Zattera

Non sappiamo nuotare, perché ci hanno
disegnato delle ali di carta.

Ribadiamo il nostro amore personificandolo
con
una nomenclatura genitale.

Ci apriamo solo a destra.

Riempiamo di drammaturgia i nostri racconti
sulla spesa al discount.

The floating piers.
Camminando sull’acqua per l’acqua con
l’acqua.

Non abbiamo mai indossato una cintura di
polipropilene fucsia.

Parliamo di storia medievale e filologia
romanza, scoppia il vento nella nostra
conversazione, remiamo le parole per
portarle in salvo, per farle tornare di
nuovo realtà.

Quando usi in termine, puoi riutilizzarlo,
una parola è infinito, una molteplicità di
momenti replicabili e non consumati. Una
reiterazione probabile e organizzata di un
individuo che crede di vivere.

Tu l’hai mai vista la cattedrale vegetale di
Giuliano Mauri?

Costruiamo la natura, battezzandola nella
nostra
famiglia, legando a essa un concetto
primitivo di futuro.

Siamo portatori sani di sindrome
dell’abbandono, per noi è sempre il quindici
di agosto, le temperature sono altissime e
l’umidità ci costringe a percepire gli altri
nella non messa a fuoco.

Mangiamo cibo probiotico, usiamo cosmesi
naturali, i nostri pesci affogano in ampolle
di oceano microfiltrato, la Repubblica è un
dominio internet e gli hamburger arrivano
in bici.

Andiamo a vivere a Cerrapungi, a giocare con
i dodici metri di pioggia l’anno.

Rinnoviamo le tessere punti con altre
tessere punti.

Desideriamo cambiare qualcosa del nostro
corpo, ci affidiamo alla chirurgia plastica,
pregando ipotetiche Madonne del botox.

La confusione è un tratto somatico mondiale.

Tratto da: Barbara Giuliani, L’aria Rancida
© Gli Elefanti Edizioni – 2018
Fotografia di Joel Peter Witkin

Energia potenziale

CRONO (Κρόνος) parola di etimologia incertezza, fatta derivare senza sufficienti basi da χρόνος “tempo” o da κόρος “sazietà”.

 Enciclopedia Italiana Treccani

La ragazza si chiama Marta Ugolino, diciotto anni. È scomparsa nella notte dalla festa sulla spiaggia, organizzata coi compagni per festeggiare la fine della scuola. Il ragazzo dice di averla persa di vista intorno all’una, una e mezzo. I sommozzatori continuano le ricerche. Si attendono sviluppi.

head

La macchina del Fauno mi aspetta sotto casa, parcheggiata lungo la curva. La luce del lampione ne proietta l’ombra perfetta sul fondo della strada, come se l’asfalto fosse acqua limpida contro la realtà oscura delle cose.
Salgo e lo Squarta mi fa capire che hanno aspettato parecchio. Il Fauno è alla guida e il Samu seduto dietro, vicino a me. Samu sta per Samurai, lo chiamiamo così perché è campione regionale di Brazilian Jiu Jitsu, disciplina che non ha niente a che fare con i samurai. Molti però non lo sanno, e lo chiamano Samuele anche se il suo vero nome è Roberto, allora tocca a noi raccontare la storia. Il Fauno si chiama Francesco, per un suo zio morto giovane o almeno così so io, che lo conosco da tempo – eravamo compagni di banco – lo Squarta invece si chiama Giorgio. Solo io lo chiamo lo Squarta, ma mi ha fatto promettere di non dire a nessuno il perché e ho mantenuto il segreto con tutti eccetto che con Gloria.
Da casa mia al Tempol sono due minuti di macchina, durante i quali mi insulto con lo Squarta per alcune battute oscene che fa su Gloria al solo scopo di farmi incazzare.
Prendiamo il tavolo fuori. Oltre a noi ci sono il tizio delle slot machine e Andrea, il proprietario. Il tizio delle slot machine sta al bancone e non fa niente. Non prende mai niente, non l’abbiamo mai visto con un bicchiere in mano. A dire la verità non ha nemmeno mai giocato alle slot machine, si limita a osservare chi gioca e col tempo ha imparato a riconoscere i suoni delle macchinette e a riprodurli come un freak da circo.
Lo Squarta gli dà subito qualcosa da guardare: ficca una banconota da venti nello spiccia-soldi e quindi le monete, in sequenza, nella slot machine con le mummie e i faraoni. Dopo poco torna da noi con una banconota da venti in meno.
«Il problema del gioco è quando vinci.» dice.
Andrea gli grida da dietro il bancone: «Dicono tutti così, Giorgino!».
Andrea e lo Squarta sono più o meno amici; lo Squarta è più o meno amico di tutte le persone che ha visto almeno una volta nella vita. Per motivi di politica, dice.
«Vorrei avere la tua vita, Andre!» gli grida lo Squarta di rimando.
Prende il Trivial Pursuit dalla mensola e viene a sedersi. Il Tempol ha una libreria con una trentina di volumi, ma nessuno che li legga. Noi prendiamo sempre e solo il Trivial Pursuit o il Risiko o il mazzo di carte, e ci mettiamo a giocare. Io e lo Squarta contro il Fauno e il Samu. Andrea ci porta le birre. Finito il primo giro, il Fauno alza una mano e Andrea capisce che ci deve portare il prossimo. Fino al secondo ci sto, poi comincio a tirarmi indietro, senza troppa convinzione. Lo Squarta scola l’ultimo sorso di birra, il Samu bestemmia. Poi si alza di scatto e si volta verso l’interno del bar.
«Mi fai un gin tonic?» grida.
«Due!» dice il Fauno.
«E un Long Island» dice lo Squarta.
Io resto in silenzio. Andrea porta i drink su un vassoio della Coca Cola, man mano che li alza i rispettivi proprietari rispondono all’appello e lui glieli mette davanti.

