Breviario di tempi ignobili | Una recensione su “Il Giorno è Indegno” di _t_w_i_g_

“La mia macchina dei desideri non è sincronizzata con la macchina del lavoro, non è sincronizzata con la macchina dei biglietti dell’autobus, non è sincronizzata con la macchina sociale del giusto e dell’illegale” così recita uno dei passaggi più famosi di Boccalone, di Enrico Palandri, che nel ’79 scriveva questo piccolo capolavoro che dava voce alla generazione dei giovani del ’77, pieni di tensioni libertarie, studi (post) marxisti e con la consapevolezza che il mondo che avevano costruito per loro gli stava troppo stretto.

Nella foto, T_w_i_g

Come ho avuto modo di scrivere più e più volte, la nostra generazione, quella di coloro cresciuti a cavallo dei due millenni, non ha ancora trovato il suo libro generazionale: non un Holden, non un Werther, neanche un Bazarov.
Sballottati fra miseria e nobiltà, fra passioni politiche e riflussi che si succedevano anno dopo anno alla stessa velocità con cui la tecnoscienza avanzava, siamo rimasti dei giovani vecchi senza voce: troppo adolescenziali per raccontare il passato dietro di noi, troppo vecchi per sentirci parte di qualcosa.
Eppure negli ultimi anni un mosaico di voci individuali hanno provato a raccontare la nostra storia collettiva, e ho provato spesso, su queste “pagine”, a tracciare un filo fra le varie esperienze, dal ritorno alla cittadina di provincia natìa di Grilli all’arrivo in città di Diacono.


Uno dei tasselli di questo mosaico è _t_w_i_g_ (da ora TWIG), acronimo di Tobia Wilson Iacconi Gabbriellini, classe 1984 e bolognese d’adozione. Il suo romanzo d’esordio, Nitrito, era uscito per “Fulmicotone”, collana di Agenzia X dedicata al furore della gioventù, e che in poco più di un anno di vita è riuscita a pubblicare libri altrimenti “impubblicabili” per la loro refrattarietà alle logiche commerciali? come Natura Corta, buona raccolta di racconti a firma Diego Leandro Genna, e Mastica’zine, ero una fanzine, che è letteralmente una fanzine sull’eroina tramutata in libro, una cosa che magari non molti se ne sono accorti ma che è letteralmente un pugno nel ventre molle dell’editoria.
E Nitrito, appunto, che apriva questa collana e di cui ho parlato alla sua uscita, era un lungo monologo, in forma di lettera, in cui venivano scaraventate in faccia al lettore tutte le passioni, le abiezioni, le delusioni e lo spaesamento dell’autore, in una forma che pareva Thomas Bernhard sotto speed.
Una bella sorpresa, malgrado il libro soffrisse di alcune cadute ingenue e retoriche, che infatti è diventato un piccolo caso editoriale ricevendo un riscontro di pubblico e critica altamente positivo.
Come scrissi all’epoca – e questo momento autoreferenziale mi va concesso perché sono stato il primo ad averlo recensito: “Forse la generazione dei trenta/quarantenni sta incominciando a sentire la necessità di trovare una voce collettiva che ruggisca (anzi, nitrisca) i propri disagi.”

Poco più di un anno dopo, TWIG ritorna con un nuovo libro, in uscita sempre per “Fulmicotone”, un’altra prova del coraggio – o del sadomasochismo (no kinkshaming) – di questi ragazzi e ragazze che pare vogliano ribaltare tutte le norme editoriali.
L’attesa era tanta, anche perché, come diceva Caparezza – un artista che mio malgrado la generazione millennial ha conosciuto molto bene – “Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un’artista.” Questo libro non solo non ha deluso le aspettative, ma è un notevolissimo passo avanti rispetto all’esordio.

