si dà a un’opera: conferisce una direzione all’agire e fa da prima chiave di lettura per ciò che viene prodotto. Non è tanto una questione di gradi di separazione, quanto di gradi di intensità. Più che di maschera parlerei di trucco scenico, non nasconde i lineamenti ma ne rinforza o mitiga l’aspetto. Trovo che le operazioni artistiche che antepongono il personaggio alla persona siano dannatamente noiose.

La scelta di un racconto, nel concept, che oscilla tra una voce interna che racconta il proprio stare e una voce esterna ma partecipante che si estende al generale e sembra parlare sia al protagonista che all’ascoltatore come se avesse già attraversato queste tematiche, si accomoda bene alla piegatura temporale che l’album descrive. Ma, all’esterno, da artista che ha prodotto l’opera, a chi diresti che questo intero disco sia riferito? A chi parla?

Voglio che passi un messaggio di positività. Credo che la musica debba avere un ruolo di supporto sia a livello personale che sociale. Personalmente questo progetto mi aiuta tantissimo nel quotidiano, non so come potevo farne a meno sino a qualche anno fa. I dialoghi che si possono intravedere nei testi sono un collage di pensieri rimasti tali, frasi dette o sentite dire, rimpianti, fantasticherie e speranze. Mi piace mescolare le carte e far scomparire mittente e destinatario. Qui arriviamo al livello della ricezione esterna. Non c’è un ascoltatore designato. Parlo a chiunque faccia bene sentirsi dire determinate cose.

Questa è la tua prima uscita dopo il Premio Sanesi, anticipata qualche mese dal singolo X che ha segnato il tuo ingresso in Radiobluenote Records, per la quale Peek-a-boo! uscirà e che vede alle produzioni il sopracitato Davide Bava e al microfono, in un featuring, Brownie, due membri del collettivo con i quali hai già partecipato ad alcuni live. Quali saranno le direzioni che prenderanno i tuoi lavori, nel futuro? Hai qualche desiderio specifico?

Ho una memoria digitale strapiena di progetti da ultimare. Credo di avere già a disposizione il materiale per la prossima uscita, solo non ne sono ancora pienamente consapevole. Poi in questi mesi ho incontrato un sacco di artisti validissimi. Mi piacerebbe mettermi alla prova con un’esperienza diametralmente opposta a Peek. Lasciare per una volta la scrittura e produrre un disco dove far convivere più artisti e generi differenti.

NEMESI

è
come se non ci capissimo più
io sempre più saldo [fermo]
nella mia convinzione
sempre più stanco [cerco]
di avere ragione
sull’incertezza [il fine]

della mia condizione

mi guardo intorno e trovo solo torvi attori
[sorridi o muori]
chi mi parlava del futuro ora mi tiene fuori
[fatti tuoi]

eppure questo cuore mio non sa attutire i tonfi e i contraccolpi

niente più davvero [sclero] mi tiene a freno [fremo]
ho da riscattare un debito [spero] di fremiti non spesi [tremo]
senza assenso o pentimento
tento di aver la meglio
su un inverno parassita
che si insinua, si attorciglia
avvizzisce meraviglia
in tralci e viticci
di intralci e capricci
non cerco lusso
il mio agio è tra meticci e meretrici

è vero spesso opporre i sogni al nulla porta incomprensioni
fisso l’orizzonte è limpido, si sta avverando
la promessa scritta a mano con il sangue caldo
due figure si contendono in un limbo metafisico [granitico]
un diritto che il mito relegava al destino
ho capito
che il mondo è il punto di arrivo
per uno spirito che taglia i fili
al suo burattino

Testo e voce Somma Zero
Produzione e musica Davide Bava
Illustrazione di Eleonora Ballarè
RADIOBLUENOTE RECORDS © 2022

Get up, stand up. Una storia d’amore | Andrea Frau

Jin conobbe Irene in negozio. Lì ci passava dieci ore al giorno, non avrebbe potuto conoscerla in un altro posto. L’attività, classico negozio di cinesi, era della sua famiglia. E per famiglia s’intende padre, madre, fratelli, zii biologici e non, inclusi vari cugini, in senso molto lato, come chiosava sempre lui.

