Un sovrano | Angelo Lachesi

Bacco assentì, concedendo un dono nocivo,
e rammaricandosi che non avesse scelto di meglio.
Il re berecinzio andò via, tutto contento del suo malanno,
e cominciò, toccando qua e là, a verificare la promessa del dio.

– Ovidio, Le metamorfosi, libro XI

L’umanità è un accessorio del sistema economico.

 – Karl Polanyi, La grande trasformazione

Ero giunto a definirla una missione. Mi dicevo che lo facevo per la scienza medica, per la farmacologia, per il benessere e lo sviluppo dell’umanità. In questo modo avrei dato il mio contributo – se pur modesto – alla ricerca, alle nuove conoscenze, alla scoperta di farmaci e terapie che avrebbero condotto il genere umano verso un miglioramento della qualità della vita. Il mio corpo sarebbe stato il campo di raccolta di dati empirici, oggetto di indagini scientifiche, mezzo per la formulazione di ipotesi e teorie, strumento da sottoporre al vaglio della sperimentazione.
In verità, non riuscì mai a persuadermi né a trovare in me delle motivazioni tali da risultare convincente. A lungo andare, ripetendo quelle futili scuse, divenni ridicolo ai miei stessi occhi. Così, ho deciso di essere sincero, almeno con me stesso: avevo bisogno di denaro. Non ero disperato, sul punto di morire di fame o mettermi un cappio al collo, ma versavo in una condizione di costante indigenza, una situazione snervante. Non avevo un impiego stabile e spesso, tra un lavoro e l’altro, passavano settimane. La paga arrivava spesso in ritardo, mentre le spese sono sempre state stabili e a volte ero costretto dalle circostanze a contrarre piccoli debiti che riuscivo a ripianare solo con grande difficoltà ed ecco un quadro definito della mia deleteria situazione economia.
All’inizio mi vergognavo. Poi mi sono lasciato andare a quell’attività che si è trasformata in una specie di routine. Caduto quel velo di menzogne autoinflitte e abbattuta qualunque forma di moralismo, ho accettato senza remora alcuna la verità che ho testé esposto: avevo bisogno di denaro. Il resto conta poco.
La mia attività consiste nel sottopormi volontariamente alla sperimentazione farmacologica: sono diventato una cavia per testare nuovi farmaci in cambio di una contropartita in denaro. In fondo, mi sembra un modo onesto e, soprattutto, veloce per arrivare a fine mese. Ingoiare qualche pillola, indossare dei cerotti o inalare degli spray, per poi sottopormi ad esami medici, mi è sempre apparso un modo dignitoso di ottenere denaro. Denaro variabile a seconda dei test ma, in genere, guadagnavo un migliaio di euro per pochi giorni di ricovero, nei quali assumevo la sostanza da testare e mi sottoponevo ad analisi. Tutto qui.

