Col rap la poesia è diventata una puttana in bocca a tutti è una valanga di detriti che frana Nacchere, nazioni, nastri da controbattere: combattere la storia con lignee ostriche di nacchere! Clop clop clap, applausi ai miei poeti parlando hanno aiutato a concrescere esegeti E “se getti la prima pietra chi è colpevole” accadesse oggi il mondo sarebbe un ammasso di pareti come le ballerine sopra a un ring di lottatori, come le belle donne in mezzo a un mazzo di fiori: l’ape di Pindaro, varchi spazio-temporali, l’eco del Big Bang: pluriverso di espansioni. “Giovani artisti” – io cito i padri, no padroni. Abbiamo ucciso il rap? Lo riesumiamo fuori dai nostri testi, convinzioni, palinsesti: le copie delle copie stanno in piazza con i fasci, fuori dagli stili, dai contratti, dalle sette: la mia è “Disutopia” – Artificial Kid 47. Ho ucciso i padri. Ho ucciso i padri. Io cito i padri, maestri contemporanei: materia oscura dei miei giorni visionari Ipotizzo dei miei padri per dar conto all’esistenza, contratto la mia anima col nulla che mi addensa, compensa la mia è consapevolezza di essere e di essere chilometri alla terza. Mi studiano da fuori – N.O.A.A. i miei suoni fanno onde a incomprensibile frequenza Danza, danza amore sul mio Caos: Flamenco per me è vita, una valanga che frana – le pietre sono crome di ciliegie per la bara: una è nera, è quella amara, l’altra è bianca, la mia ala.
Se il tempo finisse alla congiuntura tra dolore, piacere e vergogna?
Enigma dei Lotofagi
Il vecchio Lotofago iniziò a narrare: «Alcuni degli uomini che sono ora qui tra noi raccontano che Elena era figlia di Nemesi. Quando Nemesi depose l’uovo che conteneva Elena, lo consegnò a Leda perché lo nascondesse e i Titani non potessero trovarlo. Leda lo costudì e, una volta dischiuso, lo mostrò a Tindaro, suo marito e re di Sparta, affinché insieme ne avessero cura.
La bambina non pianse mai, neanche quando fu rapita da Teseo. La sua bellezza straordinaria ammaliò l’eroe ateniese, che non le fece violenza. Teseo, pertanto, fu il primo uomo a impadronirsi di Elena e la storia del rapimento si diffuse subito in tutto il Mare Mediterraneo. Si narra che Teseo l’avesse rapita soltanto perché era ancora una bambina e nessun eroe prima di lui aveva compiuto una tale impresa. Infatti tutti gli altri eroi – lo stesso Eracle – avevano atteso che la bambina sacrificale crescesse diventando una donna dalle abili mani e solo allora l’avrebbero stanata e violata, quando sarebbe giunta in quell’età che assomma la caccia alla monta. Teseo riportò a casa Elena quando era oramai una donna.
La storia divenne paradigma: per amare Elena, bisogna rapirla.
La storia divenne paradigma: per amare Elena, bisogna rapirla.
Altri invece narrano che Odisseo era stato nominato primo protettore del simulacro di Elena – il nome del simulacro di Elena fu modellato su quello del Palladion di Atena: Elenion. Ma a differenza della statua lignea della Glaucopide, la quale rappresentava Pallade, amica di Atena e da questa uccisa durante un gioco, l’Elenion era fatto di purissima metis. Il mastro intagliatore che lo levigò si gettò dalla rupe più alta del Parnaso. Fu Menelao colui che ne subì irrimediabilmente l’inganno, allorché Odisseo, rinunciando a ucciderlo nella rissa indetta da Tindaro, pur avendo massacrato altri imponenti eroi, tra cui lo stesso Aiace, consegnò Elena all’Atride. Tindaro volle, infatti, rispettare una tradizione più antica quando, per ottenere Elena in sposa, convennero a Sparta cinquanta pretendenti invitati dal re stesso, il quale sapeva non si sarebbe compiuto il rapimento prima che i pretendenti non si fossero scannati l’un l’altro, com’era uso tra gli eroi. I loro nomi sono andati persi, tranne Odisseo, che ora siede tra noi, dimentico del suo nome, del suo retaggio e del ritorno, e Menelao.