Il fatto che lui uscisse con una ragazza italiana non era visto di buon occhio dalla famiglia, genitori in testa. Jin si vedeva con l’italiana magra, come la chiamavano i suoi, dopo lavoro. Rimanevano a chiacchierare in macchina anche fino all’alba. Quando bevevano un po’ più del solito lei provava anche ad abbozzare qualche frase in mandarino, per lei era facile parlare d’amore, perfino in quella lingua straniera, lui invece faceva fatica, non aveva ancora trovato una lingua adatta ai suoi sentimenti. Il cinese era la lingua del rifiuto, della rabbia, l’italiano quella del sarcasmo e del disincanto. Quando lui arrivava a lavoro, sbattuto, con gli occhi pesanti, la madre lo guardava come se quello fosse il ritratto della vergogna. Vergogna che avrebbe disonorato tutta la famiglia, compresi i cugini in senso lato, per chissà quanti secoli.

Irene studiava lingue orientali, per cui lui, scherzando, le diceva che la loro più che una relazione sembrava un tirocinio. Quando ci lasceremo ti spetteranno 6-7 crediti, la scherniva. Lei dopo la laurea avrebbe voluto andare a Shanghai per imparare sul serio la lingua e questo fatto era motivo di liti. Era ironico come un ragazzo che aveva rinnegato le sue radici fosse innamorato di una ragazza occidentale che recitava Confucio e praticava tai-chi. A Confucio preferisco Osho o Coelho e al tai-chi il wrestling in TV, ghignava lui. Quando lo diceva si immaginava la statuetta di Mao piangere sangue e ne provava sadico piacere. Lei metteva il muso quando lui esagerava, ma lo giustificava, trovando tenero quel disincanto un po’ malinconico. Mettiamola così, io ho eretto una grande muraglia e il tuo amore mongolo cerca di espugnarla, ironizzava Jin.

Irene aveva ancora le cuffie che comprò il giorno che si conobbero. Cuffie che, dopo un anno, sorprendentemente, funzionavano ancora. E allora pensò che tutti gli oggetti, come gli amori giovani, sono delicati ed è il modo in cui te ne prendi cura a fare la differenza. I ragazzi pensavano al loro amore come a un’efemera contro natura.

Le loro conversazioni erano incontri di lotta, parevano una sitcom. Si divertivano a inscenare piccoli scontri di civiltà, amavano punzecchiarsi e, visti da fuori, erano molto divertenti.
Tu mi hai trovato in questo negozio nel reparto cinici asiatici venduti all’imperialismo americano. Non posso che essere merce scadente.
Veramente le mie cuffie funzionano ancora.
Ma non pensi al male che fai al made in Italy?
Non fornisco il mio utero alla patria, non sei l’unico traditore, evidentemente.
Non so manco io chi sono. Sono una volgare imitazione di un italiano, una cineseria senza valore.
Sentire dire cineseria da te è come vedere Primo Levi che distribuisce I Protocolli dei Savi di Sion.
Cerco di copiare malamente le emozioni di voi italiani, faccio del mio meglio.
Ma smettila, con me non attacca. Ti ho visto commuoverti ascoltando Il negozio di antiquariato di Niccolò Fabi.
Dopo la via cinese al socialismo, spero ci sia anche una via cinese al romanticismo.

Jin era l’unico in famiglia a parlare correttamente italiano, leggeva molto, fin da piccolo, fumetti Marvel, libri d’avventura, amava Benni e Pennac, il neorealismo italiano e covava un’insana passione per i cinepanettoni. Quest’ultimo piacere proibito, vezzo ostentato di libertà e rivolta, vessillo di individualismo occidentale, non si sa quanto fosse sincero o politico. Amava presentarsi come l’unico bambino cinese ad aver apprezzato Mulan. E per questo da piccolo sognava i guerrieri di terracotta marciare minacciosi verso di lui.

Era in Italia dalle scuole elementari e, da quando aveva memoria, aveva sempre sognato di mollare il negozio e scappare via. In serie aveva pensato di: intraprendere una carriera da rapper, fare il gamer professionista, lo youtuber, il giocatore di poker online, il broker cinico e nichilista: tutti progetti abortiti sul nascere. Nella mia testa vige la politica del sogno unico, finora ho abortito già quattro, cinque sogni. Una testa sgombra da sogni è più lucida e produttiva, diceva facendo la caricatura del ligio funzionario comunista. Ma c’era un sogno, inconfessabile, che era scampato alla sua politica repressiva: la stand-up comedy. Gli sarebbe piaciuto parlare della sua famiglia, di come si sentisse un alieno, di quanto non sopportasse la cultura del sacrificio dei suoi, il loro senso del dovere, ma anche dei pregiudizi sui cinesi e del vuoto morale dei suoi coetanei che tanto invidiava. Sarebbe stato il primo comico italo-cinese: si immaginava come un pentito di mafia con la voce contraffatta. La stand-up comedy per un cinese era impensabile, era l’equivalente morale di una manifestazione a Tienanmen di tibetani omosessuali capitalisti. La comicità che aveva sentito in patria non andava oltre gli equivoci linguistici o i giochi di parole, anche molto raffinati. Ma mai nulla che contestasse l’autorità o mettesse minimamente in discussione lo status quo.

