In funzione dell’estasi: intervista a Guido Celli

Guido Celli è un poeta-performer, videomaker e artista multimediale attivo da anni sulla scena nazionale, sia con le sue performance poetiche che coi suoi progetti musicali. Nato a Roma nel ’79, ha esplorato e continua a percorrere sentieri diversissimi per quanto riguarda il rapporto tra verso e suono.

Guido, il tuo lavoro sulla musicalità del testo nasce alla base della tua composizione, ancora prima delle tue esperienze spoken, ed è radice del tuo scrivere e conseguenza del tuo performare. In che modo si sviluppa il tuo lavoro, in questo senso?

Sono un poeta di poemi e quello che vado a costruire sono cattedrali di ossessioni, sonore e spesso reiterate, come ragnatele di un mantra o meglio come un rito deposto in omaggio ai piedi dell’umano. Questo mio fuoco emergenziale lo sfogo in varie forme che, per quanto riguarda il mio lavoro poetico, vado per brevità a concentrare in tre macroforme (o madriforme): la Performance per voce sola, dove il suono della parola resta l’ombelico di tutto; la messinscena poetica, dove la parola incontra lo spazio traducendosi in movimento e scena; la musica. Quest’ultima, che è il motivo di quest’intervista, potrei suddividerla in due ulteriori sottoforme: la spoken word e il poema/concerto. A proposito della mia scrittura, ti dico, mentre scrivo è come componessi. La parola finisce in carta sempre dopo aver suonato già nella mia testa, in fantasma alla bocca o concretamente in gola, non importa. Questo mio continuo tornare sulle cose, sulle parole che indossano, sulle sensazioni che danno e, soprattutto, sui suoni e nei suoni che lasciano ascoltare, questo insistere innesca in me una forma di Estasi, un azzardo di trance, che la performance raramente raggiunge, soltanto sfiora, mentre con la musica, grazie al suo sicuro effetto dopante, quasi sempre ottengo.

Io vivo l’intera mia vita, in ogni angolo della mia carne e della mia visione, in funzione di questa Estasi. Nascendo poeta, sono diventato siamesicamente un musicista. I miei versi hanno sottopelle una specie di partitura invisibile, un pentagramma ritmico che gli detta con precisione orientamento, tono e andamento. E questo è qualcosa che appartiene, io penso, alla Poesia stessa. Poi, io credo in questo: quando penso all’odore dei pioppi, io ascolto l’odore dei pioppi, ovvero sento il suono di “l’odore dei pioppi”, ascolto la fonetica, il rumore di quelle parole, di quella frase. Le parole non sarebbero quello che sono senza il suono che producono. Per me, il grafema e il fonema appartengono all’acqua dello stesso fiume. I miei anni d’adolescenza passati nella bottega di Flavio Giurato, artigiano immenso della canzone d’autore, mi hanno, immagino, indirizzato verso una simile convinzione.

Ultimamente sto lavorando alla “messa in voce” di alcuni libri di poesie, miei e non miei: lo sto facendo per il Centro Nazionale del Libro Parlato, che è, da quanto ho capito, la Biblioteca Nazionale dei Ciechi e degli Ipovedenti. Fare questo lavoro, mi ha rafforzato delle mie convinzioni orecchistiche sulla Poesia e in più mi hanno rivelato ancora meglio come, non lasciandola muta sulla carta, la Poesia deflagri con più prepotenza, abbia un di più di dinamite. Questo non significa che io ignori o trascuri la seduzione e le conseguenze di altri punti d’indagine della questione poetica, anzi, ma emotivamente, istintivamente e personalmente, la componente udibile della Poesia è la parte che mi affascina con più eleganza, con più pathos.

Guido Celli durante una lettura al MAT di Terlizzi


Arrivando da questi tuoi approcci musicali alla parola, la nascita dei tuoi progetti spoken sembra una conseguenza diretta, anche se molti dei tuoi testi messi in musica nascono in forma scritta. Quali sono i tuoi processi per dialogare con la musica? In che modo entra in gioco la scrittura per la musica o l’improvvisazione?

