Guido Celli è un poeta-performer, videomaker e artista multimediale attivo da anni sulla scena nazionale, sia con le sue performance poetiche che coi suoi progetti musicali. Nato a Roma nel ’79, ha esplorato e continua a percorrere sentieri diversissimi per quanto riguarda il rapporto tra verso e suono.
Guido, il tuo lavoro sulla musicalità del testo nasce alla base della tua composizione, ancora prima delle tue esperienze spoken, ed è radice del tuo scrivere e conseguenza del tuo performare. In che modo si sviluppa il tuo lavoro, in questo senso?
Sono un poeta di poemi e quello che vado a costruire sono cattedrali di ossessioni, sonore e spesso reiterate, come ragnatele di un mantra o meglio come un rito deposto in omaggio ai piedi dell’umano. Questo mio fuoco emergenziale lo sfogo in varie forme che, per quanto riguarda il mio lavoro poetico, vado per brevità a concentrare in tre macroforme (o madriforme): la Performance per voce sola, dove il suono della parola resta l’ombelico di tutto; la messinscena poetica, dove la parola incontra lo spazio traducendosi in movimento e scena; la musica. Quest’ultima, che è il motivo di quest’intervista, potrei suddividerla in due ulteriori sottoforme: la spoken word e il poema/concerto. A proposito della mia scrittura, ti dico, mentre scrivo è come componessi. La parola finisce in carta sempre dopo aver suonato già nella mia testa, in fantasma alla bocca o concretamente in gola, non importa. Questo mio continuo tornare sulle cose, sulle parole che indossano, sulle sensazioni che danno e, soprattutto, sui suoni e nei suoni che lasciano ascoltare, questo insistere innesca in me una forma di Estasi, un azzardo di trance, che la performance raramente raggiunge, soltanto sfiora, mentre con la musica, grazie al suo sicuro effetto dopante, quasi sempre ottengo.
Io vivo l’intera mia vita, in ogni angolo della mia carne e della mia visione, in funzione di questa Estasi. Nascendo poeta, sono diventato siamesicamente un musicista. I miei versi hanno sottopelle una specie di partitura invisibile, un pentagramma ritmico che gli detta con precisione orientamento, tono e andamento. E questo è qualcosa che appartiene, io penso, alla Poesia stessa. Poi, io credo in questo: quando penso all’odore dei pioppi, io ascolto l’odore dei pioppi, ovvero sento il suono di “l’odore dei pioppi”, ascolto la fonetica, il rumore di quelle parole, di quella frase. Le parole non sarebbero quello che sono senza il suono che producono. Per me, il grafema e il fonema appartengono all’acqua dello stesso fiume. I miei anni d’adolescenza passati nella bottega di Flavio Giurato, artigiano immenso della canzone d’autore, mi hanno, immagino, indirizzato verso una simile convinzione.
Ultimamente sto lavorando alla “messa in voce” di alcuni libri di poesie, miei e non miei: lo sto facendo per il Centro Nazionale del Libro Parlato, che è, da quanto ho capito, la Biblioteca Nazionale dei Ciechi e degli Ipovedenti. Fare questo lavoro, mi ha rafforzato delle mie convinzioni orecchistiche sulla Poesia e in più mi hanno rivelato ancora meglio come, non lasciandola muta sulla carta, la Poesia deflagri con più prepotenza, abbia un di più di dinamite. Questo non significa che io ignori o trascuri la seduzione e le conseguenze di altri punti d’indagine della questione poetica, anzi, ma emotivamente, istintivamente e personalmente, la componente udibile della Poesia è la parte che mi affascina con più eleganza, con più pathos.

Arrivando da questi tuoi approcci musicali alla parola, la nascita dei tuoi progetti spoken sembra una conseguenza diretta, anche se molti dei tuoi testi messi in musica nascono in forma scritta. Quali sono i tuoi processi per dialogare con la musica? In che modo entra in gioco la scrittura per la musica o l’improvvisazione?
Con i musicisti e con le musiciste con cui ho suonato, ogni volta è diverso. Dipende, banalmente, da come si sviluppa la mia relazione artistica con loro, qual è la successione delle nostre urgenze, se il testo nasce contemporaneamente alla musica, se si aggiunge a essa o se la preconizza. La modalità di connessione con il processo creativo detta e forma l’approccio che le parole del testo terranno nei confronti della musica, del suo abito acustico e, ogni tanto, viceversa. Posso dire certo, in breve, che il testo a volte esiste già all’interno di uno dei miei poemi (talvolta restando simile a com’è, talvolta mutando anche di molto, assecondando e subendo come una barchetta di carta le ripide del fiume musicale), a volte esiste solo come canovaccio e serve da punto focale all’improvvisazione, a volte nasce durante la musica, a volte dopo. Insomma l’approccio è aperto a ogni autentica necessità di esplorazione che sorge in cartilagine alla più viva curiosità.