Dismessa la forma pseudo-romanzesca, il libro è una raccolta di poesie, pensieri, racconti brevi, senza un’apparente soluzione di continuità, ma che in realtà vanno a comporre il mondo interiore proteso verso l’esterno dell’autore.
Un libro grind-core, potremmo dire, poiché le sequenze rappresentate da TWIG sono brevi e violentissime nel loro mal de vivre e allo stesso tempo dolcemente “attaccate alla vita”, poiché l’autore,scrive nel libro: a volte usa la dolcezza per riempire i vuoti di senso”.
La concisione aiuta TWIG, che firma momenti di amarezza divertita come “Appunti di grazia e bulimia postcoloniale”, che è un riuscitissimo vademecum su come “divorare sé stessi senza dimenticare la felicità”, un po’ come trascinare Celine in un ristorante di pesce, per poi passare alla poesia senza titolo che inizia con il titolo del libro: “Ma il giorno è indegno e il giardino è logoro, l’ora è tarda e il vino amaro” carica di retaggi del cosiddetto “maledettismo” francese.
Sì, perché non si direbbe fra i turbini di sborra e ketamina, ma c’è tanto Rimbaud in questo libro, lo stesso rancore sordo e le stesse visioni cupe sotto sostanze stupefacenti, che ha sostituito il Beckett e il Bernhard del romanzo d’esordio.

Ha perfettamente senso, tutto ciò; la generazione dei maudits era a cavallo fra l’epoca della Restaurazione e l’avvento del socialismo internazionale, sballottati fra l’imperialismo di Napoleone III e il sorgere di una Repubblica poliziesca e conservatrice che affogava nel sangue i comunardi.
E noi, a cavallo fra il secolo delle cruente passioni e quello del trionfo della merce, sballottati fra l’imperialismo delle potenze internazionali e il sorgere di una Repubblica poliziesca e conservatrice che affoga nel mare i migranti.
Entrambi, noi e i maudits, personaggi secondari di una sattelzeit (epoca-cerniera), a buttarci su droga, sesso e politica, senza capire come mai sappiamo più dei nostri genitori e più dei nostri figli eppure non riusciamo ad avere un’identità.
Un libro quindi che riesce a essere ancora più generazionale del precedente, e che sembra essere stato scritto al ritmo della cassa dritta di un set tekno di un free-party in un capannone, mentre l’isteria della speed e la sensazione di amore ovattato e luccicante dell’emmedi fanno a schiaffi per avere il predominio sul tuo sistema nervoso.
Anche per noi la macchina dei desideri non è sincronizzata con la macchina del lavoro ma promettiamo che , parafrasando TWIG, “non vivremo né moriremo per voi”, e non perché siamo tossici, bamboccioni, pigri, “sessualmente confusi”, ma solo perché siete indegni come indegno è il giorno.

TWIG, Il giorno è indegno
Agenzia X, 2023
128 pagine, brossura


Princesa | O dell’autorialità de-genere

C’è una donna trans e migrante in carcere, racconta la sua storia. C’è un pastore sardo all’ergastolo per rapina, che la sta ad ascoltare. C’è un militante comunista, anche lui in carcere, che la trascrive. Infine, c’è un famoso cantautore genovese che questa storia la canta, ed è da lui che partiremo per raccontare la storia di una storia di una storia.

Nel 1996 Fabrizio De André dà alle stampe Anime Salve, il suo tredicesimo album scritto a quattro mani con Ivano Fossati; è un disco, questo, che ha come trait d’union fra le canzoni la condizione di solitudine di tutti quei soggetti marginalizzati dalla società: lo stesso titolo dell’album deriva dall’etimologia delle parole “Anime” e “Salve”, che significano letteralmente “spiriti solitari”. L’intero disco può essere considerato un “elogio della solitudine”, che permette di essere liberi e non condizionati dalla società, come spiegato dallo stesso De André durante un concerto.

Copertina di Anime Salve

La prima canzone del disco, Princesa, si apre con queste strofe: “Sono la pecora sono la vacca, che agli animali si vuol giocare, sono la femmina camicia aperta, piccole tette da succhiare”: è la storia di una trans che, dal Brasile all’Italia, “va a correggere la fortuna”, fra amori in vendita e operazioni chirurgiche.
La canzone è arcinota, eppure poco si sa che ha origine da una storia vera.

