Il coniglio del Miradouro de Santa Luzia | Chiara De Cillis

In una casa minuscola al centro dell’Alfama, qualcosa di rosa e peloso spunta tra le ante di un armadio, ma nel disordine generale e nella sostanziale solitudine della stanza non infastidisce nessuno, se non dieci vestiti anonimi che per fargli spazio si trovano costretti a starsene in un angolino.
Non è altro che un abito da lavoro, ma ha la forma di un coniglio, un coniglio paffuto con un occhio diverso dall’altro; uno di colore azzurro vivo, in plastica, l’altro un semplice bottone che si mantiene a stento a un filo di cotone. Joana lo aveva trovato un sabato mattina alla Feira da Ladra, dopo un’abbondante colazione a base di pasteis. Aveva tra i denti pezzettini di sfoglia e sulla lingua il sapore della crema, eppure si sentiva ancora affamata, mentre girovagava tra venditori di cianfrusaglie e ladruncoli di spiccioli.
Quando il costume da coniglio era spuntato da una collina informe di abiti, l’aveva come saziata. Si era trasferito dritto nel suo stomaco, un po’ come succede quando si incontra qualcuno che sa di essere destinato a cambiare le carte in tavola.
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L’Anoressico | Giovanni Schiavone

Un’ambizione nasceva sempre in quegli istanti. L’orgasmo squarciava il cosmo, trascinava macigni di frustrazione e rabbia e tensione e vergogna, s’infrangeva sulla scogliera come un’onda anomala, polverizzandola, e urlava, lo implorava di esprimere ciò che il suo cuore traduceva in accelerazioni cardiache e la sua mente in deliri d’onnipotenza.
Quegli istanti durante i quali egli fuggiva dolorosamente da se stesso perché si accorgeva di essere un velleitario, istanti intrisi di vano riscatto e della consapevolezza che non c’era modo più bello per dire una realtà tanto tremenda: velleità, un suono che addolciva la rassegnazione (ecco cosa amava: lasciarsi cullare da scialbe considerazioni sulle parole). Ecco a cosa ambiva: a esprimere il suo abisso e la sua grandezza affinché da una simile espressione scaturisse la gloria.

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