Prima di parlare sinteticamente del mio percorso spoken word, vorrei aggiungere che mi è successo di unire al grafema e al fonema anche il gesto, sia attraverso i nervi del mio corpo, sia attraverso la danza. Con Martina Ricciardi, coreografa e danzatrice, e Marco Ambrosini, Maestro della viola d’amore a chiavi, abbiamo, partendo dal mio poema Madre Materno, messo in moto una forma di spettacolo che, nell’improvvisazione, unisce parola, suono e gesto in un solo spazio e in un solo tempo, in pratica in un solo corpo. E nella sua forma di poema/concerto, innescato dalla viola da gamba di Vito Maria Laforgia e giocato in grembo a un’improvvisazione strutturata, il gesto si muove attraverso il mio corpo, in una sorta di punteggiatura innervata. Questo per citare due esempi che allargano un po’ la visione di quello che si agita e agito con i miei versi.
Ma andiamo allo spoken word. Con i Pi Greco, il mio primo gruppo, i miei testi si innestavano in una solidissima cornice musicale, molto disciplinata, e nascevano successivamente alla posa delle note e in funzione di esse. Con i Fumisterie, il discorso è diverso: Hiroshima.Fusioni originava da un mio poemetto omonimo. In questo caso il discorso si ribaltava, era il mio lavoro a venir messo in musica, lasciandomi margini di improvvisazione più ampi. Con Joe Lally, invece, succedevano entrambe le cose: si partiva sia dalla musica che dal testo. Devo dire che con le linee di basso di Joe, attraverso la loro reiterazione ritmica, sono riuscito a tradurre in atto quel che è lo spirito ossessivo di una parte della mia scrittura, quella che s’incardina sulla secchezza del verso. Con i Cor:unedo tutto si fonde, tutto si mischia. Il testo preesiste, si accoda, nasce insieme, e, a volte, tutte e tre le cose contemporaneamente. Grazie all’improvvisazione, che è lo scheletro, il principio e la base fissa della nostra ricerca, la parola si muove, quasi disintegrandosi, in una babele fonica.
L’ultimo ed il tuo più massivo progetto spoken, i Cor:unedo, ha subito una battuta d’arresto. Tuttavia, è in programma un’ultima uscita discografica ambientata a Palermo. Di che si tratta?
I Cor:unedo nascono a Catania dall’incontro con Alessandro Grasso ed Emanuele Poki. Alessandro è un circuit bender, uno che si costruisce gli strumenti da solo, con la passione del noise, soprattutto elettronico. Poki è un artista figurativo prestato alla musica attraverso la sua passione per i materiali. Nei Cor:unedo, mediante l’uso dei microfoni a contatto, Poki ha suonato legni, sassi, plexiglas, metalli, fibre, ossa di animali, pelli, carte, plastiche, violini e altro ancora. In due concerti, divenuti poi due dischi, abbiamo suonato con Vincenzo Drago, un sassofonista sperimentale, dando così un’anima armonica, per quanto sghemba e costretta, al gruppo.
Io venivo dalle esperienze musicali che ti ho già raccontato e nel 2014, a casa di Alessandro abbiamo registrato il nostro primo disco “La vita familiare il bestiame le arti domestiche”, seguendo un metodo che non abbiamo più abbandonato e che definirei “spontaneismo estatico”. Sia per i dischi in studio che per quelli dal vivo, abbiamo sempre, e dico sempre, improvvisato. Quello che si ascolta nei dischi nasce dall’incontro istintivo di suono e parole, in una sorta di danza immobile e nervosa, che risulta del tutto irriproducibile: ogni nostra canzone nasce e muore nello stesso istante.