Jin non sopportava l’idea di sacrificare la sua individualità per il partito, la famiglia e, ora capì, neanche per l’amore. Irene non lo vedeva come un sacrificio, ma come una scelta. Non capiva quel suo modo di ragionare così drastico, pensava che in una vita c’è spazio per tutto, e che se proprio uno deve rinunciare a un po’ di sé, quale causa è migliore dell’amore? Probabilmente Jin non era così innamorato.

Una sera, in macchina, ebbero l’ultimo litigio. Irene perse la pazienza e sbottò: Da soli, siamo tutti prodotti difettosi, inutili, un senso lo troviamo solo insieme. E noi due, brutto coglione, ci siamo trovati anche se tu vuoi distruggere tutto. Perché ti fa paura avermi trovato, ti terrorizza amare qualcuno, l’unica cosa che sai fare è fare commentini sarcastici per ostentare distacco, ti piace stare sul tuo piedistallo. Pensi di non essere in grado di amare e soffrire come tutti, di non poterlo sopportare o di non meritarlo? Ma una volta demolito tutto, cosa ti rimane? Resterai da solo, te lo dico io, e l’ultima cosa da distruggere sarà te stesso.
Bel monologo, lo puoi rifare però urlato? Così lo vendiamo a Muccino.
Irene sorrise amareggiata, si ricompose, pensò che lui non meritava più la sua rabbia, gli chiese di scendere dall’auto e da quel giorno smisero di sentirsi.

La ragazza aveva sua madre, le amiche, le colleghe; Jin era solo, come aveva sempre desiderato. Anche lui pianse, stette male, certo, ma sdrammatizzò subito e uscì dalla stanza canticchiando con un cuscino sulla faccia penso a lei ascoltando al buio, F. De Gregori. Il trucco per non soffrire era sentirsi distante dalla sua specie, guardarsi da fuori e rifiutarsi di perpetuare ridicoli cliché. Che quei cliché, banalmente, fossero quello che ci rende simili e umani, a lui pareva non importare.

Il giorno dopo la madre accusò Jin di aver rubato dei soldi dalla cassa. Il ragazzo non negò nonostante non c’entrasse nulla. Si prese addosso tutte le ingiurie del caso con conseguente melodramma famigliare e andò via di casa. Quell’accusa per lui fu una benedizione, l’ultima spinta che gli serviva.

Una sera Irene, uscita con le colleghe di corso, si era ritrovata in un locale che non conosceva. Una persona all’entrata spiegò ai ragazzi che era appena iniziato uno spettacolo comico. Lei chiese: Rimaniamo? sperando in una risposta negativa. Tutti dissero di essere curiosi ed entrarono. Il locale era pieno, avevano trovato gli ultimi posti.

Meglio mangiare carne di cane che il corpo di Cristo. Irene sussultò, conosceva quella battuta.

Sul palco vide Jin. Non lo vedeva da tre anni. Jin era palesemente brillo, sembrava a suo agio, con quella sua solita aura decadente.

Jin parlava a raffica, il suo italiano perfetto, ogni tanto zoppicava per la foga e per l’alcol. Si esibiva come se tutta la sua famiglia fosse in prima fila ad ascoltarlo. Era un’epifania, uno contro tutti, da solo contro i suoi fantasmi. Si fermava solo per un sorso di birra. Calibrava bene violenza verbale ad attimi di tenerezza molto buffa. Un po’ terrorista, un po’ poeta. Dolce stilnovo e sesso anale, avrebbe detto lui.
Ridevano tutti, stava andando bene e lei ne fu contenta. I loro sguardi si incrociarono, lui tentennò per un attimo. Poi continuò.

Illustrazione di Sergio Ingravalle