Quando Elena fu rapita da Alessandro, l’Elenion fu portato a Sparta da Odisseo. L’itacese suggerì a Menelao, divenuto nel frattempo re del Peloponneso, di chiamare l’Elenion con il nome di Elena, per non destare sospetti, e Menelao accolse il consiglio, come aveva sempre fatto. Elena sostituì l’Elenion che l’aveva sostituita.
La notte stessa in cui Elena e Menelao si ritirarono nelle loro stanze, a concepire figli non di carne ma di memoria, Odisseo sognò la sua guerra. La piana di Ilio dal monte Eta al fiume Scamandro era deserta. Le navi degli Achei tornavano in Grecia, Odisseo poteva ancora scorgere gli alberi delle triremi beccheggiare. Camminò lungo la terra sulla quale si sarebbe dovuta consumare la carneficina da cui sarebbero nate le storie degli uomini. Niente accadde. La terra era infeconda, la città vuota. Odisseo attraversò le mura, salì le gradinate del palazzo di Priamo, entrò nella sala del re, ma non vide nessuno. Il silenzio lo accolse, unico ospite. Qui si ricordò di Elena, del casus belli, dell’inganno che egli stesso aveva innescato. Il pensiero di Elena è sempre il primo a scoprirmi dall’assenza, mi disse Odisseo quando giunse nella nostra città. Il pensiero ricostruisce l’evento. Dall’occhio alle zone di elaborazione dell’immagine – e ritorno. Il pensiero di Elena si innesta solo a partire da ora. Odisseo è chi anticipa il simulacro, e precedendolo lo supera. È una corsa all’indietro e all’interno per giungere fuori o aldilà di Elena. “Io vedo” è una preghiera inascoltata, lamento di ombre che vagano tra la vita e la morte.
Poi il sogno mutò la sua sostanza, e l’orrore e la morte vi presero parte.
Poi il sogno mutò la sua sostanza, e l’orrore e la morte vi presero parte. Ora con una mano Elena tiene fermo il volto di Odisseo, mentre con l’altra, impugnato un coltello affilato, recide i legamenti della mandibola, l’osso cede e la bocca si spalanca. Allora con lo stesso coltello taglia il palato, il sangue cola dalle fauci. Infine asporta il cervello e lo rigira tra le mani, ancora caldo, fumante. Come l’augure che legge nelle viscere dell’animale sacrificale, misurandone la temperatura e vagliando il colore del sangue, così Elena nelle increspature, tra gli interstizi. L’indice passa in rassegna le curve, gli avvallamenti tra i lobi, e poi giù fino all’amigdala. Prima l’unghia levigata, poi falangetta, falangina, falange. Il dito è tutto dentro. Elena sorride – un ghigno di cattiveria senza ironia – mentre penetra anche con l’intera mano, a scovare il punto debole, l’infermità, la paura, il desiderio.
Elena sorride – un ghigno di cattiveria senza ironia – mentre penetra anche con l’intera mano, a scovare il punto debole, l’infermità, la paura, il desiderio.
Il desiderio di Elena è dentro di me, mi confessò Odisseo (molti lo hanno descritto in lacrime, io non lo farò, poiché come ogni Lotofago non conosco il pianto), ed è già molto se riesco a muovermi in questa concrezione di spazio. Nel mezzo si moltiplicano le interpretazioni. La mente è il medium, non ne esiste un altro. Può proiettare ciò che accade ed essere la superficie dell’evento.