Princesa di Fabrizio De André


Fernanda Farias de Albuquerque

Fernanda Farias de Albuquerque, nota anche con il nome d’arte Princesa, nasce il 22 maggio 1963 in Brasile. Nata uomo, fin da bambina si sente altro dal suo genere biologico, e subisce fin da subito abusi, povertà e discriminazioni.
Si trasferisce dalla campagna alla grande città, San Paolo, dove comincia a prostituirsi, e infine nel 1982 riesce finalmente a operarsi. Ma la polizia brasiliana comincia una campagna di retate contro la prostituzione delle trans, campagna che comprende violenze e omicidi (“Puliamo San Paolo, uccidiamo una trans a notte”, si trova scritto sui muri).
Fernanda è costretta a fuggire verso il vecchio continente, e arriva a Milano nel 1988, dove ricomincia a prostituirsi in via Melchiorre Gioia, dove solo fino a pochi anni fa – prima della costruzione del nuovo Palazzo della Regione Lombardia – le notti erano popolate da queste donne e dal via vai dei loro clienti.
Scopre i vizi degli uomini italiani e, con essi, anche l’eroina, da cui diventa dipendente.


Nel carcere di Rebibbia, Fernanda scopre di essere sieropositiva, ma scopre anche una persona che vuole ascoltare la sua storia: Giovanni Tamponi, un pastore sardo che nel ’79 aveva cercato, come lei, di correggere la fortuna passando dalla campagna alla città.

Da Milano va a Roma, sempre per fuggire dalle retate della polizia istigata dagli “onesti cittadini”, e sempre per cercare l’amore. Qui, all’EUR, accoltella una mezzana e viene arrestata.
Nel carcere di Rebibbia scopre di essere sieropositiva, ma scopre anche una persona che vuole ascoltare la sua storia: Giovanni Tamponi, un pastore sardo che nel ’79 aveva cercato, come Fernanda, di correggere la fortuna passando dalla campagna alla città; per lei il mezzo era stato il suo corpo, per Giovanni una pistola, e così compie una rapina in banca finita nel sangue. Viene condannato all’ergastolo ma, come lavorante, può esplorare tutte le sezioni del carcere ed è qua che comincia la sua amicizia con la brasiliana.

E, mentre le conversazioni continuano, irrompe nello scenario qualcos’altro, qualcun altro: “La scena quella dell’arrivo nel reparto G8 di un gruppo di brigatisti in piena crisi d’identità. La lotta armata era finita, le antiche certezze che li avevano tenuti insieme sgretolate 1. Venivano da lontano, da migliaia di giornate sempre uguali, assuefatti ai segni di un piccolo universo esclusivamente maschile. Tra loro c’ero anch’io. L’incontro con i trans in principio ci disorientò. Profumi di donna arrivarono ad olfatti disabituati; gonne, calze e reggiseni stesi alle finestre spezzarono le continuità monotone del precedente panorama carcerario.” Così racconta Maurizio Jannelli, nell’introduzione a “Princesa”, del suo arrivo a Rebibbia.

Copertina del libro Princesa (Sensibili alle foglie, 1994), di Fernanda Farias De Albuquerque e Maurizio Jannelli (particolare)


Maurizio, alla metà degli anni ‘70, era entrato nella colonna romana delle Brigate Rosse, la “28 marzo”, e aveva partecipato a una serie di azioni fino al 1980, quando era stato arrestato dopo un conflitto a fuoco; torturato, come tanti altri militanti comunisti, viene poi condannato a due ergastoli per non essersi avvalso né del pentitismo né della dissociazione, anche se in galera è uno dei fautori, insieme a Curcio e a Moretti, della chiusura delle Brigate Rosse.
Nelle carceri, fra giorni che non passano mai, Maurizio decide di mettere in piedi un progetto di scrittura per detenuti e, quando viene spostato a Rebibbia, Tamponi gli racconta di Fernanda e della sua storia.
Comincia un dialogo a tre fatto di biglietti passati di cella in cella, “pizzini” che narrano la vita romantica e violenta di Fernanda, che si esprime in un italiano ibridato con il portoghese e alcuni influssi gergali dell’amico Tamponi.


Per comunicare con Fernanda partecipai e contribuii al farsi della ‘nuova lingua’. Alla variazione, scritta e orale, che risultò dalla chimica delle nostre lingue materne. Il portoghese, l’italiano e il sardo. Di quest’ultimo, negli scritti originali di Fernanda, ci sono tracce deliziose che rimandano al suo maestro.”