Il Tempol ha una libreria con una trentina di volumi, ma nessuno che li legga. Noi prendiamo sempre e solo il Trivial Pursuit o il Risiko o il mazzo di carte, e ci mettiamo a giocare.

«Tu niente?».
Dico: «Sono a posto». Distoglie lo sguardo.
«Scusalo, è un po’ frocio» dice lo Squarta.
«Sarà per questo che esce con te» risponde Andrea.
Il fatto che abbia sentito il dovere di difendermi mi fa scoppiare la testa.
«Bravo, bravo» fa lo Squarta, mentre assorto guarda la carta che tiene in mano. «Geografia, difficoltà tre. Cazzo, è facilissima: la capitale della Mongolia.»
«Ulan Bator» risponde subito il Samu, e col dito fa segno di passare alla prossima.
Andrea lo guarda con la testa obliqua come un cane. Tiene il vassoio vuoto poggiato lungo il fianco. Rimane a guardarci.
«Ma stasera?» chiede.
«Stasera cosa, Andre?» risponde lo Squarta.
«Non potete andare a fica invece di star qui a giocare? Vi fa schifo?»
«È che oggi è lunedì.» dice il Samu ferito nell’orgoglio.
«E che significa?»
«Veniamo da serate impegnative.»
Lo Squarta guarda Andrea: «Ti vedo in forma stasera» scherza.
«Sono finiti quei tempi.»
«Non finiscono mai per i giocatori come te.»
Pare che Andrea sia cocainomane; pare si possa capire con una certa sicurezza dalle sue pupille. Io, quando le guardo, vedo solo gli occhi di un uomo stanco che non vede l’ora di mettersi a letto.
«Dai, dicci dove possiamo esprimerci al meglio anche stasera.»
Andrea non ci pensa un attimo, come se tenesse la risposta pronta.
«C’è la serata al Ciao Ciao.»
«Quello al lago?» chiede il Fauno.
Andrea annuisce.
«Lì ci vanno le tardone.»
«Ti fanno schifo Samu?» dice lo Squarta. «Ti fa schifo la fica stagionata?»
«Vaffanculo.»
«E pensare che una volta eri un uomo vero, uno con los huevos.»
Andrea guarda le braccia gonfie del Samu, lasciate scoperte dalla canottiera. All’interno del bicipite sinistro campeggia la scritta 𝐀𝐂𝐓𝐀 𝐄𝐒𝐓 𝐅𝐀𝐁𝐔𝐋𝐀, tatuata con le lettere dell’antica Roma. Il Samu mantiene un ghigno per qualche secondo mentre scuote la testa avanti e indietro.
«Lasciamo perdere» continua lo Squarta, «ormai è un uomo finito. E pensare che era un genio. Lo sapevi Andre che il Samu era un genio?»
«Ah sì?»
Il Samu dice: «Più o meno».
«Non raccontarmi stronzate» se la ride Andrea.
«Ti giuro.»
«È vero, è vero» conferma lo Squarta. «Era un genietto della matematica. Dicci quante volte hai vinto le olimpiadi della matematica, genietto.»
«Due.»
«E una volta è arrivato terzo» precisa lo Squarta.
«Cazzo…» dice Andrea con stupore sincero. «E adesso che fai?»
«Lavoro. E mi diverto.»
«Se ti diverti tanto, perché non vuoi andare al Ciao Ciao?»
«Perché è lunedì.»
«E allora?»
«Torno tutti i giorni alle sei.»
«È diventato frocio pure lui.»
«Smettila con queste stronzate.»
«Allora perché non vuoi venire?»
Lo Squarta non ha alcuna voglia di andare, vuole solo insinuare in lui la tentazione, vedere fino a che punto si spingerà e avere una nuova storia da raccontare alle ragazze.
«È lunedì, domani devo lavorare.»
«Ma quale lavorare!»
«Voglio essere a letto alle due.»
«Ci saremo.»
«Che cazzo dici.»
«Due e mezzo!»
Ride, ridiamo tutti. Sappiamo che non è vero.
«È lunedì.»
«Hai rotto il cazzo, Samu.»
«Prendiamoci un’altra birra e andiamo a letto.»
«No, se andiamo al Ciao Ciao e ci andiamo tutti, prendiamo anche un’altra birra, sennò me ne vado adesso.»
«Dobbiamo finire la partita» dico.
«’Fanculo.» Lo Squarta sparge le carte sul tavolo. «Andiamo?»
«Io non vengo» dico.
«Non puoi. Se andiamo, andiamo tutti.»
«Non mi lasciare solo» sussurra il Fauno.
Rimango in silenzio.
«Allora?»
Lo Squarta guarda il Samu.
«Domani devo lavorare.»
«Andrea ti presta un po’ della sua roba, se ti serve la carica.»
Andrea ci guarda e si incammina verso il bancone. Poggia il vassoio. Quando torna siamo tutti fermi a guardare il vuoto e ciascuno pensa al proprio tempo personale.
«Quindi?» dice.
Il Samu resta in silenzio, poi alza un braccio e dice: «Fammi l’ultimo gin tonic, per favore».
«Oh sì!» dice lo Squarta, e si alza per abbracciarlo.
Anch’io mi alzo ma non dico niente.
«Finisco il drink, poi passiamo da casa mia che ho un paio di bottiglie.»
«Questo volevo sentire!» grida lo Squarta.
«Vaffanculo, stammi lontano, domani dovevo lavorare.»
«Dai che stasera ti faccio scopare mia nonna.»
Ridiamo. Il Samu prende il bicchiere col drink e lo tracanna. Lo sbatte vuoto sul tavolo e ci avviamo alla macchina: il Fauno e il Samu prima, io e lo Squarta poco dopo.
«Quel Samuele è un cazzo di pazzo» dice Andrea.
«Si chiama Roberto» dico io. «Lunga storia.»