Un farmaco mi ha causato un temporaneo tremore agli arti, un altro sonnolenza, un altro ancora mal di stomaco, ma nessun malessere grave o danno permanente. Ho ricevuto, tuttavia, da chiunque rivelassi le mie modalità poco ortodosse di sbarcare il lunario, critiche feroci, colme di sorpresa e, talvolta, di sdegno. “Ti rovinerai la salute”, “Vendi il tuo corpo per pochi spicci”, “Potresti morire con quella roba lì” erano le critiche più comuni che mi venivano rivolte. Ma queste non mi indussero a smettere – il bisogno era una motivazione ben più forte – bensì a riflettere su cosa sia per gli uomini il denaro e su cosa si faccia per esso.
Innanzitutto, il denaro – o la sua semplice promessa – ha il potere di determinare dei comportamenti, di orientare scelte, di far muovere gli uomini. Il denaro è il potere di obbligare qualcuno a lavorare, a tenerlo otto ore in un ufficio, in fabbrica o in cantiere; è il potere di far arare campi, di far scendere in una miniera angusta, di far trascorrere le giornate dietro il bancone di un supermercato. Nel mondo del denaro c’è un prezzo per tutto, qualsiasi cosa ha un valore in denaro, persino il proprio corpo. Si possono convertire in denaro beni immateriali, come la forza-lavoro o la salute nel mio caso. Ho capito che le cose e gli uomini si pongono in relazione tra loro attraverso il denaro e il calcolo orientato al denaro finisce per investire l’intera esistenza. L’impressione che ho maturato durante i ricoveri in clinica è, con le dovute eccezioni, di vivere in un mondo privo di legami affettivi, personali ed emotivi, dove i rapporti tra gli individui sono definiti dall’interesse per il denaro e con il denaro hanno i più intimi legami. Ho capito che ciascuno di noi, nel tentativo di soddisfare le proprie necessità, diventa mezzo per gli altri uomini e che il denaro domina questo rapporto. Sin dalla nascita, il denaro impregna la mentalità, modella le coscienze, determina le scelte di vita di ciascun uomo. Nella sua circolazione segue leggi impersonali, aderisce ad astratte logiche numeriche, il suo corso è estraneo ai giudizi di merito, alle qualità dei soggetti e alle inclinazioni degli individui.
Terminati gli studi, in ossequio alla logica del denaro dunque, ho occupato e investito il mio tempo nel lavoro e, in cambio delle mie prestazioni, ho ricevuto un salario, in genere modesto: otto o nove ore al giorno per una paga che non garantiva neanche la semplice sopravvivenza e nessuno, mai, ha sollevato critica alcuna. Così, ho compreso che la stessa logica del denaro vuole che sottoporsi volontariamente alla sperimentazione farmacologica non abbia alcunché di riprovevole rispetto all’abituale lavoro da cameriere. È il senso comune, solo quello, a considerarla deplorevole. E poi, la storia e l’attualità sono sature di personaggi che fanno follie, superano ostacoli incredibili e dedicano anima e corpo a far soldi.  In fondo, se il denaro è un potere, non sono altro che preda della sua potenza, in balia – come tutti – di un mondo che non sono in grado di dominare.

Ero su un regionale diretto a Como. In quel periodo avevo una delle mie occupazione saltuarie presso un albergo sul lago che, durante l’estate, è gremito di turisti. Erano le sei e venti del mattino e dovevo esser in albergo alle sette in punto per servire la colazione agli ospiti. La carrozza del treno era semivuota, vedevo qua e là spuntare piccole porzioni di teste oltre i sedili in stoffa. Il silenzio del treno era riempito dal sottofondo metallico delle rotaie. Durante il tragitto leggevo senza interesse il giornale e fissavo pigro il paesaggio dal finestrino. Alternavo le due attività a lunghi sbadigli, fino a quando sentii una voce familiare. Proveniva da alcuni posti più avanti, alla mia destra. Tesi l’orecchio, incuriosito.
– Ci pagherei quasi due anni di università – proferì la voce.
– Nemmeno per dieci anni lo farei – rispose un’altra voce, anch’essa familiare.
– Ma chi hai conosciuto che ha preso quella roba?
– Il tipo di Varese, quello grasso e senza capelli. Ma mi hanno detto anche degli insegnati di ballo…
– Chi, i sudamericani?
– Sì anche loro… tutti a cagare come i dannati…

Dopo queste parole riconobbi entrambi. Si trattava di due studenti che avevo conosciuto mesi addietro durante la sperimentazione di uno spray in via aerosolica, della roba al cortisone, se non ricordo male… Fummo ricoverati in clinica per tre giorni. Avevo un buon ricordo di loro…