Maurizio Iannelli


Su consiglio di colui che fu il fondatore delle Brigate Rosse, Renato Curcio, e che dal carcere stava allora dando vita al progetto editoriale “Sensibili alle foglie”, questa storia diventa un libro: Princesa, uscito nel 1994 e clamoroso esempio di letteratura della migrazione.

Il libro narra le gesta, dal Brasile all’arrivo in carcere, di Fernanda – che è citata come autrice – ma la scrittura appare essere pienamente di Jannelli, infarcita di quei barocchismi linguistici propri di una certa narrativa ex brigatista (si veda anche lo splendido Armi e Bagagli di Enrico Fenzi, ex militante della Colonna genovese delle BR).
Questa co-autorialità, comune a tanta letteratura migrante, risulta controversa: la voce italiana si appropria di quella straniera e la sovrascrive, la sovradetermina.

Così, ad esempio, scrive la critica e poeta Marzia Samini in una sua recensione di Princesa: “In questa categoria letteraria sembra che i residui del vecchio colonialismo fascista si risveglino con una certa dose di convinzione, portando l’ascoltatore nativo ad appropriarsi della storia del migrante, approfittando della lingua che, chiaramente, il nuovo arrivato non è in grado di parlare. Perciò quello che sembra essere un aiuto si trasforma fatalmente in un sopruso, l’ennesimo. Le storie vengono rubate e vendute sul mercato grazie alla garanzia di veridicità.
Questa critica è verosimile e oggi, che le comunità marginalizzate hanno dimostrato di non aver bisogno della stampella dei privilegiati, i limiti di certa letteratura vengono prepotentemente alla scoperta.

Però viene scordato che la storia di Fernanda è una storia ontologicamente polifonica e di una mutazione; polifonica perché nella prima parte del libro Fernandinho, la parte biologica maschile, e Fernanda, la volontà di divenir femminile, dialogano fra loro, si contrappongono.

Fermo sul rosso palpita ad ogni azzardo nel peccato, segretamente stringo e dilato il mio piacere. Il culo. Fernando, sono spettatore di me stessa. Fernanda mi sorprende, inaspettata, liberata. Mossette, mossettine. Abita il mio corpo, inghiotte la mia coda, la biscia. Eccomi qui, maschio ef emmina con un José-con-me e la voglia che ci riempie mentre viaggiamo un lungomare sconosciuto che allontana la città. Ora lo so, basterà un soffio e lui verrà giù, castello di carte al primo sfioramento.
– Oh, José, se potessi rinascere femmina per un uomo.”

Fernanda Farias De Albuquerque

È la norma, la sessualizzazione come maschio imposta dal solo dato biologico e culturale, che combatte con la propria interiorità, che dialoga, che giunge a patti, e che infine scompare nella transizione.
Ecco che la storia di Fernanda trans, appunto, dalla campagna alla città, da una corporeità maschile a una femminile, da San Paolo in Brasile a Milano e poi a Roma, E, infine, dalla libertà formale alla galera.
Nella polifonia del racconto di questo viaggio diventa quindi profondamente simbolico che anche i connotati dell’ autorialità diventino mutevoli e polifonici.
La storia di Fernanda, poi, viene trascritta e, quindi, corrotta, da un’altra marginalità: Maurizio non è un giornalista in cerca di fama, ma un ergastolano che subisce la morte civile che vivono i vinti della Storia, ed è come se nella solitudine di Fernanda volesse raccontare anche la sua.
I surrealisti avevano come motto “Cambiare la vita”, diceva Rimbaud; “Trasformare il mondo”, diceva Marx: Fernanda fa la prima cosa, Maurizio tenta di fare la seconda, e ad entrambi la vita e il mondo risponde con violenza e galera ma, insieme, danno vita alla testimonianza di questo tentativo.
Era quindi scontato che, in questi passaggi e passaggi di voci che si intersecano e mutano, infine anche un cantautore prendesse in mano questa storia e la cantasse.
E, come se fosse la storia stessa a controllare gli autori e non il contrario come logica vorrebbe, anche nel brano di De Andrè assistiamo a una trasformazione: il coro finale, in portoghese, che è un lungo elenco di cose e fatti della vita di Fernanda e, presumibilmente, di tante ragazze di strada, comincia con voci maschili e poi, nel suo fluire, comicia a mutare, a diventare sempre più femminile prima di esplodere in un grido liberatorio che fa a meno di ogni giudizio e di ogni morale: Viver!