Abbiamo problemi con il collegamento. Mi sentite adesso? Bene, ci siamo. Come dicevate in studio, i sommozzatori hanno ritrovato un paio di pantaloncini di jeans sul fondale del lago e una canottiera bianca impigliata nei tralicci del molo. Gli amici che erano con la ragazza sembrano confermare che i vestiti appartengano a lei.
La scientifica sta effettuando le analisi del DNA. Intanto si cerca il ragazzo misterioso con cui alcuni dicono si sarebbe allontanata.

head

Ci accostiamo alla saracinesca, il Samu entra ed esce in un attimo, con le bottiglie sottobraccio. Sangiovese del discount.
«Andiamo, prima che mi sentano i miei.»
Mi passa la bottiglia e il cavatappi. Io la stappo, ma rovescio un po’ di vino sui sedili.
Lo Squarta se ne accorge. «Tu non sai proprio stare al mondo.»
«Scusa Fra.»
Il Fauno si gira mentre continua a guidare.
«Si sono macchiati?»
«Forse un po’», ma non vedo nulla di preciso.
«Tranquillo, non importa.»
«A te la fica ti ha proprio ucciso» mi dice lo Squarta.
«Cosa c’entra?»
«Era solo così, per dire.»
Non rispondo.
«Questo però non è l’atteggiamento giusto per affrontare la serata. Vero Samu? Digli qualcosa.»
«Se si va, si va da protagonisti» dice, e mi chiede di passargli la bottiglia aperta. Io gli faccio cenno con la mano di aspettare un attimo. Accosto la bottiglia alle labbra, piego il collo all’indietro. Metto la lingua davanti e non butto giù niente.
Il Samu ne butta giù un bel po’.
«Cazzo, sto diventando vecchio.»
«Sei già sbronzo Samu?» dice lo Squarta.
«Vorrei vedere te, a stomaco vuoto.»
«E perché non hai mangiato?»
«Ho una gara venerdì, devo raggiungere il peso.»
«Quanto ti manca?»
«Due, tre chili. Mi sto lasciando andare.»
«Non farti prendere la sbronza triste.»
Rimaniamo in silenzio finché ne siamo in grado.
«Secondo voi che vino ci vuole con la carne umana?»
«In che senso, Samu?»
«Rosso o bianco?»
«Secondo me rosso» dice il Fauno.
«Dicono che la carne umana sia simile a quella di maiale.»
«Chi è che lo dice?»
«Qualcuno l’ha mangiata, che credete? I cannibali delle Ande per esempio.»
«Che roba è?» chiede il Fauno, ma nessuno sembra sentirlo.
«Io comunque me la mangerei una persona» continua il Samu. «Una ragazza, dopo averci scopato. Pensate che adrenalina. Però deve essere magra e mangiare bene. Non deve bere tutta la merda che beviamo noi.»
«Tu hai una festa nel cervello» dice lo Squarta, e allunga la mano indietro per chiedere la bottiglia.
«Scommetto che lo faresti anche tu, che sei più malato di me. Farci l’amore e poi mangiarla, così è tua per sempre e nessuno te la porta via. Come quel serial killer giapponese, Issei… Sagawa, mi pare. Si è mangiato la donna che amava e adesso è anche a piede libero. Scrive libri, tiene conferenze e fa un sacco di soldi.»
Il Samu prende un altro sorso, interminabile.
«Mangerei di tutto adesso» dice sottovoce, poi passa la bottiglia, che fa un altro giro. Anche il Fauno beve. Prima di arrivare anche la seconda bottiglia è aperta e quasi finita.
«Gira qua» dice il Samu.
«Sicuro?»
«Ci sei mai stato al Ciao Ciao?»
«Tanto tempo fa.»
«Gira qua.»
Accostiamo sullo sterrato. Si vedono le luci del locale.
«Adesso vediamo se hai davvero los huevos
«Mi spieghi per quale motivo parli spagnolo?»
«Lo dicevo sempre quando abitavo in Argentina.»
«Ci sei stato sì e no due settimane.»
«Sucia huevòn
Il Samu scuote la testa. Chiede «Il vino è finito?»
«Quasi.» rispondo.
«Passate.»
Se lo scola tutto. «Comunque se costa troppo non paghiamo.»
«Che intendi per troppo?»
«Più di niente. Non ho da spendere per il lunedì.»
Il Samu si volta verso due cinquantenni con la camicia sbottonata e madida di sudore.
«Ehi, quant’è l’entrata?»
«Dieci» grida uno dei due.
«È una rapina» dice tra sé e sé, ma in modo che tutti possiamo sentire. «Venite con me, scavalchiamo dal retro.»
«Non facciamo stronzate per quattro soldi» dice lo Squarta.
«C’hai portati fin qui e adesso entriamo, ma io non pago. Fai il fenomeno a chiacchiere ma ti tiri sempre indietro. Che ti aspetti da uno che conta le puttane tra quelle che ha scopato?»
«Le puttane si contano, è legittimo.»
«’Fanculo, la serata me la faccio da solo, sono l’unico che si vuole divertire davvero.»