Ora sapevo come avrei potuto vincere la noia per il resto del viaggio. Mi alzai e andai da loro. Li salutai. Mi riconobbero solo dopo alcuni lunghi secondi e ricambiarono il mio saluto con delle espressioni accigliate e colme di sonno. Mi accomodai nel sedile accanto e iniziai a conversare. Mi spiegarono che stavano andando in clinica per testare una pomata. Erano stati chiamati la settimana scorsa. Chiesi di cosa si trattasse. Mi dissero che non sapevano nulla, dovevano solo applicare la pomata e rimanere per qualche ora sotto osservazione poi, la sera, sarebbero tornati a casa. Mi chiesero della pillola verde.
– La pillola verde… – sussurrai incerto.
– Sì – riprese uno dei due – la seconda fase di sperimentazione inizia il mese prossimo. Non sei stato chiamato? – domandò subito dopo.
– In effetti sono stato contattato dal centro medico, ma sai, in questo periodo sono impegnato e mi secca abbandonare il lavoro… – e lasciai intendere che per il momento non era il caso – però non mi hanno detto nulla riguardo alla pillola – aggiunsi subito dopo.
– Guarda… meglio così! – intervenne l’altro studente – nella prima fase di sperimentazione ha fatto una strage!
– Cosa è successo? – chiesi sorpreso.
I due studenti si scambiarono uno sguardo, poi delle risate. Continuarono a ridere fino a quando uno dei due riprese la parola: – È una pillola che serve per cagare! Il problema è che funziona fin troppo bene! Chi l’ha presa ha passato i giorni successivi nel cesso.
I due studenti continuarono a ridere.
È un farmaco per combattere la stitichezza, pensai.
– Che sarà mai! – esclamai mentre i due giovani continuavano a sghignazzare e scambiarsi delle occhiatine sarcastiche.
– Gli effetti durano per giorni – riprese uno dei due – caghi, caghi in continuazione e hai problemi all’intestino, tipo irritazioni e cose varie.
– Vi spaventate per così poco! – risposi io con aria di sufficienza – e la paga? – chiesi poi con indifferenza.
– Mi sembra sia tremila e seicento.
Sgranai gli occhi.
– Tremilaseicento euro? – sussurrai con stupore – e quanto bisogna rimanere ricoverati?
– Tre o quattro giorni, credo – rispose uno studente – ti ammazza meno che lavorare un mese per quella cifra in alcuni ambienti di lavoro, vero?
– Sì, quattro giorni – confermò l’altro – ma io preferisco la pomata di oggi. Mi pagano molto meno, ma non ho effetti collaterali – mentre il compagno annuiva oscillando il capo.
Il resto del viaggio trascorse conversando di università, esami di lingua e soggiorni all’estero. Poi, scendemmo dal treno e ci dividemmo in stazione. Andai a lavorare, terminai la mia giornata e lo stesso feci per tutta la settimana. La domenica mattina mi svegliai alle quattro e mezza, come tutte le mattine. Mi alzai rimuginando sui tremila e seicento euro. Pensai che per guadagnare quella cifra avrei dovuto sgobbare quasi tre mesi, tutti i giorni a eccezione del lunedì. Dovevo prendere un treno e un autobus ogni mattina per recarmi a lavoro e un autobus e un treno ogni sera per tornare a casa. Dovevo apparecchiare, sparecchiare, servire caffè, primi piatti, secondi piatti, dessert, cambiare forchette, aprire bottiglie, sistemare tovaglie e tovaglioli a colazione, pranzo e cena tutti i giorni per gli ospiti dell’albergo. Ingoia quella dannata pillola, mi dissi, te ne stai quattro giorni in clinica a guardare la TV, leggere fumetti e poi stai bene per almeno tre mesi.

Andai a lavoro anche quella mattina, ma il giorno seguente chiamai la clinica.
– È fortunato! – mi dissero – è rimasto un posto solo, cercavamo l’ultimo volontario.
La sperimentazione prese avvio dopo due settimane. Sapevo solo che avrei dovuto ingerire una pillola, fare le solite analisi di routine e rimanere sotto osservazione. Ne ero quasi felice.

Entrai in clinica lunedì 8 agosto. Era un mattino soleggiato, ma non caldissimo. La notte precedente un temporale si era abbattuto con piogge fluviali e venti possenti. L’aria era ancora fresca e la brezza primaverile, più che estiva, mi faceva quasi rimpiangere la reclusione volontaria.