Con i musicisti e con le musiciste con cui ho suonato, ogni volta è diverso. Dipende, banalmente, da come si sviluppa la mia relazione artistica con loro, qual è la successione delle nostre urgenze, se il testo nasce contemporaneamente alla musica, se si aggiunge a essa o se la preconizza. La modalità di connessione con il processo creativo detta e forma l’approccio che le parole del testo terranno nei confronti della musica, del suo abito acustico e, ogni tanto, viceversa. Posso dire certo, in breve, che il testo a volte esiste già all’interno di uno dei miei poemi (talvolta restando simile a com’è, talvolta mutando anche di molto, assecondando e subendo come una barchetta di carta le ripide del fiume musicale), a volte esiste solo come canovaccio e serve da punto focale all’improvvisazione, a volte nasce durante la musica, a volte dopo. Insomma l’approccio è aperto a ogni autentica necessità di esplorazione che sorge in cartilagine alla più viva curiosità.

Prima di parlare sinteticamente del mio percorso spoken word, vorrei aggiungere che mi è successo di unire al grafema e al fonema anche il gesto, sia attraverso i nervi del mio corpo, sia attraverso la danza. Con Martina Ricciardi, coreografa e danzatrice, e Marco Ambrosini, Maestro della viola d’amore a chiavi, abbiamo, partendo dal mio poema Madre Materno, messo in moto una forma di spettacolo che, nell’improvvisazione, unisce parola, suono e gesto in un solo spazio e in un solo tempo, in pratica in un solo corpo. E nella sua forma di poema/concerto, innescato dalla viola da gamba di Vito Maria Laforgia e giocato in grembo a un’improvvisazione strutturata, il gesto si muove attraverso il mio corpo, in una sorta di punteggiatura innervata. Questo per citare due esempi che allargano un po’ la visione di quello che si agita e agito con i miei versi.

Ma andiamo allo spoken word. Con i Pi Greco, il mio primo gruppo, i miei testi si innestavano in una solidissima cornice musicale, molto disciplinata, e nascevano successivamente alla posa delle note e in funzione di esse. Con i Fumisterie, il discorso è diverso: Hiroshima.Fusioni originava da un mio poemetto omonimo. In questo caso il discorso si ribaltava, era il mio lavoro a venir messo in musica, lasciandomi margini di improvvisazione più ampi. Con Joe Lally, invece, succedevano entrambe le cose: si partiva sia dalla musica che dal testo. Devo dire che con le linee di basso di Joe, attraverso la loro reiterazione ritmica, sono riuscito a tradurre in atto quel che è lo spirito ossessivo di una parte della mia scrittura, quella che s’incardina sulla secchezza del verso. Con i Cor:unedo tutto si fonde, tutto si mischia. Il testo preesiste, si accoda, nasce insieme, e, a volte, tutte e tre le cose contemporaneamente. Grazie all’improvvisazione, che è lo scheletro, il principio e la base fissa della nostra ricerca, la parola si muove, quasi disintegrandosi, in una babele fonica.

L’ultimo ed il tuo più massivo progetto spoken, i Cor:unedo, ha subito una battuta d’arresto. Tuttavia, è in programma un’ultima uscita discografica ambientata a Palermo. Di che si tratta?