Quando si risvegliò, l’alba raggi di croco si levava all’orizzonte. La casa di Menelao risuonava dei passi di Elena, che sfuggiva allo sguardo dell’ospite, alle sue brame d’amore, al suo desiderio di inganno. Odisseo la inseguì nelle sale vuote. Ogni gesto era soltanto una messinscena, Elena non poteva essere più afferrata – così era stato sancito tra Tindaro e l’eroe, quando la sacrificarono nel simulacro. Lo stesso eroe che ora, nell’incanto della solitudine, anela al corpo di Elena. L’inganno ferisce doppiamente chi lo perpetra e chi lo subisce, per il quale l’ultimo pensiero è ineffabile».
Discorrendo di femminismo, risulta facile ricadere nella trappola nostalgica di un passato in cui, ad oggi, una parte di quei moti di spirito che manifestano intenzioni rivoluzionarie continua a cadere in modo anacronistico. Godono senz’altro di grande attualità le rivendicazioni portate avanti dai movimenti femministi dello scorso secolo, ma risulta necessario che la teoria e la pratica femminista subiscano un processo di ampliamento e adeguamento ai nostri tempi. Per far sì che tale attualizzazione avvenga non risulta necessaria tanto l’aggiunta di nuovi principi, quanto invece una mirata opera di integrazione, rimescolamento e decostruzione dei capisaldi della società tipica del Capitalocene[1], in cui ci troviamo – più che a orientarci – a smarrirci.
Si è parlato del diverso, dell’escluso e in linea generale di ciò che è altro – per l’appunto, xeno – o alienato, ed è giusto con il concetto di alienazione che esordisce il Manifesto Xenofemminista elaborato nel 2015 dal collettivo Laboria Cuboniks:
«XF si impadronisce dell’alienazione come impulso a generare nuovi mondi. Siamo tutt* alienat* – c’è mai stato un tempo in cui non lo eravamo? – ed è attraverso, e non malgrado, la nostra condizione alienata che possiamo liberarci dal fango dell’immediatezza.»
(Laboria Cuboniks, Xenofemminismo: una politica per l’alienazione[2])
Ponendo l’accento sul concetto di alienazione come liberazione (e qui si intenda la libertà come libertà “di” e non più “da”), ottenuta seguendo una linea accelerazionista di sinistra[3] che mira a produrre una negazione di una negazione, è possibile ottenere un superamento del capitalismo accelerando e non contrastando i processi che lo caratterizzano, al fine di ottenere miglioramenti sociali ed emancipatori.
Lo Xenofemminismo è da intendersi non tanto come un nuovo femminismo, bensì come una evoluzione dello stesso, con alla base il proposito di formulare una politica di genere radicale, partendo da una concezione post-umana e anti-naturalista, per aprire uno spettro ampliato di possibilità dell’umano e favorire così la proliferazione delle differenze e della fluidità; è quindi «un tentativo di sintesi tra cyberfemminismo, post-umanesimo, accelerazionismo, neorazionalismo, femminismo materialista e altro ancora […]» (Helen Hester, Xenofemminismo, Nero Edition, 2018).
Immagine di Olia Svetlanova
Un ruolo centrale in questo processo di evoluzione è rivestito dalla Tecnologia, che diventa mezzo di azione per il raggiungimento indipendente degli obiettivi primari del movimento femminista, poiché il suo carattere violento e diffuso si fa forza da incanalare per trasformare le condizioni sociobiologiche oppressive. Una Tecnologia, quindi, pensata in termini di fenomeno sociale, oltre che come strumento con il quale è possibile attuare delle trasformazioni schierate e strategiche attraverso la lotta collettiva, sempre tenendo presente le dinamiche di potere e la redistribuzione delle risorse che un cambiamento sociopolitico comporta. È di fatto il Tecnomaterialismo il primo dei tre pilastri dello Xenofemminismo. Il futuro xenofemminista è legato indissolubilmente alla tecnoscienza, dove tutto è terreno fertile e niente è tanto sacro da non poter essere riprogettato in vista dell’ottenimento di una maggiore libertà e fluidità. La Biologia non è il destino immutabile di un tempo: essendo ormai tutto – o quasi – malleabile, va perdendosi quel senso di “sacro” cui si percepisce ogni fenomeno detto “naturale” e diviene così essenziale uscire dalla logica binaria uomo-donna e riconoscere che ci troviamo in un’epoca in cui tutto può essere rimodellato e trasformato in una direzione emancipatoria.