«Io comunque me la mangerei una persona» continua il Samu. «Una ragazza, dopo averci scopato. Pensate che adrenalina. Però deve essere magra e mangiare bene.»

In riva al lago la gente entra ed esce dal locale. Perlopiù uomini pelati in compagnia di ragazze nere e quarantenni con la raucedine per le sigarette. Poco più in là c’è una piccola festa davanti a un bar sulla spiaggia, con il fumo, la musica e una quindicina di ragazzi che avranno al massimo diciotto anni. I ragazzi ballano senza rifletterci su, si percepisce dalla fluidità dei loro movimenti.
Il Samu si avvicina, lasciandoci indietro. Lo vediamo da lontano prendere un nuovo drink e avvicinarsi a una tipa in shorts e canottiera, di cui possiamo distinguere solamente la silhouette magrissima. Le balla vicino e le sussurra qualcosa all’orecchio. In pochi secondi si allontanano insieme, verso la riva buia. Con una mano si legano l’uno all’altra, con l’altra reggono i bicchieri.
Io, lo Squarta e il Fauno vediamo tutto da lontano. Il Samu non ci degna di uno sguardo, non ha bisogno di dimostrarci nulla e già immagina le nostre facce che lo seguono. Ci sediamo su un muretto e il Fauno va a prendere altre birre. Accettiamo. Io e lo Squarta restiamo a guardare il lago; ciascuno perde il proprio ruolo. Quando il Fauno torna, brindiamo senza sapere a cosa.
«Che ore sono?» chiedo.
«Quasi l’una e mezzo» risponde il Fauno.
«Pensate ci metterà molto?»
«Che ti frega? Che hai da fare?» dice lo Squarta.
«Ho sonno.»
«Possibile che tu abbia sempre sonno? Come quella volta che ti sei addormentato in discoteca, ti ricordi Fauno?»
«Io non c’ero.»
«Sì che c’eri. Eravamo in Grecia, o in Croazia.»
«Eravamo a Budapest.»
«Giusto. Che cazzo di alieno.»
«Potevi dire che ero il frocio.»
«L’abbiamo fatto.»
«Cazzo cazzo…»
«Non fare così, dicevo per scherzare. Hai litigato con la ragazza, pucci pucci
«Ho solo sonno, ti capita mai?»
«No. Ho troppe cose da fare.»
«Ah sì? E cosa? L’unica cosa che facciamo è fare tardi.»
«Forse tu.»
Non rispondo.
«Quello non è Riccardo?» dice lo Squarta indicando lontano.
«Impossibile.»
«E perché?»
«Perché Riccardo sta a Bristol. A studiare matematica. Ha vinto una borsa di studio.»
«Ma chi? Il Maniaco?»
«Il Maniaco, sì.»
«Tu lo sapevi?» chiede al Fauno.
«L’avevo sentito.»
Prendo coraggio. «Devo dirvi una cosa.»
«Cosa?»
«Credo che me ne andrò da qui. I miei mi pagano la specializzazione fuori, appena finisco l’università.»
Lo Squarta infossa la testa tra le spalle e non risponde, mentre il Fauno mi dà una pacca sulla coscia e mi sorride con la dolcezza di chi sente di essere vicino alla fine di qualcosa.
In quel momento ci passa davanti un ragazzo con l’orecchino di legno e la testa rasata. «Dove cazzo è?» si chiede a voce alta. È sbronzo o fatto o entrambe le cose. Il suo corpo magro, cresciuto da poco, scompare del tutto in una maglietta larga e grigia.
«Amò!» ansima e getta via saliva dai denti serrati. «Amore!» grida. Poi, più piano: «Dove sei finita, brutta troia?»
Si volta all’improvviso verso di noi. Ci guarda dritti in faccia, senza alcuna paura, nemmeno quella minuscola e naturale che ci rende vulnerabili e normali.
«L’avete vista?»
Balbetto qualcosa, mentre con la coda dell’occhio vedo il Fauno e lo Squarta che fanno finta di niente. Scuoto la testa. Il ragazzo non indaga oltre, si colpisce la faccia con uno schiaffo e tira fuori un urlo animale, poi prosegue con passi decisi, incoscienti, gli occhi sporgenti, guardinghi e miserabili.
«Un bel cazzo di casino» dice lo Squarta quando ormai non può sentirci.
Torniamo a guardare avanti, all’acqua nera e immobile del lago. Se guardiamo avanti è come essere soli ed è più facile confidarci i segreti.
«Cosa stiamo aspettando?» chiedo.
«Il Samu» risponde lo Squarta.
«No, intendevo… Niente.»
«Non cominciare con le filosofie frocesche.»
«Non vi sembra di essere sempre in ritardo?»
«No.»
«Non vi sembra di stare chiusi in una stanza? Coi giorni che passano e le cose che accadono fuori dalla porta, e noi che non vogliamo più uscire?»
«Ma se stiamo sempre in giro.»
Lo Squarta dice così e poi nulla. Mi guarda un momento, come se i suoi occhi volessero ammettere la colpevolezza delle sue parole. Il tempo, fuori da noi, continua a scorrere avanti, mentre dentro di noi torna indietro, a ricordi cui tentiamo di aggrapparci e abbandonarci del tutto. Finché vediamo spuntare la sagoma quadrata del Samu; solo, con la faccia e le mani bagnate.
«Dove l’hai lasciata?» chiede il Fauno.
«Lasciala perdere quella, è una fica matta.»
«Hai riportato qualche punto almeno?»
«Qualcuno.»
«Che hai fatto alla faccia?» chiedo.
«Cosa?»
«Sei tutto sporco di rossetto.»
Il Samu, nascosto nella penombra, si lecca due dita e le strofina furiosamente sulle labbra umide, fino a far sparire la macchia.
«Avete fatto il bagno?»
«Sì. Ma adesso basta.»
«Nudi?»
«Basta ho detto.»
«Okay, okay.»
Alle spalle del Samu, dal retro del locale, vediamo sbucare il ragazzo con l’orecchino e la testa rasata. Incede tra la poca gente rimasta, gettando sguardi a destra e sinistra.
«Torniamo a casa ora» dice il Fauno.
«Sì. Andiamo.»
Lo Squarta si alza e accenna qualche passo verso l’auto. Dal locale proviene musica ricoperta d’ovatta. Il Samu guarda per terra, alza le mani in aria e le muove a tempo, poi si decide a seguirci.