Dal 2014 a oggi abbiamo fatto uscire sette dischi e in cantiere ho [sic] l’uscita del nostro ottavo disco, Muqarnas, registrato a Palermo in condizioni molto particolari. Eravamo di fronte al Conservatorio, seduti a riposare. Dalle finestre e dalle mura dell’edificio emergevano sprazzi o spezzoni di prove di canto, di esercitazioni di strumenti musicali, di pianoforte, di oboe e altro. Era un tappeto/collage estremamente conturbante, rafforzato dal rumore della vita che scorreva nella strada e sui marciapiedi circostanti. Eravamo in città, nell’estate del 2018, per un concerto da fare o già fatto e quindi avevamo con noi qualche strumento del nostro mestiere. Mi venne l’idea di entrare in quel collage sonico, a mescolarmici. Presi il mio taccuino, accesi il tascam e, assorbendo tutta la “vita sonora” che ci era intorno, cominciai a leggere e sussurrare alcune mie poesie. Alessandro aveva con sé qualche suo strumento, Poki raccolse da terra i suoi: lattine, cartacce, legnetti e altro. Un’ora e il disco era fatto. Lo sto montando con molta lentezza, ma penso che il prossimo anno uscirà. Anche Panormus Ex Machina, il nostro quinto disco, nacque in una situazione “insolita”: eravamo a Palermo anche quella volta e incontrammo per strada una ragazza francese in fuga dall’asfissia delle convenzioni. Parlando del destino europeo, ci seguì e si chiuse in macchina con noi a registrare. Era luglio, un caldo accecante, cominciò anche a piovere. Accendemmo il tascam, l’autoradio e una cassa bluetooth, attaccammo qualche strumento a batteria, usammo ogni oggetto della macchina e Leia cominciò a raccontare i suoi sentimenti in francese. Un delirio, un’intuizione. La pioggia sul parabrezza è in alcuni brani anch’esso uno strumento, come il tergicristallo, le frecce e l’aria condizionata che azionavo e arrestavo.
Oltre all’uscita di questo album, è anche in programma quella del tuo secondo disco solista, progetto nato in quarantena e che vede le collaborazioni di moltissimi ospiti dal diverso background musicale. Come è nato questo progetto?
Il mio secondo disco solista nasce durante i mesi del lockdown generale del 2020, che si è succeduto e poi incrociato con il mio lockdown personale. Il lavoro, per come la vedo io, sarà un allarme emesso a fine corsa, una sorta di peana alla tenebra luminosissima dell’Amore. Molto probabilmente il disco si intitolerà Tacuinum Sanitatis.
Come si è andato costruendo è molto semplice: nel periodo orribile dell’azzeramento fisico delle relazioni, della costrizione e della torsione dei corpi, ho pensato di unirmi, attraverso l’uso del possibile, al giacimento creativo di altri artisti. Li ho contattati per avere da loro una risorsa musicale su cui innestare il mio spoken. Una volta ricevuta, una volta selezionata, ho registrato alcune voci, seguendo o non seguendo, difendendo o tradendo, il ricordo musicale del brano, nello studio casalingo di Sandro Ivessich Host, già bassista dei Pi Greco e ora fonico cinematografico. Poi le ho messe insieme, come quando monto i miei video. Conto di farlo uscire nel 2022, non solo in digitale, e l’artwork sarà opera della geniale artista Sara D’Uva e la masterizzazione sarà a cura di Mattia Candeloro, già chitarrista dei Fumisterie e ora fonico musicale.
Un procedimento ben diverso da quello del mio primo disco solista, Il volo che il Cielo compie in cielo, che al suo interno ha una variegata serie di maniere: dal pezzo improvvisato insieme ai musicisti, al pezzo suonato da me soltanto usando fonti di suono cittadino poi distorte in post produzione; dall’allestimento di fonti musicali rubate, alla registrazione guidata di singoli strumenti raccordati poi in fase di editing.
Oltre a ciò che ci hai raccontato prosegue anche la tua attività di pubblicazione e di videomaking, in attesa di un ritorno sui palchi. Quali sono le caratteristiche del performare live che più ti mancano?
L’ultimo concerto dei Cor:unedo risale all’estate del 2018. Il 2020, a parte la parentesi estiva in cui ho fatto una trentina di serate, è stato un anno dolorosissimo in cui mi sono dedicato maggiormente, sul piano creativo, alla pubblicazione dei poemi e alla realizzazione di videoclip. L’anno precedente ho compiuto lunghi tour in giro per l’Italia, ma tutti incentrati sulla performance poetica e sulle sue declinazioni. Sento perciò adesso l’urgente bisogno, a due anni e mezzo dall’ultimo, di tornare a fare concerti spoken. Mi manca molto potermi perdere nella musica, nel dedalo sciamanico delle sue sensazioni, perseguire l’utopia tangibile dell’Estasi, per arrivare al Sole, come Icaro ha fallito.