Immagine di Olia Svetlanova
Nulla è fisso, che si tratti di condizioni materiali o di condizioni sociali. Da questo presupposto scaturisce il secondo pilastro del manifesto XF, ossia l’Antinaturalismo. Il culto della natura non ha niente da offrire alla società contemporanea ed è importante riflettere sulle conseguenze che invece concezioni come l’ecofemminismo fanno emergere: pensare alla donna come “madre” terra, “madre” natura e altre amenità rischia di riprodurre la logica dell’ordinamento patriarcale fallocentrico, dove il ruolo femminile è indissolubilmente legato a quello della maternità. Anche il linguaggio stesso per lo Xenofemminismo va trasformato e problematizzato: accanto al concetto di antinaturalismo e di fluidità, si pone quello del linguaggio performativo, termine diffuso dal linguista e filosofo J. L. Austin e reso poi più radicale da J. Derrida. Nella società, ciascun nome è un’identità prodotta dal linguaggio che come sistema di significazione non rispecchia le cose significate, bensì le produce. In questa prospettiva il termine “donna” non viene inteso come un significante riferito alle donne in carne ed ossa, ma piuttosto le produce: la realtà di essere donne non è un fatto empirico, bensì un effetto performativo del linguaggio che nomina e definisce le donne.
Importante in questo ambito è il pensiero di Donna Haraway sul cyborg[4], figura che confonde i confini tra naturale e artificiale, corpo e macchina, umano e animale, per riflettere sull’affermazione del ruolo esclusivo di “identità fratturate” non più marcate dal gender né dalle altre dicotomie tipiche dell’economia binaria. Come afferma all’interno del suo saggio Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Feltrinelli, 1995):
«Alla fine del ventesimo secolo […] siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo: in breve, siamo tutti dei cyborg. Il cyborg è la nostra ontologia, ci dà la nostra politica. (…) Il cyborg è una creatura di un mondo post-genere (…) che salta il gradino dell’unità originaria, dell’identificazione con la natura in senso occidentale: (…) superando la polarità di pubblico e privato, il cyborg definisce una polis tecnologica in parte fondata sulla rivoluzione delle relazioni sociali nell’oikos, l’ambiente domestico».
Su questa scia anche Judith Butler, la quale considera tutti i posizionamenti interni al codice simbolico della società come identità che possono essere moltiplicate e confuse, mescolate e ricombinate in un continuo gioco di resinificazione che spiazza il codice stesso e lo destabilizza. Ancora appoggiandosi al pensiero di Derrida, si può identificare la forza del codice simbolico patriarcale nella sua capacità di ripetizione: le identità maschile e femminile sono prodotte da un meccanismo iterativo (o citazionale) del discorso che le rafforza e normalizza, stabilizzando sia il posizionamento dei privilegiati che quello degli abietti.
Essenziale è a questo punto riporre particolare attenzione all’effetto di normalizzazione che ha il discorso nel fissare significati rendendoli “normali” e “naturali”. Così facendo si delineano in maniera automatica anche delle identità che il linguaggio costituisce mediante subordinazione o espulsione (donna, lesbica, checca, frocio) e che posiziona in ruoli negativi. “Linguaggio” è infatti un sistema che normalizza tanto i normali quanto gli anormali, motivo per cui serve interrompere l’uniformità della ripetizione attraverso combinazioni impreviste di identità: occorre attuare una strategia di sovversione accelerazionista.
