






La qualità della vita post-pandemica si è gradualmente abbassata, mettendo seriamente a rischio la salute mentale di tuttə. Eppure, la vita frenetica lavorativa non conosce sosta, togliendo tempo e modo di prendersi cura di chi abbiamo accanto. Prendersi cura, a differenza di ciò che spesso viene ribadito come un mantra, non è un lavoro svalutante né adibito all’ambito femminile. Semplicemente, sembra che in questo castello di carte nel quale siamo chiamatə a vivere detto “neoliberismo”, non ci sia posto per la cura. Quasi si trattasse di una debolezza di cui vergognarsi, dopo due anni di stasi economica e sociale non sembriamo disposti a prenderci maggiormente cura di chi ci circonda.
Le morti di Perelli e Lenoci possono essere inserite nel panorama più ampio delle morti bianche in Italia, fenomeno che continua a mostrare dati allarmanti, sintomo di un sistema malato, che deve essere necessariamente rivisto.
Il 25 febbraio uscirà per Dischi Sotterranei Giovane Cagliostro, nuova opera di Vinnie Marakas prodotta da Richard Floyd nella quale, in un gioco di rimandi che richiama sia il Battiato anni ’80 che la french house più acida, il personaggio Vinnie fiorisce in canti perfettamente in equilibrio tra illusione e verosimiglianza, tra inno e paraculaggine, offrendo omaggio all’alchimista imbroglione Cagliostro e alla decadenza dei miti e della cultura occidentale che viene vista coi colori, intensi e allegri, di un tramonto cinematografico e dolce che non potrebbe esser così senza l’inquinamento dell’aria. In occasione di quest’uscita, abbiamo voluto parlarne direttamente con lui.
Ciao, Vinnie! Dunque, la prima domanda viene spontanea dopo la visione dei due videoclip che anticipano l’uscita di Giovane Cagliostro EP, nei quali mostri uno sviluppo forte dalle tue precedenti uscite: come si è evoluto Vinnie Marakas, quali sono gli attraversamenti che ha compiuto per arrivare a questo nuovo lavoro?
Il procedimento si basa sulla pratica del Solve et Coagula. La trasformazione esteriore procede di pari passo a quella interiore, attraverso un cammino non dissimile da quello che Jung chiamava processo di individuazione. Tutto comincia con una caduta, con una distruzione: lo scioglimento della forma, o l’espunzione della verità, che viene tralasciata, dimenticata. Qualche riflesso specchiato cede poi alla tentazione di esistere, si libera con le operazioni e si rivela attraverso delle fragili detonazioni, dei fremiti. Questo tramestio ha il nome della Lingua degli Uccelli, madre e decana di tutte le altre, lingua dei filosofi e dei diplomatici, di cui la mitologia vuole che ne avesse perfetta conoscenza Tiresia, l’indovino. Io fui Tiresia, e fui Cassandra, altro non devo fare se non rimembrare i frammenti dopo averli smembrati.
Sulla traccia di tutti i tuoi lavori, anche in quest’ultimo viene lasciato molto spazio all’estetica, che con te sembra prenda vita propria, parlando un linguaggio personale e frutto di scelte. Che ruolo ha per te l’estetica, che fine ha sul piano comunicativo?
Ogni abito è un travestimento, una maschera che condiziona i movimenti e i gesti. Così, ogni operazione ha bisogno del suo abito. Questo non è un fatto positivo o negativo, ma semplicemente un fatto. Nel teatro balinese, così come in quello pechinese, le maschere hanno una grande importanza, si tramandano di generazione in generazione, e gli attori si esercitano tutta la vita su quella unica, singola maschera. È un concetto che abbraccia il dentro e il fuori, sono oggetti scomodi che costringono a mantenere una certa tensione dei muscoli facciali, anche se sono nascosti e non li vede nessuno. A quello che serve una maschera, a celare e trasformare ciò che sta sotto: la Verità.
Il tuo rapporto con la musica passa non solo attraverso quella che crei, ma anche dal selectarne di altrui. In che modo questa cosa può aver influenzato il tuo lato creativo, anche nell’ottica della performance dal vivo?