Proprio così… Stamattina, all’alba, un pescatore ha sorpreso il suo cane che giocava con qualcosa nella sabbia; qualcosa che si è rivelato essere un dito umano. Dalle prime analisi pare possa appartenere a un corpo femminile, tra i sedici e vent’anni. Si aspetta il confronto con il DNA trovato sui jeans. Per ora è tutto, a voi studio.

head

Sono passate le quattro. Sotto casa sua, lo Squarta scende dal sedile passeggero e io prendo il suo posto. Afferra lo sportello prima che io possa chiuderlo.
«Quindi te ne vai?»
«Credo di sì. Ma c’è tempo ancora.»
Lascia la presa, e la poca forza con cui ancora tiro a me la portiera è sufficiente a farla chiudere. Lo Squarta si bacia la punta del dito medio e la preme contro il finestrino; guardo il vortice della sua impronta digitale rimasto impresso sul vetro. Svanisce. Lui si volta e sparisce dietro il portone in vetro smerigliato.
«Vi fate ancora un giro?» chiede il Samu con i gomiti appoggiati alle ginocchia e la testa tra le mani.
«No Samu, sono stanco.»
«Giusto, anch’io. Sono… sono stanco. Domattina devo lavorare.»
«È già domattina, temo. Ti porto a casa?»
«Sì. Anzi no, cazzo, accosta, accosta qui!»
Il Fauno ferma subito la macchina in una piazzola coi bidoni dell’immondizia. Il Samu scende, ficca la testa in una pattumiera e ci vomita dentro senza far rumore.
«Cazzo» dice, con la testa ancora infilata lì dentro. La voce sembra venire da lontano, da sottoterra.
«Cazzo» ripete tra un conato e l’altro, e ci sembra stia iniziando a piangere.
«Ma che ti prende?» gli chiede il Fauno. «Può succedere a tutti.»
«Sì Samu, può succedere. Eri anche a stomaco vuoto. Per la gara. No?»
Allora la sua testa riemerge e punta nella direzione opposta alla nostra. La nuca prende a fare su e giù a un ritmo lento, diverso da quello a cui ci aveva abituati.
«Sì» dice. «Lasciatemi qui, torno a casa a piedi.»
Lo guardiamo allontanarsi di nuovo, intrappolato in quel lasso di tempo interminabile in cui nulla è ancora finito né già cominciato.

«Cazzo» ripete tra un conato e l’altro, e ci sembra stia iniziando a piangere.
«Ma che ti prende?» gli chiede il Fauno. «Può succedere a tutti.»
«Sì Samu, può succedere. Eri anche a stomaco vuoto. Per la gara. No?»