Immagine di Olia Svetlanova
Il risultato sarebbe non uno svuotamento di concetti, quanto piuttosto una proliferazione del simbolico e una destabilizzazione e moltiplicazione continua dei posizionamenti che impedirebbe il ricostituirsi di un ordine fisso ed egemone. Da qui il terzo e ultimo, ma fondamentale, pilastro dello Xenofemminismo: l’Abolizionismo del genere.
Se la natura non è fondamento essenzializzante per la corporeità o l’ecologia, bensì spazio plastico di conflitto tecnologizzato, allora anche il genere diviene terreno malleabile e assoggettabile a volontarie trasformazioni. Non è da intendersi, l’abolizionismo, come tentativo di eliminazione del genere stesso, quanto piuttosto come un processo di progressiva eliminazione delle limitazioni legate al genere. Tra gli scopi dello XF emerge, in connessione a tale principio e in maniera innovativa e più inclusiva rispetto ad alcune prime realtà femministe, la difesa di un accesso meno restrittivo alle tecnologie di transizione. Il corpo, spogliato della propria sacralità naturale, diventa qualcosa di hackerabile.
Se la natura non è fondamento essenzializzante per la corporeità o l’ecologia, bensì spazio plastico di conflitto tecnologizzato, allora anche il genere diviene terreno malleabile e assoggettabile a volontarie trasformazioni.
Sicuramente, la dicitura “abolizionismo di genere” non contiene esplicitamente tutta la portata delle ambizioni del progetto xenofemminista, in quanto lo scopo non è demolire solo il genere, ma anche le altre caratteristiche (associate ad esempio alla razza, alla classe, all’abilità corporea) ingiustamente caricate di stigma sociali contribuenti alla formazione di una cultura della disuguaglianza. L’ambizione è di spogliare queste caratteristiche del solo significato sociale, caratterizzando una società in cui esse non possano più essere usate per il funzionamento asimmetrico del potere. Non si tratta quindi di abolire la differenza di per sé, quanto piuttosto il pensiero dell’economia binaria e le limitazioni dell’identità di genere. Simone De Beauvoir scriveva che «chi ha interesse a perpetuare il presente versa sempre qualche lacrima sul magnifico passato che sta per scomparire, senza accordare un sorriso al giovane avvenire.» (Il secondo Sesso, Ed. Il Saggiatore, 2008). Ebbene, tale atteggiamento reazionario non è certo attribuibile al movimento xenofemminista, il quale si spinge oltre i definiti confini dell’azione femminista tradizionale ed effettua una fuga in avanti atta a proporzionare la propria azione alla «complessità mostruosa della nostra realtà», concependo il proprio agire in un’ottica di lotta estesa, antirazzista, postcapitalista e antimperialista.
Risulta fondamentale a tal proposito una riprogettazione del modello economico che giunga a liberare il lavoro riproduttivo e a costruire modelli familiari differenti, non basati sulla cura del Bambino, slegando da tale figura l’idea di Futuro. Sempre citando la Beauvoir: «Finché la famiglia e il mito della famiglia e il mito della maternità e l’istinto materno non saranno soppressi, le donne saranno oppresse.» (Dialogo con Betty, Friedan, The Saturday Review, 1975). Non più indirizzando la propria azione a realtà individuali o micro-comunitarie, lo Xenofemminismo intende impossessarsi dei poteri neoliberisti e tecnologici del sistema capitalista, utilizzandoli ai fini di un cambiamento sociale atto a far implodere il sistema stesso.
Ponendosi come piattaforma di discussione e scambio di idee, piuttosto che come programma o ricetta, lo XF ambisce alla costruzione di un nuovo linguaggio delle politiche sessuali, un linguaggio che «si autocrei incrementandosi come un bootstrap» e che si infiltri nel sistema infettandone ogni contesto fino a ribaltarne il funzionamento e annientare la logica patriarcale dettata dall’uomo bianco capitalista e/o dalla Natura. Per citare ancora, in conclusione, qualche perla del Manifesto: «Se la Natura è ingiusta, cambiala!»