Ad attendermi c’erano i soliti infermieri e paramedici, quelli che conosco da anni e con cui ho già confidenza. Solo l’equipe medica, specifica per quella tipologia di test, era nuova. Mi accolse un medico giovane, con una rada barba nera e un sorriso persistente e gioviale. Mi spiegò la procedura, identica a quella degli altri farmaci, e mi consegnò un foglio con tutte le regole. Prima di lasciarlo sottolineò con l’evidenziatore giallo la regola più importante: NON FUMARE DURANTE IL PERIODO DI DEGENZA. Si sincerò che mi attenessi a questa regola sotto lo sguardo ironico degli infermieri, consapevoli che nei bagni tutti i volontari tabagisti si chiudono furtivi e fumano una sigaretta dietro l’altra. «Non si preoccupi, non fumo», risposi al medico fingendo interesse per la lunga lista di prescrizioni. Lui mi guardò con il suo solito sorriso, ancora più gioviale e indifferente. Compilai una serie di moduli e autorizzazioni e passai in un’altra stanza. Quei tre medici mi fecero una lunga serie di domande su malattie pregresse, allergie, incidenti e stato di salute generale. Stesse informazioni anche sui miei familiari. Poi mi visitarono il ventre, mi auscultarono il cuore, rilevarono la pressione sanguigna, presero un campione del mio sangue e delle mie urine. Alla fine della visita, mi fecero accomodare con tutti gli altri volontari nel refettorio. Qui ci servirono la colazione e, a fine pasto, la famosa pillola oggetto di sperimentazione. Era verde, lucida e rivestita da uno strato di microfilm; grande come un fagiolo cannellino, aveva una forma regolare e una consistenza molliccia. La buttai giù, senza pensarci, sotto lo sguardo tediato di un infermiere. Ingoiai un sorso d’acqua e sentii il fagiolino verde scendere per l’esofago.
Subito dopo, andai nella camera che mi avevano assegnato. Era uguale a tutte le altre: semplice, pulita e anonima. Sistemai le mie cose e andai nel salone con gli altri volontari. Mi intrattenni per un’ora con tre di loro, poi tornai in camera. Presi un libro, tra da quelli che avevo messo in valigia: L’utopia di Thomas More. L’avevo preso in biblioteca, era uno di quei testi di cui avevo sentito parlare. Trattava del mondo ideale o qualcosa del genere. Lessi il primo libro, incuriosito dalla polemica contro gli ordinamenti politici inglesi che sanzionavano il furto con la morte. Non ne ultimai la lettura che iniziai a sentire gli effetti della pillola. Era un lassativo e quanto fosse efficace lo avrei scoperto a breve. Dapprima sentii un leggero formicolio al ventre, poi una sensazione di malessere e infine il dolore accompagnato dalla necessità di liberarmi. Andai in bagno e ne uscii sollevato. Dovetti, però, tornarci una seconda e anche una terza volta. Del secondo libro dell’Utopia – per quanto fossi curioso di leggere la descrizione dell’isola – quel giorno, non arrivai nemmeno a cominciarne la lettura.

Tutti i pasti che mi furono somministrati nei giorni successivi erano accompagnati dal fagiolino verde, potente e magico, con le sue indescrivibili capacità liberatorie.

Il giorno successivo descrissi con grande dovizia di particolari gli effetti della cura. I medici sorrisero ascoltando i miei disagi. Si limitarono ad annotare le mie descrizioni, a farmi delle analisi, poi ricominciarono con la sperimentazione: colazione, pranzo e cena seguiti dal magico fagiolo. Ed io, nel bagno – così come gli altri volontari – trascorrevo i migliori momenti della giornata. Il terzo giorno tutto si ripeté uguale ai due giorni precedenti se non fosse stato per una seduta particolarmente dolorosa. Quando tirai lo scarico, mi accorsi che qualcosa era rimasto nel water.  Sembravano sassolini gialli, di forma sferica e irregolare, con un diametro di pochi millimetri. Erano una decina e, come i sassi, non galleggiavano affatto, ma rimanevano sul fondo. Tirai di nuovo lo sciacquone. Più della metà furono inghiottiti dallo scarico. Lo tirai una terza e una quarta volta; solo allora quei sassolini sparirono del tutto.
Dapprima ne fui turbato. Com’era possibile, mi chiesi, che dal mio corpo uscissero dei sassi? Come li avevo ingeriti? Facevano parte della sperimentazione? Erano all’interno delle pillole?

La mattina successiva riportai l’accaduto al medico. Preoccupato, descrissi tutti i particolari. Lui mi rispose con un sorriso sardonico. Mi spiegò che non era possibile che nelle mie feci ci fossero dei sassi. Che probabilmente non me n’ero accorto, che quel materiale era già nel water. Insomma, mi trattò come un idiota e, dinanzi alla fermezza delle sue argomentazioni, mi sentii davvero idiota. Defecare dei sassi… com’era possibile? mi chiesi.
Il quarto giorno, la sperimentazione finì. Fui sottoposto alle ultime analisi e mi dimisero. Quando tornai a casa i sintomi del fagiolo verde persistevano, proprio come avevano detto gli studenti. Il farmaco continuava  a funzionare anche a distanza di giorni dal suo ultimo utilizzo. Ci misi una pietra sopra e mi rassegnai all’idea di continuare ad andare in bagno dopo ogni pasto per alcuni lunghi giorni, fino a quando il potere lassativo fosse svanito.