Rimaniamo io e il Fauno, uno vicino all’altro, come a scuola.
«Che gli è preso?» mi chiede.
Scuoto la testa.
«Facciamo il giro lungo?»
«Okay.»
«Tra cinque minuti sei a casa.»
«Non c’è problema.».
Le strade sono vuote e finalmente tira un po’ di vento. Abbasso il finestrino e lascio entrare l’aria.
«Così ci passa la stanchezza prima di dormire» dice.
«Tanto, ormai.»
«Domani dovrei studiare.»
«Anch’io.»
«Quanti esami ti mancano?»
«Due, ma non so se ho voglia di darli.»
«E che hai voglia di fare?»
«Aiutare a casa; rifarmi il letto e apparecchiare.»
«A me ne mancano sei.»
Annuisco. «Ti ricordi, Fauno, quando quella di fisica ci ha spiegato l’energia potenziale?»
«No, per niente.»
«È una cosa che mi è sempre rimasta impressa. C’è un bicchiere di vetro appoggiato al bordo di un tavolo, è carico di energia potenziale, vuol dire energia ancora inespressa. Poi qualcuno lo spinge, e il bicchiere cade giù. Man mano che cade, la sua energia potenziale si trasforma in energia cinetica, che è l’energia del movimento. Più il bicchiere si avvicina al pavimento, più le sue potenzialità diminuiscono e aumenta l’energia cinetica. Finché…»
«Finché il bicchiere cade a terra e si frantuma in mille pezzi.»
«Già, esatto.»
«Mi ricordo» fa una smorfia con le labbra «Stiamo cadendo? È questo che intendi?»
«Cadiamo da sempre, solo che adesso ce ne siamo accorti.»
«Accorgersene è una bella fregatura.»
«Sì, dev’essere così.»
Il cielo oltre il cruscotto si fa più chiaro, le luci dei lampioni inquinano sempre meno il buio della notte e viceversa. Penso alle promesse che non ho mantenuto. Penso a poco dopo: quando girerò piano la chiave nella toppa, camminerò lungo il corridoio ed entrerò nella camera dei miei genitori; dirò loro buonanotte senza avere risposta. Niente, nemmeno un rantolo di rimprovero. Solo a pensarci sento addosso la paura del silenzio e so che mai e poi mai riuscirò a dormire. Mi siederò sul divano, illuminato dal notiziario della tv via cavo, e con gli occhi altrove comincerò a ricordare il tempo passato, e quello che siamo rimasti ad aspettare.
«Siamo arrivati.»
«Grazie Fauno, buonanotte.»
«Buonanotte.»
«Fauno, aspetta.»
«Che c’è?»
«Secondo te quanto ci vuole a mangiare una persona?»
Ridacchia. «Dipende. Perché?»
«Una molto magra?»

Illustrazione di John Holcroft

Fuoco alessandrino

Vendetta! Gridano le Furie
e Amleto si lascia addormentare
dalle canzoni di Isotta sposa breve
piantata in Nasso – e mi feci
cultura tra le gambe tue bianche
quand’eri quieto ticchettio
addormentante e barbarico e
senza preavviso; aizzante!
– il tuo fuoco alessandrino
e furibonda e coclea
senza temere appiglio
chiamasti e falciasti
il mio ventre vermiglio
svelando con parole tue inquiete
un balbettio, un incespico
del malaugurato affare che tu
già sporca – andasti a comperare:
eri bella Alessandra
come una cometa
che ti esplode in faccia
come una moneta gettata
in banca all’addiaccia
dell’ultima nottata spenta.
Brutto
quello spaccare senza mazze
senza misure mezze il mio cartone
animato; animale delle selve
oscure millenarie, da cartacce
lasciate di giornale –  lèssero
le cummari in strada:
«Dal mare non sorsero che granchi
avviluppati tutti in una giara»
è stolida – è fissa sugli ormeggi
l’abbacinata spopola contrada
ma quand’ecco succeda mai
che s’alzi più d’un centimetro
in aria la pensata, non ti condanna
bambina, dagli spalti – ma seguita
a inneggiare la risata a farne
augello di debole portata
del vagito condotto a naufragare.

Illustrazione di Martina Pestarino

Il trofeo

Occorre sempre togliere: solo così, ciò che altrimenti
subito scomparirebbe, rimarrà nostro per sempre.
— Gabriele di Fronzo, Il grande animale

Stavo seduto su una panchina al parco a leggere il mio libro settimanale. Vengo qui tutte le domeniche pomeriggio. Ero quasi arrivato a metà frase, quando un anziano signore in completo grigio a scacchi mi afferrò la mano.
«Piacere» disse, prendendo posto. «Guarda un po’» e tirò fuori dalla busta di plastica che aveva con sé la testa di un ratto, nera come la pece. Aveva occhietti rossi come biglie scintillanti, il pelo ad aculei ritto dietro la testa e orecchie scorticate grandi come piattini da caffè. Un paio di persone che facevano jogging lì attorno inorridirono alla vista di quella cosa sconosciuta.
«È così piena di vita!» dissi, a voce alta.
Il signore intervenne: «Dici bene, ragazzo! Questa è un’opera d’arte, imitazione della natura, più vera del vero perché filtrata dalla fantasia dell’artista che valica il reale con la bellezza».
«Ma chi è lei?»
«Mi chiamo Piero Manzoni e sono un tassidermista e un imbalsamatore.»
Mi riferì che la bestia doveva essere consegnata a casa di un cliente. Mi raccontò che da qualche tempo il signor Barrano e signora, sentivano dei rumori provenire dalla cantina e spesso avevano ritrovato dei brandelli di tessuto bianco rosicchiati, che appartenevano all’abito da sposa della signora. Un giorno il signor Barrano, determinato a svelare l’origine di quei rumori, prese una fionda e un bastone, e insieme al suo amico Chio si addentrò in cantina. Appena accesero la luce videro un’ombra dietro una pila di vecchi giornali. I due amici si avvicinarono di soppiatto, e quella macchia nera schizzò dietro un cumulo di scatoloni raggrinziti. Il signor Barrano diede un calcio alla pila di giornali, pensando così di far sbucare la creatura, ma nulla. Poi, il suo amico indicò una punta rosea che pareva un ditale sbucare da un ripiano dello scaffale, tra una conserva di pesche e un vasetto di marmellata di amarene, la preferita della signora Barrano.