I Cor:unedo nascono a Catania dall’incontro con Alessandro Grasso ed Emanuele Poki. Alessandro è un circuit bender, uno che si costruisce gli strumenti da solo, con la passione del noise, soprattutto elettronico. Poki è un artista figurativo prestato alla musica attraverso la sua passione per i materiali. Nei Cor:unedo, mediante l’uso dei microfoni a contatto, Poki ha suonato legni, sassi, plexiglas, metalli, fibre, ossa di animali, pelli, carte, plastiche, violini e altro ancora. In due concerti, divenuti poi due dischi, abbiamo suonato con Vincenzo Drago, un sassofonista sperimentale, dando così un’anima armonica, per quanto sghemba e costretta, al gruppo.
Io venivo dalle esperienze musicali che ti ho già raccontato e nel 2014, a casa di Alessandro abbiamo registrato il nostro primo disco “La vita familiare il bestiame le arti domestiche”, seguendo un metodo che non abbiamo più abbandonato e che definirei “spontaneismo estatico”. Sia per i dischi in studio che per quelli dal vivo, abbiamo sempre, e dico sempre, improvvisato. Quello che si ascolta nei dischi nasce dall’incontro istintivo di suono e parole, in una sorta di danza immobile e nervosa, che risulta del tutto irriproducibile: ogni nostra canzone nasce e muore nello stesso istante.
Dal 2014 a oggi abbiamo fatto uscire sette dischi e in cantiere ho [sic] l’uscita del nostro ottavo disco, Muqarnas, registrato a Palermo in condizioni molto particolari. Eravamo di fronte al Conservatorio, seduti a riposare. Dalle finestre e dalle mura dell’edificio emergevano sprazzi o spezzoni di prove di canto, di esercitazioni di strumenti musicali, di pianoforte, di oboe e altro. Era un tappeto/collage estremamente conturbante, rafforzato dal rumore della vita che scorreva nella strada e sui marciapiedi circostanti. Eravamo in città, nell’estate del 2018, per un concerto da fare o già fatto e quindi avevamo con noi qualche strumento del nostro mestiere. Mi venne l’idea di entrare in quel collage sonico, a mescolarmici. Presi il mio taccuino, accesi il tascam e, assorbendo tutta la “vita sonora” che ci era intorno, cominciai a leggere e sussurrare alcune mie poesie. Alessandro aveva con sé qualche suo strumento, Poki raccolse da terra i suoi: lattine, cartacce, legnetti e altro. Un’ora e il disco era fatto. Lo sto montando con molta lentezza, ma penso che il prossimo anno uscirà. Anche Panormus Ex Machina, il nostro quinto disco, nacque in una situazione “insolita”: eravamo a Palermo anche quella volta e incontrammo per strada una ragazza francese in fuga dall’asfissia delle convenzioni. Parlando del destino europeo, ci seguì e si chiuse in macchina con noi a registrare. Era luglio, un caldo accecante, cominciò anche a piovere. Accendemmo il tascam, l’autoradio e una cassa bluetooth, attaccammo qualche strumento a batteria, usammo ogni oggetto della macchina e Leia cominciò a raccontare i suoi sentimenti in francese. Un delirio, un’intuizione. La pioggia sul parabrezza è in alcuni brani anch’esso uno strumento, come il tergicristallo, le frecce e l’aria condizionata che azionavo e arrestavo.

Oltre all’uscita di questo album, è anche in programma quella del tuo secondo disco solista, progetto nato in quarantena e che vede le collaborazioni di moltissimi ospiti dal diverso background musicale. Come è nato questo progetto?

Il mio secondo disco solista nasce durante i mesi del lockdown generale del 2020, che si è succeduto e poi incrociato con il mio lockdown personale. Il lavoro, per come la vedo io, sarà un allarme emesso a fine corsa, una sorta di peana alla tenebra luminosissima dell’Amore. Molto probabilmente il disco si intitolerà Tacuinum Sanitatis.

Come si è andato costruendo è molto semplice: nel periodo orribile dell’azzeramento fisico delle relazioni, della costrizione e della torsione dei corpi, ho pensato di unirmi, attraverso l’uso del possibile, al giacimento creativo di altri artisti. Li ho contattati per avere da loro una risorsa musicale su cui innestare il mio spoken. Una volta ricevuta, una volta selezionata, ho registrato alcune voci, seguendo o non seguendo, difendendo o tradendo, il ricordo musicale del brano, nello studio casalingo di Sandro Ivessich Host, già bassista dei Pi Greco e ora fonico cinematografico. Poi le ho messe insieme, come quando monto i miei video. Conto di farlo uscire nel 2022, non solo in digitale, e l’artwork sarà opera della geniale artista Sara D’Uva e la masterizzazione sarà a cura di Mattia Candeloro, già chitarrista dei Fumisterie e ora fonico musicale.