La mattina successiva mi svegliai alle sette e trenta. Ero nel mio letto. Mi rigirai più volte, poi avvertii lo stimolo di andare in bagno. Quando finii mi colse uno stupore senza pari. I sassolini, gli stessi che avevo trovato nel water della clinica, erano lì, nel water di casa mia. Ora ne ero certo. Uscivano dal mio corpo. Com’è possibile?, continuai a domandarmi. 
Vagai per casa a lungo. Pensavo a cosa avrei dovuto fare. Correre in ospedale? Sarei stato preso per un idiota ancora una volta. “Sa… ho defecato delle pietre, sono sferiche, gialle e pesanti”, avrei detto. E il medico di turno? Mi avrebbe riso in faccia, oppure spazientito mi avrebbe invitato ad allietare qualcun altro con il mio presunto sarcasmo. E dunque? Richiamare la clinica? Ritornare lì, spiegare il problema e metterli dinanzi al fatto compiuto in modo tale da dimostrare l’incontrovertibilità delle mie tesi forse, era la scelta migliore. Chiamai la clinica. Mi rispose un impiegato, il quale mi mise in contatto con un referente della casa farmaceutica che aveva promosso la sperimentazione. Quest’ultimo ascoltò il mio racconto e mi invitò a presentarmi presso un centro medico non lontano dalla clinica della sperimentazione per sottopormi a visita medica, raccomandando di portare un campione di feci per le analisi. Mi diede appuntamento dopo due giorni. Terminata la telefonata, ricominciai a vagare per casa pensieroso. L’appuntamento per la visita mi aveva, in parte, tranquillizzato. Ma i miei dubbi non sembravano sopirsi. Cosa diavolo erano quei sassi? Come facevano ad uscire dal mio corpo? Volevo vederci chiaro. Così infilai un guanto e ne presi uno dal water. Era una pallina di un giallo pallido. La feci roteare a lungo tra le dita guantate, osservandola con attenzione. Provai a schiacciarla invano: era metallo durissimo e, nonostante fosse piccola, risultava piuttosto pesante. Aveva una forma irregolare, una sfera con piccoli rilievi e minuscole cavità. La osservai a lungo sotto la luce di una lampada, poi la sciacquai e la avvolsi in un sacchetto di plastica.
Ricordai di un vecchio compagno di scuola che aveva studiato geologia. Lo avevo incontrato spesso e sempre per caso nei pressi di Parco Sempione. Una volta mi aveva anche detto dove abitava e pensai fosse arrivato il momento di fargli una visita.

Un’ora dopo bussai alla sua porta. Si chiamava Cesare e mi accolse con sorpresa e diffidenza. Era vestito con una tuta da ginnastica sgualcita, sembrava un modello degli anni Ottanta, larga e satura di colori smaglianti. Mi spiegò che era alle prese col pc che non funzionava, accennò a degli aggiornamenti del sistema operativo. Ancora sull’uscio di casa, risposi che gli avrei rubato pochi minuti, solo per mostrargli il contenuto di un sacchetto che avevo in tasca. Estrassi la pietra: Sai dirmi di che materiale è fatta?
La guardò per alcuni secondi, poi mi invitò a entrare. Mi fece accomodare sul divano.
– Dove l’hai trovata – mi chiese mentre faceva roteare la pallina sul palmo della mano, aperto a pochi centimetri dal viso.
– Nel bagno… ecco io… – risposi con malcelato imbarazzo – beh vedi… io… qua-quando…
Mi scrutò con aria perplessa e severa come ad invitarmi a vincere il mio balbettio.
Cosa avrei dovuto dire? Cago pietre? Sì, sai com’è: ho assunto un farmaco sperimentale per la stipsi e mi ha fatto defecare quella pietra… Ma mica solo quella, anche un’altra decina…
– L’ho trovata in bagno, credo l’abbiano lasciata i vecchi proprietari di casa – dissi con voce stentorea per dare alla mia menzogna un tono di veridicità. In effetti, era banale, ma fu l’unica scusa che mi fosse venuta in mente in quel momento, in considerazione anche della menzione che avevo fatto riguardo al bagno.
Cesare mugugnò qualcosa tra sé e sé, stringendo la pallina tra l’indice e il pollice.
– Quindi – esordì lui dopo una lunga e accurata osservazione – hai cambiato casa e nel bagno hai trovato questa roba?
– Esatto! – assentii, nella speranza che fosse l’ultima domanda.
– E dove esattamente? – chiese ancora.
– Per terra, dietro al lavandino.
Lui annuì silenzioso, poi riprese la parola.
– E di preciso… Di cosa si occupano i vecchi inquilini?
– Non saprei – risposi con fermezza. – Ho preso casa tramite l’agenzia.
– Se l’hai trovata dietro il lavandino significa che l’hanno persa. Con tutta probabilità sarà caduta per sbaglio e rotolata in un punto non visibile. Perché una pietra come questa… – disse scuotendo la testa – difficilmente si abbandona. Vedi – annunciò fissando la pallina che faceva oscillare sul palmo della mano – ti hanno fatto un gran bel regalo i vecchi inquilini. Questo è oro!
Ah, mi limitai ad esclamare poi rimasi muto, come inebetito.
– Un orafo potrebbe fare una stima della pietra e valutarne anche la qualità del materiale. È strano –aggiunse poi – sembra una pepita grezza, di quelle che si trovano nelle vene aurifere. Solo che… non ne avevo mai vista una – aggiunse scuotendo il capo – sarebbe interessante sapere come ne sono entrati in possesso i vecchi proprietari.
– Già – replicai io, fingendo di condividere la curiosità. Poi risposi evasivo alle altre sue domande, lo ringraziai e uscii di casa incredulo.