Appena accesero la luce videro un’ombra dietro una pila di vecchi giornali. I due amici si avvicinarono di soppiatto, e quella macchia nera schizzò dietro un cumulo di scatoloni raggrinziti.

L’animale, come se avesse sentito il peso dei due uomini sulla punta della coda, scattò su due zampe e con un balzo affondò i suoi gialli incisivi nella carne di Chio, che lanciò un urlo disperato mentre tentava di strapparsi dal petto quella bestia ripugnante. L’urlo lasciò attonito il signor Barrano, ma non scosse minimamente l’essere mostruoso, che continuò a mordere e squittire. In un attimo, il signor Barrano ritornò in sé e afferrò il bastone caduto all’amico. Lo brandì saldamente e provò a colpire quell’ammasso di peli neri, ma le uniche cose che riuscì a centrare furono il polso e le tre dita dell’amico, che si ruppero sul colpo.
Un secondo urlo spaccò l’aria umida della cantina: «Mi hai rotto la mano!», gridò Chio, mentre tentava di liberarsi dalle fauci del mostro, invano. Le mascelle del roditore lo stringevano in una morsa sempre più atroce, e le zampette acuminate gli infliggevano tremende ferite grattandogli via la camicia intrisa di sangue.
«Buttati a terra e rotola!», esordì il signor Barrano, come se avesse avuto l’idea più sorprendente di tutta la sua vita.
L’amico si lanciò a terra e rotolò come un disperato che ha preso fuoco, ma servì a ben poco. La pelle di Chio continuava a sputare sangue, che si allargava per terra in una pozza rossa. Il roditore non mollava, addentava e artigliava. Allora il signor Barrano provò a tirare su l’amico, ma cadde in quella piscinetta rubino. Ancora a terra, il signor Barrano fu preso da un atavico ricordo primordiale e caricò la sua fionda con una pallottola d’acciaio.
Se sbaglio la mira e lo prendo alla testa morirà!, pensò, esitando. Ma devo farlo, non c’è altra soluzione. «Muori, bestiaccia!»
Il topo, come se avesse potuto intendere l’offesa, piegò leggermente il collo verso il signor Barrano e in quell’istante la pallottola gli trapassò il cranio con uno sbuffo di pelliccia e uno spruzzo di sangue. La bestia senza vita aprì le fauci e consumò il suo estremo rantolo, annaspando in quel lago di sangue umano. Istintivamente il signor Barrano diede un calcio all’orrenda creatura e poi si chinò sull’amico.
«Chio, è morto! L’ho ucciso! Ora ti porto all’ospedale.»

L’urlo lasciò attonito il signor Barrano, ma non scosse minimamente l’essere mostruoso, che continuò a mordere e squittire.