Un procedimento ben diverso da quello del mio primo disco solista, Il volo che il Cielo compie in cielo, che al suo interno ha una variegata serie di maniere: dal pezzo improvvisato insieme ai musicisti, al pezzo suonato da me soltanto usando fonti di suono cittadino poi distorte in post produzione; dall’allestimento di fonti musicali rubate, alla registrazione guidata di singoli strumenti raccordati poi in fase di editing.

Oltre a ciò che ci hai raccontato prosegue anche la tua attività di pubblicazione e di videomaking, in attesa di un ritorno sui palchi. Quali sono le caratteristiche del performare live che più ti mancano?

L’ultimo concerto dei Cor:unedo risale all’estate del 2018. Il 2020, a parte la parentesi estiva in cui ho fatto una trentina di serate, è stato un anno dolorosissimo in cui mi sono dedicato maggiormente, sul piano creativo, alla pubblicazione dei poemi e alla realizzazione di videoclip. L’anno precedente ho compiuto lunghi tour in giro per l’Italia, ma tutti incentrati sulla performance poetica e sulle sue declinazioni. Sento perciò adesso l’urgente bisogno, a due anni e mezzo dall’ultimo, di tornare a fare concerti spoken. Mi manca molto potermi perdere nella musica, nel dedalo sciamanico delle sue sensazioni, perseguire l’utopia tangibile dell’Estasi, per arrivare al Sole, come Icaro ha fallito.

Concerto tratto da Madre Materno (Sensibili alle Foglie, 2020)
Testi, voce Guido Celli
Viola Vito Maria Laforgia

Aria Nera | Luigi De Rosa

Stesa su un panno bianco come la lana Aria osserva il proprio destino stravaccato e immobile sul soffitto a pannelli.
L’occhio sinistro bendato, metà della faccia ricoperta di graffi e punti di sutura, le gambe completamente sfatte, spappolate, cicatrizzate, insaccate fra bende e gesso, la codeina che le svaga il corpo distendendone i confini: tutta la stanza d’ospedale parla di lei, e aspetta. Gli oggetti inanimati sussurrano. Le cerniere plumbee cigolano. Le luci galleggiano nelle ore stanche, cercandosi fra loro come vecchi solitari. Tutto aspetta una decisione psicofisica che lei non è in grado di prendere, un imminente Evento Storico: stare bene.

Ma Aria è fuori dalla Storia da quattro settimane. Forse da sempre.