Ma essere parte dei “dannati della terra” pare essere una vera e propria maledizione insopprimibile: Fernanda Farias de Albuquerque esce di galera nel ’96, comincia a lavorare per “Sensibili alle Foglie” ma ricade nella dipendenza dell’eroina e ritorna sulle strade. Per un po’ transita per la comunità di Don Gallo, poi viene sbattuta fuori dall’Italia da una polizia che, da San Paolo a Genova, risponde solo con l’odio alla povertà. Torna in Italia agli albori del nuovo millennio, e muore a Jesi il 13 maggio 2000.
Viene dichiarato “suicidio”, caso chiuso, ella dimenticata. Forse.

Intervista a Fernanda Farias De Albuquerque e Maurizio Jannelli – Via Genova Quotidiana

Nel 2009 viene fondata a Genova l’Associazione Princesa, che si occupa dei diritti delle persone trans, e nel 2014 viene dato luce al progetto princesa20, un sito che raccoglie il libro nella sua versione integrale compresa degli appunti originari di Fernanda, di letture critiche e di video documentari.

“Senza sforzo, nelle braccia del demonio, in Europa, ci si arriva a bassa voce, silenziosamente. Qui da voi, non si muore fragorosamente. Sparati o di coltello, tra urla e sforbiciate. Qui si sparisce zitti zitti in sottovoce. Silenziosamente. Sole e disperate. Di aids e di eroina. Oppure dentro una cella, impiccate a un lavandino. Come Celma, che vorrei ricordare. Dormiva nella cella a fianco, dentro quest’altro inferno dove ora vivo e che ho deciso di non raccontare”

Fernanda Farias De Albuquerque

E così questa storia sbagliata lascia le sue tracce su disco, su carta, sul web e nelle persone che vivono la comune dannazione di Fernanda: ogni storia di emarginazione è, in un domani più giusto, una storia di libertà.



Immagini dal web

La prima cosa che impari è che devi sempre aspettare | Su “Cesco e il grande tossico” di Luca Pakarov

“I got tracks on my arms and tracks on my face
There’s tracks on the walls all over the place”
– Johnny Thunders & The Heartbreakers

Era strano per noi, ragazzi di città, incontrare i nostri coetanei di provincia, soprattutto durante gli anni ’00, in cui pensavamo che quell’ormai piccolo mondo antico globalizzato non potesse creare grosse differenze fra un giovane milanese e uno di, chessò, Busto Garolfo.
Eppure, ogni volta che li incrociavamo sui treni, alle serate, nelle piazze del sabato, ci rendevamo conto che c’era un netto divario fra noi e loro: la loro violenza, il loro malessere, il fatto che – per quanto noi avessimo abusato in atrocità – loro erano sempre un passo avanti a noi.
Non era del resto un caso che proprio nella provincia fermentassero le più svariate tensioni artistiche e sociali, dai più famosi gruppi pop punk italiani ai club più assaltati dalle masse (come non ricordare le Rotonde di Garlasco nel pavese, o il Number One, patria dei gabber, nel bresciano).
Questa pulsione vitale, molto spesso pulsione di morte, contribuirà a far nascere una letteratura a sé nella storia italiana, quella della provincia violenta. Memore più di Faulkner che di Verga, questo macro-genere spazia da commedie noir picaresche: Ti prendo e ti porto via di Ammaniti, ma anche Come Dio comanda, a meta-horror quali Crocevia di punti morti, di Matteo Grilli.
Una delle più interessanti uscite degli ultimi tempi è Cesco e il grande tossico, di Luca Pakarov, al suo esordio narrativo per Fandango Libri.
Cesco e il grande tossico ha un incipit che già ci darà il segno di come sarà tutto il libro: il giovane tossicodipendente Cesco esce dall’ospedale di un paese della provincia di Macerata con il naso distrutto, spaccato dal GT, lo spacciatore detto il Grande Tossico, una “madre superiora” dell’eroina, e torna a casa dei suoi.
Da un interno all’altro, comincia così il viaggio statico di Cesco verso una liberazione dall’eroina mentre tutto intorno il piccolo mondo della provincia lo soffoca e il grande mondo della Storia va avanti: il g8 di Genova, il fiorire di mostruosi centri commerciali, il mondo del lavoro che cambia.
Ad accompagnare Cesco in questo cammino una serie di personaggi picareschi, dalle figure istituzionalizzate di recupero dalla tossicodipendenza a Garbo, tossico funzionale che attacca sui muri i necrologi con grande gaudio degli anziani.
Ma la storia, dopotutto, non è il punto focale del libro, che punta molto invece sulle sensazioni: la sensazione di stare in una prigione di cose, di oggetti, di ossessioni, mentre appunto il mondo sembra andare avanti lasciando indietro i ragazzi di provincia.
Dal libro traspare la tesi che sia la provincia stessa a produrre la tossicodipendenza, poiché la felicità non è ma un’ipotesi praticabile e tutti i personaggi vivono in perenne attesa.
Anzi, c’è forse la strofa di una canzone dei Massimo Volume che più di ogni altra cosa descrive i personaggi del libro:

Il mare ingoia ciò che cade
Le navi, i ponti, le frontiere
Il senso ambiguo del dovere
Seduti qui a contemplare
Le zone d’ombra della cena
La vita vinta dall’attesa”

Il libro si snoda così fra momenti divertenti e indicibile cupezza ricordando a tratti libri come Trainspotting o Colla di Irvine Welsh, con digressioni ciniche e finanche crudeli che sembrano prese da un Morte a Credito di Céline, eppure più di ogni altra si erge una figura forse imprescindibile per l’autore: Andrea Pazienza, le cui vignette vengono citate qua e là e, non a caso, anche lui marchigiano.

Dagli anni ’00 in cui si snoda la trama è passata tanta acqua sotto i ponti, eppure questo libro racconta ancora l’oggi: la provincia continua a produrre rabbia, il mondo continua a produrre infelicità, fra la roba e la robba la differenza è assolutamente labile, in quanto entrambe nutrono eguale alienazione.


Oggi li capisco meglio, i ragazzi di provincia, e la loro voglia di fare del male a se’ e agli altri, ma il libro di Pakarov è un documento prezioso sia a livello formale che contenutistico.
Mi auguro che questi autori e queste autrici enrages, che vengono dal buco del culo del mondo, si moltiplichino e sommergano il troppo spesso asfittico panorama letterario italiano.

Luca Gringeri

Luca Pakarov, Cesco e il grande tossico
fandango libri, 2022
267 pagine, edizione con alette interne

La Milano Emo di Holly Heuser

“We’re just bored teenagers
Looking for love
Or should I say emotional rages?”
– The Adverts, Bored Teenager

Come si racconta una città come Milano? O meglio, come si racconta l’esagerazione di luci, colori, vetrine, nevrosi che percorrono la “città più internazionale d’Italia”? Abbagliati dalle luci, confusi dalle sue contraddizioni, sembra difficile riuscire a toccare i suoi punti oscuri, e quel senso di isolamento che quasi chiunque abbia abitato qui ha provato.
A marzo è uscito il primo graphic novel di Agenzia X, Milano Emotiva di Holly Heuser, e scorrendo le sue pagine abbiamo scoperto un modo tanto intimo quanto universale di raccontare questa città. Ma facciamo un salto indietro.