Mi recai di corsa in gioielleria. Ce n’era una sotto casa. Per anni c’ero passato dinanzi senza mai averci messo piede. Dietro al bancone mi accolse una donna sulla cinquantina, con dei modi sicuri, cordiali e freddi. Alla vista della pepita d’oro, rimase sorpresa poi chiamò il collega. Era un uomo con la barba bianca, tediato e vestito in maniera sciatta. Capii solo dopo che erano marito e moglie. L’uomo guardò la pallina, prima avvicinandola al viso, poi analizzandola con un grosso monocolo. La pesò e la riguardò ancora girandola di continuo tra le mani.
– È oro grezzo – esordì l’uomo – nove grammi di oro grezzo… come ne è venuto in possesso – chiese subito dopo.
Mi venne in mente l’immagine di me stesso in bagno, seduto sul water a defecare pepite d’oro di nove grammi.
– Mio nonno – risposi senza esitazione – era minatore e ha lasciato a me e agli altri nipoti la sua eredità.
L’uomo e la donna si scambiarono una breve occhiata.
– Vuole venderla? – chiese immediatamente dopo l’uomo.
Uscii dall’oreficeria ancora più incredulo di prima. Avevo un piccolo malloppo in tasca e non avevo fatto altro che vendere una pietra. Non sapevo se fossi maggiormente sorpreso per aver defecato oro o per aver venduto le mie feci a peso d’oro. Di fatto, tornato a casa, vagai sbigottito per ore, passando da una stanza all’altra, contando quei soldi piovuti dal cielo e pensando a quanto fosse assurda la mia vicenda.

Dopo diverse ore, mi ripresi dallo stupore. Avevo, a quel punto, una lunga serie di dubbi da sciogliere. Prima di tutto: quelle pepite, prodotti aurei del mio intestino, sarebbero fuoriusciti anche il giorno dopo? C’era una relazione tra il farmaco della sperimentazione e le feci auree? Le avrei prodotte fino a quando l’effetto del farmaco non fosse svanito nel mio corpo? Inoltre: avevo fissato un appuntamento con i medici che avevano somministrato la sperimentazione. Come avrei dovuto comportarmi?
Ebbene: decisi, innanzi tutto, di non rivelare il mio segreto. Sarebbe stato controproducente, ne ero certo! Tuttavia, mi sottoposi alla visita e portai con me il campione di feci che mi era stato richiesto. Non mio, ovvio. Le raccolsi nell’area cani dei giardini di Via Belisario. Appartenevano all’alano del vicino di casa, un cane maculato, dalle dimensioni equine e un animo docile e mansueto che, come si può immaginare dalla stazza, era un gran divoratore di carne. Durante la visita i medici mi confermarono il mio ottimo stato di salute. Mi consigliarono solo di evitare tutta quella carne nella mia dieta e di aggiungere al mio regime alimentare più frutta e verdura. Dissi che l’avrei fatto e andai via pensando a come ricompensare il favore al grosso alano.