Distante anni luce da qualsiasi modo normale di vivere, di intendere e volere, da qualsiasi discorso terrestre o pseudo-umano, vaga fra immagini pop e gotiche allo stesso tempo, esplosioni di colore liquido, neon, colori primari lampeggianti e oscure guglie di pietra immerse nella nebbia.
All’inizio credeva che sarebbe morta di dolore. Ci sono voluti giorni perché il velo rosato e ovattato dell’incidente le si togliesse di dosso, perché tornasse a sentire alle gambe qualcosa che non fosse puro male. Le automobili sono chiaramente mezzi infernali, tentativi infantili di essere più veloci della morte.
L’orologio crepa il silenzio mentre Ala Nera striscia sotto il lettino, a spostare polvere e ricordi. Enorme e ruvida, a volte sembra quasi di fumo, altre una membrana di plastica ricoperta di petrolio liquido caldo, che lascia segni sul pavimento biancastro.
Schifosa. Lurida. Appiccicosa. Un manto sottile che assorbe ogni colore sostenuto da un fascio di nervi impazziti, vibranti, fuori sincrono.
Eppure Aria ne è profondamente innamorata da giorni. Adora il suo strusciarsi sotto di lei. La sua umiltà quasi depravata. Ne ama l’odore acre da puttanella marcita. La densità da buco nero. Il marezzo impercettibile ricoperto di peli. Il suo essere parte di un corpo scomparso, pezzo solitario lasciato al suo destino assonnato.
È questione di traslazione: non potendo scegliere niente del suo corpo, non potendoci effettivamente fare nulla, si è scelta una nuova anima scavando nel cassetto di quelle possibili.
L’anima adesso è quel suo pezzo di coscienza che sballa e schizza nel tempo interiore come la sguattera scabrosa di una chiesa maledetta, che crolla di giorno in giorno sotto il fuoco di aeroplani mascherati e mani inguainate, dove l’aria polverosa non si muove e dove l’organo a volte suona da solo note insignificanti, frigide. Dove è possibile sfamarsi di silenzio e presente, ascoltando le termiti che mangiano le panche e il crocifisso piangente. Una scopa, una paletta, il freddo frusciare delle pantofole nel buio quasi sacro illuminato da fasci pallidi: si tratta di pulire il pulibile e andarne fieri; di restare saldamente attaccati alle macerie. Alla prospettiva infinita delle colonne. Alla caduta, alla decadenza. Aspettando solamente che tutto quanto svanisca.
Da dove è nato tutto ciò? Cosa spinge una ragazzina di diciassette anni verso territori così foschi? La patologia è innata, o appena nata? Di chi è la colpa? Capriccio, o necessità? Aria non lo sa, ma a volte è terrorizzata da sé stessa.
Getta una lacrima sul cuscino, e torna a parlare con Sigfrid perché non riesce più ad ascoltare il fruscio di Ala Nera. È un amore da prendere a piccole dosi. Pesante fardello generazionale. Ogni colpo è come una dichiarazione lunare e contemporanea, così tanto chiara e definita e senza passato o futuro da far venire i brividi.
Con l’anima Aria spazza via i residui che la legavano al mondo.
Ffffffffffffffffffffsssssssssssssssssssfssshhhhhhhhhhhhhhhhhh.
Sigfrid è l’altra faccia della medaglia: un topo di neon rosa che le sta sempre vicino alla testa, a rosicchiare e squittire parole acide, quasi lisergiche. Lunatico e cocainomane, odora di balsamo ed emette un leggero calore frizzante.

È la parte divertente della faccenda, la futilità più totale e senza pretese.