WE DON’T GIVE A SHIT ABOUT TOMORROW

Per un punk adolescente la stazione Garibaldi di Milano era uno svincolo importantissimo: lì, dopo aver incontrato i tuoi consimili del Varesotto o del comasco, prendevi la metropolitana verde per arrivare in centro e dirigerti verso le Colonne di S. Lorenzo. Oppure andavi nel quartiere Isola, dove il centro sociale Pergola inondava le strade con drum n bass e tekno tribe.
Garibaldi per me, che venivo dalla periferia nord, era dove le contraddizioni della periferia si scontravano con quelle del centro: il vecchio luna park abbandonato da una parte, con i camper delle famiglie rom a guardia del passato, le luci scintillanti di Corso Como e delle sue discoteche dall’altra.
Mi fermai a dormire in stazione, una sera, di ritorno dal concerto dei Million Of Dead Cops al Boccaccio di Monza, la mattina fui svegliato a calci dalla Polfer.
Un’altra sera incontrai una sex worker di strada che mi baciò, e quel bacio sapeva di solitudine, e mi ritrassi spaventato.
Poi improvvisamente, perché così è la vita, Garibaldi smise di essere un luogo da me battuto.
Ci ripassai solo qualche anno dopo, la zona antistante alla stazione era completamente cambiata: ora si chiamava Piazza Gae Aulenti, ed era un monumentale complesso di grattacieli e negozi.
Mi venne un attacco di panico, il primo di una lunga serie.

Behemot, by HH 🐛

MA VAI, DISTRUGGI!

Se già per me, nato e cresciuto a Milano, la sua trasformazione dagli anni ‘10 in poi è stata traumatica, chissà che effetto può aver fatto a chi la viveva venendo da fuori.
Holly Heuser cresce a Firenze e poi si sposta a Bologna, si fa le ossa con le tag e i graffiti e frequenta la scena rap e punk delle due città.
Poi giunge a Milano e qui comincia il suo viaggio psicogeografico che porterà alla pubblicazione di “Milano Emotiva”.
Il libro è un flusso ininterrotto di immagini e parole in cut-up che raccontano gli anni milanesi dell’autrice, i suoi pensieri, le sue psicosi, e tutto intorno le luci, i grattacieli, le vetrine.

I templi del consumo di Milano, City Life e appunto Gae Aulenti, sono orribilmente deformati, e s’intuisce un certo senso di claustrofobia mentre si viene aggrediti dalle splendide tavole di Holly e dai suoi pensieri.


Questo è certamente un libro su Holly, è anche un libro su Milano, ma è ancora un grande graphic novel sulla gentrificazione.
Il capoluogo lombardo infatti ha vissuto e sta vivendo da una quindicina abbondante d’anni un intenso processo di restyling che, a seguito della ovvia bolla speculativa che si è venuta a creare, ha trasformato ampie aree del centro in una vera e propria vetrina, tenendo sempre più ai margini i soggetti “indecorosi”.
Questo ha creato, alla faccia degli appelli a una presunta “comunità milanese”, un senso di dissociazione dal luogo in cui si vive, completamente bombardato dai loghi che svettano sugli alti grattacieli.
Holly riesce a replicare completamente questa sensazione di spaesamento con dei disegni caotici che fanno sentire il lettore e la lettrice esterni, come se guardassero l’ingresso di un tunnel.
Come collante, figure a un tempo gioconde e mostruose come il “cyberwurm”, un verme di burroughsiana memoria che rappresenta l’intenso intreccio di collegamenti nel sottosuolo della città, forse la più collegata d’Italia.

Cyberwurm, by HH 🐛

A WHOLE NEW WORLD

Quindi, cosa ci dobbiamo aspettare da Milano Emotiva? Un diario? Una deriva psicogeografica? Uno stream of consciousness in forma di graphic novel?
Direi tutto questo e anche molto di più.
Ogni pagina è uno schiaffo in faccia di disegni hyperpop e pensieri, citazioni, urla destrutturate e ricombinate, tanto da far emergere l’influenza di tante fanzine punk che hanno fatto la storia dell’underground, una su tutte TVOR- Teste Vuote Ossa Rotte.
C’è Burroughs, c’è Philip K Dick, c’è la scena punk hardcore milanese e l’emocore, ma soprattutto c’è il viaggio interiore ed esteriore di una persona arrivata nella “smart city” che intrattiene con lei un rapporto di amore e odio.
Probabilmente questo libro potrebbe segnare un punto di svolta nel fare graphic novel in Italia, perché porta il mondo del fumetto underground e delle fanzine in una dimensione meno “sotterranea” senza perderne in qualità del contenuto.
Insomma, parafrasando i Flipper, Holly Heuser ha sofferto per la sua arte, ora tocca a noi. Ne vale la pena.

Luca Gringeri



MILANO EMOTIVA DI HOLLY HEUSER
CC agenzia x 2022
192 pagine, bianco e nero, illustrato