Per tutte le altre domande, invece, non dovevo far altro che attendere, andare in bagno nei giorni successivi, e vedere cosa sarebbe accaduto.

È accaduto che questo evento ingiustificabile, questa incomprensibile alterazione del mio processo digestivo – vero e proprio miracolo lassativo – ha modificato la mia vita in maniera definitiva. Ogni mattina, le pepite di oro riempiono il mio water come doni arcani e salvifici ed io, tramutato in una versione antropomorfa dell’anatra dalle uova d’oro, una specie di Re Mida dall’aureo apparato digerente ma privo dell’inconveniente funesto del tocco, ho riorganizzato la mia vita al fine di ottenere il massimo dal mio dono.
Prima di tutto, ho inviato un piccolo regalo al padrone dell’alano: in forma anonima, un biglietto con su scritto: grazie, accompagnato da alcune banconote, è stato recapitato nella sua cassetta delle lettere. Poi ho modificato il water di casa: un semplice accorgimento mi permette di trattenere con una retina innestata nel punto giusto le pepite. Con un sistema molto sagace riesco poi ad agganciare la retina ad un’asta con la quale raccolgo le pepite che poi lavo con accuratezza. Ogni mattina seleziono le più grandi e le porto in gioielleria. Per non destare alcun sospetto, ogni giorno mi reco in una diversa. Racconto sempre la stessa storia del nonno che, a volte diventa uno zio o addirittura un prozio minatore e aggiungo al racconto sempre nuovi dettagli che lo rendono più attendibile e coinvolgente. Ogni giorno me ne esco con un cospicuo gruzzolo e le lodi, consuete, riguardo la purezza impareggiabile del materiale. Raccolgo poi le altre pepite, quelle che non vendo. Dopo averle datate e pesate con cura, le ripongo in un raccoglitore e le conservo. Il mio lavoro, ora, è questo: non faccio altro che defecare pepite d’oro, venderne una o due al dì e conservare le altre. Naturalmente, ho abbandonato la mia vecchia professione e anche l’attività di cavia. Avevo pensato anche di acquistare strumenti che mi consentissero di fondere l’oro per poi solidificarlo in piccoli lingotti. Ma tali strumenti per uso domestico non esistono e poi, riesco a giustificare con facilità il possesso di piccole pepite. Per i lingotti dovrei inventarmi altre storie e ciò di cui non ho voglia, è destare sospetti. Sta di fatto, che ora ho denaro in abbondanza, molto più di quello che serve per vivere. Mantenendo una contabilità costante delle vendite, ho capito che se questo dono dovesse accompagnarmi in futuro, mi basterebbero pochi anni per mettere da parte un cospicuo patrimonio. In altre parole: il mio intestino mi ha garantito una rendita invidiabile.
Ora… non starò a raccontare come ho riorganizzato la mia vita. Vorrei solo ritornare alla questione del denaro a cui avevo prima accennato. Per quanto mi riguarda, tutte quelle riflessioni rimangono valide. E proprio a partire dal valore di quelle considerazioni, che solo ora – da uomo affrancato dalla necessità e dal bisogno – ho compreso che il denaro, se è poco – rende dipendenti, asserviti alle sue funzioni, alla stregua di moderni schiavi nei cui petti mortali dimora una cupidigia miserabile ed inestinguibile.
Al contrario, se è tanto, il denaro consente di raggiungere innumerevoli scopi, di liberare dalle fatiche, di decidere del proprio tempo, di scegliere ogni aspetto dell’esistenza in completa autonomia, senza condizionamenti, senza imposizioni. Il denaro, con il suo riconoscimento universale, ora, è il fulcro della mia libertà, latore di privilegi che prima riuscivo solo ad immaginare. Il denaro, come un passepartout delle relazioni, mi ha elevato al di sopra della competizione con il prossimo e, da oggetto di brama, si è tramutato in un vero e proprio potere sociale. Se, come vuole l’adagio latino, la “pecunia” è la regina del mondo, lo scopo, la risposta a tutto – io che dispongo di denaro, sono ora, nel mio piccolo – un sovrano.

Illustrazione di Ashley Mckenzie

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