Non mi piace parlare di lato creativo, o di creatività. Anzi, sarò sincero, lo aborro. Non credo nella creatività, né ai creatori o creativi. Io non creo nulla, non desidero nessuna autorialità. Esiste un immaginario di simboli, visioni, archetipi, dal quale attingo, rubo, saccheggio. Come gli scultori di immagini dell’ars gothica, che prendevano una materia e dei simboli che appartengono alla memoria più antica dell’essere umano trasformandoli con la loro tecnica, così io li imito come la Festa dei Folli imitava la quotidianità. Aggiungo questo: i costruttori del medioevo avevano la prerogativa della modestia. Artigiani anonimi di puri capolavori per l’affermazione del loro ideale e della loro scienza. È stato dopo, in quella spettacolare quanto nefasta epoca di decadenza e servilismo che prese il paradossale nome di Rinascimento che gli artisti, i pittori, gli architetti, preoccupati della propria personalità, gelosi del loro valore, edificarono per la posterità del loro nome. Nell’opera gotica, la tecnica resta sottomessa all’Idea, in quella rinascimentale, e contemporanea, è l’autore (presunto) che la domina e la cancella. Da un lato il genio, dall’altro, il talento. Mi perdonerai lo sproloquio, ma hai involontariamente toccato un tasto cruciale e importante, secondo me. La lingua, come la musica e come ogni altro strumento dello spirito, vive di per sé. Non inventiamo niente, non creiamo niente. Tutto è in tutto. Quello che crediamo di scoprire con il solo sforzo della nostra intelligenza, esiste già da qualche parte. C’è stato un momento qualche anno fa in cui andava di moda diventare DJ. Anche il Rinascimento è una moda. Non amo particolarmente le mode e non sono DJ, né selezionatore. Ascolto. Con curiositas e attenzione. Altro non so fare.
La scelta della forma-canzone, in Giovane Cagliostro, si sposa con una scrittura ed una messa in voce molto diversa da altri tuoi lavori, come già detto prima. Il risultato è molto organico, anche con le scelte musicali: cosa è arrivato prima, la scrittura, la forma vocale o la scelta musicale?
“In principio era il caos soltanto”, come in tutte le teogonie che si rispettino. No, ti direi che per prima cosa è arrivata la musica, e che al contrario la scrittura non è mai pervenuta. Solitamente con Richard Floyd, che ha prodotto le operazioni musicali, ci concentriamo prima sulla composizione musicale, che magari parte da delle mie idee, piuttosto che sue, fino a che arriviamo ad avere una bozza di brano. Sono molto riluttante all’idea di una struttura di canzone, ma per questo è utile avere un producer che fa da argine. Una volta che c’è l’idea musicale, il giro armonico eccetera, allora mi metto in ascolto, e di solito affiora un brusio di suoni, di voci, che lentamente si decodificano in parola. Ma questo processo raramente culmina in una scrittura vera e propria, se non in una scrittura puramente orale che sgorga dalla reiterazione e dalla mimesi. Alla fine le parole vanno al loro posto con una loro melodia. Si dà troppa importanza alla scrittura, e a chi scrive. Le parole, se le si lascia libere, sanno esattamente dove e come porsi.
Le presentazioni del tuo progetto oscillano sempre tra il messianico e il cialtrone, coerentemente ad una produzione che riesce a raggiungere punti molto profondi e a mantenere un’ironia di fondo molto marcata. Ma se tu stesso dovessi presentare Vinnie, come lo definiresti?
Colui che è e colui che non è. Incarno la dialetheia, la proposizione sia falsa che vera, il paradosso, l’eresia, l’affermazione e la negazione. Sono un trapezista dell’immaginario. Io sono Cagliostro.
(Isidoro Concas)
Io sono Don Chisciotte
Io sono Dylan Dog
io sono San Francesco
Io sono Turandot
(e poi?)
Io non sono di qui
Je suis
Madame Bovary
Io son Giovanna D’Arco
Io sono de Beauvoir
E que será será
Chi vorrà saprà:
La vanità velata sta
Io non sono di qui
Je suis je suis
Rrose Sélavy
Sono un avventuriero
Ma non Indiana Jones
Io sono la grondaia
Ma non Gustavo Rol
Sono Giordano Bruno
Non sono Belzebù
Sono Franco Fanigliulo
Jannacci o chi vuoi tu
Io non sono di qui
Je suis je suis je suis
Rrose Sélavy
Je suis je suis
Rrose Sélavy
Io son Giovanna D’Arco
Io sono Elifas
E que será, será
Chi saprà vedrà:
La vanità in silenzio sta
(eh già)
La Verità al buio sta
(di già?)
Io non sono più qui
(di già?)
Io sono Don Chisciotte
Io sono Dylan Dog
Io sono Don Chisciotte
Io sono Dylan Dog
Io non sono di qui
Je suis je suis
Rrose Sélavy
Ceci, ceci n’est pas une pipe
(come Magritte)
Je suis je suis
Rrose Sélavy
Oh, allora questo idioma lo costringo,
lo stringo con la man d’un raginar ch’è solo,
a far battaglia all’infezione mai espressa
d’un pensiero rattenuto in testa