Ora le sta suggerendo di dormire, per eliminare l’audio (per Sigfrid è normale esprimersi in termini spettacolari o televisivi). Aria ci prova, ma tutto sbalza e ruota dietro le palpebre, e la troppa assenza le mette paura. Per quanto strafatta, può ancora provare panico.
Sigfrid le entra in bocca e va a dare una sistemata al cuore, accarezzandolo finché non si calma. Esce tutto pieno di saliva e sangue, poi svanisce dicendo: “Visto? Ora devo farmi una doccia”.
La ragazzina resta sola nel niente. Ala Nera prova ad uscire allo scoperto, vibrando nauseabonda, sfiorando i bordi del letto con un pat pat fumettistico. Il tessuto viscido tocca una guancia di Aria, che si gira dall’altro lato inorridita. La ama ma non sopporta che la tocchi. È un amore sofferto, una decisione segreta.
La cosa peggiore sarebbe essere scoperta. Nessuno deve sapere che quella cosa nera coincide esattamente con lei.
Ma attorno non c’è nessuno, in questo ospedale così triste e cinematografico, perciò Aria per questa volta decide di lasciarsi andare. Ala Nera le tocca le gambe, infilandosi sotto le medicazioni, sopra gli squarci e il gonfiore.
È calda e gelida allo stesso tempo. Spazza via il dolore con cura.
Aria ride mugolando commossa ma il mondo rimane serio.
Poi Ala Nera sale, sfiorandole i fianchi e la pancia, il petto che si sta gonfiando, il collo rigido, sudato: è una commistione di liquidi umani e inumani. Una fusione di intenti.
Di colpo entra qualcuno. Ala Nera  scatta ferina e sparisce sotto il letto. Aria non ha mai provato tanto fastidio in vita sua. È peggio di qualsiasi risveglio da un sogno meraviglioso.
Il medico le chiede come va oggi. Le sorride. Aria alza le spalle. Non ha più niente da condividere con gli esseri umani. Tutto ad un tratto l’uomo, a cui era così grata, le pare una specie di pezzo di carne che si muove senza alcun coordinamento. Un gonfiore organico ripieno di… di… di speranze.
Cazzo non c’è niente che le dia più fastidio delle fottute speranze. Di quel supponente positivismo da quattro soldi che sembra dire “io conosco, io guarisco, io controllo”.  Di quell’aspettarsi che le cose vadano meglio, che l’unico futuro che possa esserci includa il miglioramento, la struttura, la crescita.
Crescita verso cosa?
Chiude gli occhi in preda ad una specie di orrore cosmico, e chiede all’uomo di andare via.
Lui prima di uscire dice che i genitori di Aria verranno a trovarla fra poco. La ragazzina trattiene a stento un conato.
Sola, osserva Sigfrid che le compare in mezzo alla fronte, fra gli occhi. Nel rosa riesce a vedere galassie e mandala, tunnel metafisici fatti di nulla.
Sono le sole strutture che ormai riesce ad accettare. Il topo dice che Aria è sulla buona strada, che finalmente il suo rapporto con Ala Nera sta migliorando. Dice che presto si potrà agire: potranno avere la loro vendetta, dopo anni. Mostrare al mondo la sua vera faccia, i suoi veri limiti. Prendere ogni cosa che esiste e rivoltarla come un calzino, azzannando alle caviglie qualsiasi maledetto significato. “C’era bisogno di arrivare quasi alla morte?”, chiede Sigfrid. In fondo conoscevi già tutto. In fondo sapevi cosa non andava della tua vita, della vita di tutti. In fondo volevi già vomitare.
La telepatia consente alla ragazzina e al topo di parlare in contemporanea a volte. “Non esiste altro per la tua generazione…” stanno dicendo. “Non esiste altro per la tua generazione se non chiese sconsacrate senza più il tetto e animali di pixel, lande fredde e televisioni giganti, alberi scheletrici, organi morti, esploratrici bambine con zaini gialli, conigli verdi, mosaici e finestre distrutte, frutta allineata che precipita e sparisce, sguattere in ciabatte che provano a pulire aspettando il delirio finale.