Il signor Barrano avvolse il ratto in una busta di plastica e andò al laboratorio del signor Manzoni, che non si tirò indietro e accettò entusiasta l’incarico. Contro il volere della signora Barrano, contro il rispetto per amici e parenti e contro il generale senso del buon gusto, il signor Barrano avrebbe esposto tra le mura di casa il cadavere di quel rifiuto di fogna, perché con questo trofeo avrebbe imbalsamato il proprio coraggio e la propria destrezza per i posteri, oltre a provare agli increduli le titaniche dimensioni del roditore.
«Vi giuro, era poco più grande di quei levrieri che corrono al cinodromo. Aveva denti gialli e ricurvi lunghi come queste matite», raccontava il signor Barrano infilandosi due matite sotto il labbro. «Il muso sfregiato e appuntito, lungo come una baionetta e zampe enormi con artigli uncinati, davvero! E una coda, non scherzo, grossa come un quotidiano arrotolato».
Ben si capisce come le persone si mostrassero riluttanti riguardo a quelle spropositate misure. Nessuno potrebbe realmente credere che esista davvero un ratto di tali dimensioni. Come poteva essere così grande? Eppure questo è quanto mi riferì il signor Manzoni, esattamente come ve l’ho riferita io.
Alla fine il signor Manzoni, con i suoi modi privi di qualsiasi cerimonia, esordì: «Allora, vuoi accompagnarmi dal signor Barrano a consegnargli il suo trofeo?»
Non saprò mai perché, ma accettai. Bussammo e la signora Barrano venne ad aprirci. Era una donna bassina e un po’ in carne, ma comunque di bell’aspetto. Subito alle sue spalle si materializzò il signor Barrano.
«Prego, accomodatevi signor Manzoni. Immagino che in quella busta scura ci sia la mia preda», il signor Barrano sorrise e i suoi occhi furono attraversati da un luccichio di vera gioia. «Ma chi è questo giovanotto?»
«Sono…».
«Caro, non mi presenti ai signori?», disse la moglie.
«Perdonate il suo temperamento», disse, sottovoce. Poi, più sostenuto: «Questa è mia moglie Lucia. Lucia, ti presento il signor Manzoni e…»
«Piacere mio. Il ragazzo è il mio nuovo apprendista», disse il signor Manzoni. Io acconsentii senza scompormi e lui mi sorrise fiero.
La signora Barrano c’invitò a bere una tazza di caffè e ci accomodammo in salotto. Io e il signor Manzoni ci sedemmo sul sofà, il signor Barrano in poltrona e sua moglie gli stava accanto, seduta sul bracciolo.
«Cara, a che punto è il caffè? Perché non vai a vedere?»
La signora ubbidì e si recò subito in cucina e il signor Barrano scattò in piedi.
«Allora, io pensavo di metterlo proprio qui, sul caminetto, sotto la mia licenza di pilota di linea. Sì, perché io sono un pilota!» disse, dandosi un certo tono, mentre con un dito pulì una macchiolina sul vetro della cornice.
«È pronto, arrivo subito!», disse la signora dalla cucina.
Immediatamente il signor Barrano balzò sulla sua poltrona e richiuse la busta. La signora giunse in salotto e servì per primi me e il signor Manzoni. Sorbimmo il nostro caffè lentamente, a differenza del signor Barrano che lo bevve tutto d’un fiato. La sua tazzina incominciò a tintinnare sul piattino e d’improvviso si alzò e disse impaziente:
«Allora cara, non sei curiosa di vedere la bestia?»
Immaginai quella stessa frase ripetuta tra le lenzuola, e l’immagine di quel sesso rugoso mi attraversò il cervello come un chiodo.
«Mi è venuta un’idea, cara. Sentiamo se ti piace. Signor Manzoni, posizioni lei la preda. La metta sul caminetto. Chiudiamo tutti gli occhi e riapriamoli solo quando sarà al suo posto! Che ne dici, cara? Starà benissimo, vedrai.»
Il signor Barrano, inequivocabilmente esagitato, si sfregava le mani e sudava. Puntò la moglie con occhi di bambino. La signora non poté fare altrimenti e gli rispose con un tenero sorriso materno. Di certo, la signora Barrano non agognava avere quello scherzo di natura sul caminetto. Trovarselo in mezzo al salotto, proprio accanto alla foto del nipotino, poi. Da quel momento il grugno del roditore imbalsamato si sarebbe riflesso su quel faccino paffuto, quella coda avrebbe tagliato in due la sua foto da ragazza e quelle zampe avrebbero artigliato quella serie di statuine di gattini vinte alla tombola di Natale del ‘73.
Non dimenticherò mai il pelo duro di quella cosa che striscia sulla busta di plastica. Rumore di gessetti che graffiano sulla lavagna. Poi, il tamburellare della mano del signor Barrano sul bracciolo. Aveva le dita al galoppo. La sua bocca si piegò in un fanciullesco sorriso, come quello di un bimbo che scarta il suo regalo di compleanno.
«Ta-dan!» esclamò il signor Manzoni.
Riaprii gli occhi e osservai per intero quel mutante, di cui prima avevo visto solo la testa. Era un animale dai tratti preistorici, col pelo incatramato. Sembrava provenire da un incubo e metteva una paura ancestrale. Anche gli amanti dell’orrido avrebbero sofferto alla vista di quell’obbrobrio. Il signor Barrano fece un gridolino acuto. Aveva gli occhi iniettati di sangue come se, osservando quella cosa, stesse rivivendo le fasi dello scontro consumato in cantina. Lo sguardo del signor Manzoni, come un pallina da ping-pong, saltava dalla sua Opera d’Arte al signor Barrano, mentre questi aveva occhi solo per la belva. Occhi fissi ed estasiati.

Il signor Barrano fece un gridolino acuto. Aveva gli occhi iniettati di sangue come se, osservando quella cosa, stesse rivivendo le fasi dello scontro consumato in cantina.

Spezzai il silenzio schiarendomi la gola. Poi il signor Barrano esclamò: «Sembra vero! È più bello di come lo ricordavo. Una creatura davvero maestosa. Vero, cara?»
La signora Barrano ci mise un po’ a rispondere.
«Beh, è molto grande caro», disse imbambolata, mentre fissava il luccichio perverso negli occhi del marito. «Ma immagino sarà un ottimo spunto di conversazione», proseguì a denti stretti e con un certo rammarico.

I coniugi Barrano si separarono poco dopo l’arrivo in casa di quell’incubo, lo venni a sapere dallo stesso signor Manzoni. Una notte, mentre andava in cucina per bere, la signora aveva visto quella bestia muoversi e sosteneva fosse ancora viva. Il signor Barrano morì poco dopo, non per la disperazione causata dal divorzio, no, lui oramai viveva per quel ratto, lo venerava. Il signor Barrano perse la vita a bordo del volo AZ 5711, inspiegabilmente caduto subito dopo il decollo. Di lui oggi resta solo quell’incubo preistorico.

Immagine di Rob Stohard