IL DELIRIO FINALE

Aria scaccia via il topo terrorizzata, assalita da vecchi sentimenti. Non ha mai il coraggio di proseguire quel discorso, così come non ha il coraggio di lasciarsi prendere fino in fondo da Ala Nera. Non ancora. C’è ancora qualcosa di affascinante nella tenerezza, nella famiglia, nel futuro che comunque c’è, e forse ci sarà davvero.
Solo che…
Entra un’infermiera giallastra a controllarle la flebo. Ciabattando nel silenzio, non guarda Aria negli occhi, ma Aria glieli guarda con attenzione. Osserva con il suo unico occhio la bocca nascosta dalla coperta bianca, la frangetta che si fa sempre più lunga e lucida.
Qualcosa in quella donna le fa ripensare all’incidente.
Non si esce dalla televisione, nemmeno in punto di morte: la classica brusca frenata, il classico rumore di metallo e di vetro, le classiche grida strozzate. Tutto è solo visuale, astratto, come di qualcun altro. Lo shock prevale sul momento topico, la reazione all’azione: non è poi tutto così? Lei, l’infermiera, il medico, i genitori: tutte entità puntuali che, sotto sotto, amano la stasi, la capitolazione, la fase morta, il punto di arrivo, tutto ciò che non accade fra un momento e l’altro, perché i momenti sono solo patatine.
L’infermiera esce, e subito dopo Ala Nera torna a toccare Aria: questa volta con più insistenza. Ha un fare giocoso, da sgualdrina.
Da qualche parte Sigfrid squittisce allegro. Farfalle rosa volano per la stanza, poggiandosi sopra a gargouille tetri, antichi.
“Aspetta un momento.”, dice la ragazzina ad Ala. “Aspetta.”
Entrano i suoi genitori. Le farfalle e i gargouille svaniscono di colpo, così come Ala Nera.
Soliti riti, solito affetto sgualcito e ritrito. Chissà se percepiscono la distanza della figlia. Chissà se ne comprendono almeno qualche motivazione.
Anni e anni passati sotto le acque del vuoto contemporaneo, sotto la finzione densa e cristallina di un mondo dove ormai può essere vera qualsiasi cosa e dunque non è vero niente. Dove esiste ogni modo per provare piacere e stare bene ma dove non sta bene nessuno. Dove tutte le persone sembrano cartonati in balia del vento. Dove enormi catene di montaggio montano sogni e deliri, usando materia e antimateria, bulloni e sentimenti. Dove l’eco-ansia diventa il nuovo modo di pensare al futuro. Dove le bambine ballano con Dracula senza nessun avvocato che le difenda. Dove anche la sua sete di sangue viene messa in discussione. Dove gli angeli sono volati via. Dove c’è una quantità di roba davvero schifosa.
Aria può avere tutto, andare ovunque, essere qualunque cosa, seguire i suoi sogni oppure distruggerli. È sempre stato così, sarà sempre così.

Non ci sono limiti al suo libero arbitrio: può  sostanzialmente essere ubiqua, divina, totale.
Solo che…

I suoi genitori vanno via: devono tornare a lavorare. Aria ne osserva le sembianze prima che vadano, sperando un’ultima volta in qualche cenno, in qualche cosa di reale, finalmente fuori dalla televisione.
Niente.
Fuori nevica. Il piccolo albero di natale lampeggia nella stanza. E chi poteva esserci sul pennacchio se non Sigfrid, con tanto di tuba e bastone da vaudeville?
È il momento di ballare. Il momento del delirio finale.
Senza più paura Aria lascia che Ala Nera la avvolga. Diventano una sola cosa appiccicosa e definita, un informe angelico infernale assalito dai tremori e dalla rabbia. Può camminare: ora sta bene.
Si toglie la benda mostrando l’occhio sinistro tumefatto, stralunato, frantumato.
Disperata, divertita, circondata da animali danzanti e musica 2bit, la ragazzina si alza dal lettino ed esce dalla stanza d’ospedale.
Nei corridoi prende fuoco ogni cosa. I vetri esplodono, i muri si spaccano. Ogni essere umano presente grida e si dispera, strappandosi gli occhi e mordendosi la lingua.
Il sangue scorre a fiumi e i neon lampeggiano mentre Aria Nera cammina senza fretta, lo sguardo terrorizzato ed estatico.
Non vuole lasciare niente. Vuole che ogni cosa si mostri finalmente per quello che è: distrutta, malconcia, decaduta, inutile.
E le rovine prendono forma, la polvere avvolge lettini e macchinari esplosi, i tetti si aprono verso il cielo arrossato dal tramonto inquinato e tossico, gli inservienti e i medici si riducono a larve abuliche, mentre una specie di cavaliere alato con orecchini rosa e anelli di diamante esce fuori dall’ospedale senza idee su dove andare, il destino ancora immobile e accidioso: una piccola inutile Apocalisse trasmessa in diretta, una sottile metafora inventata di sana pianta da una bambina in preda al delirio da farmaci.
Aria ride, e il mondo ride con lei.

Illustrazione di Spunky zoe