Scrivere o prescrivere poesia | Ferita e cura a confronto

«Si è detto che il poeta è il grande terapeuta.
In questo senso il fare poetico implicherebbe esorcizzare, scongiurare e inoltre, riparare.
Scrivere una poesia è riparare la ferita fondamentale.»

Alejandra Pizarnik

«Perché la ferita sia soltanto ferita
in una carne che nega d’essere necessità dell’anima»

Alejandro Jodorowsky

Nella società che viviamo, in cui la lingua vede ingrossati i suoi campi semantici della sanità e della cura, la parola poetica viene sempre più spesso insignita di un ruolo salvifico, fino ad essere proposta come farmaco o balsamo tout-puissant contro i mali dell’uomo e della donna. Eppure, se ci trovassimo di fronte un ipotetico foglietto illustrativo per la somministrazione della poesia, non potremmo sorvolare su alcune avvertenze.

I punti cruciali da svolgere a partire dal binomio poesia-cura sono – almeno – due. Se il primo rimanda all’annosa questione “Che cos’è la poesia?”, senza pretendere di esaurirlo qui, non possiamo che riflettere su come si produca e su come il sistema cui pertiene – quello linguistico – possa interagire con altri sistemi a loro volta complessi, come quello del corpo e della mente umana.

Il secondo punto sarà definire cosa significhi <cura>, il che ci porrà di fronte diverse possibili articolazioni, secondo le accezioni insite nel lessema. Intanto, una biforcazione che può essere subito resa esplicita prendendo in considerazione i corrispettivi inglesi che tiene insieme: <care> e <cure>. <Care> corrisponde a un «impegno assiduo e diligente nel perseguire un proposito o nel praticare un’attività, nel provvedere a qualcuno o a qualcosa: premura», si riferisce quindi a una modalità dell’agire, a una praxis; <cure> rimanda invece al «complesso dei mezzi terapeutici e delle prescrizioni mediche relative a determinate malattie o a stati morbosi generali: terapia» e può essere quindi associato a una funzione che pertiene all’ambito della medicina.

Riavvolgendo però il lessema seguendo le sue radici etimologiche, risaliamo al latino <cura-æ> e soppesiamo una semantica più estesa. Al primo posto ritroviamo l’accezione di «sollecitudine, premura, attenzione» ma subito dopo emerge quella di «inquietudine, affanno, pensiero, preoccupazione»: l’accezione di cura come «trattamento, cura delle malattie, rimedio, guarigione» la rinveniamo solo dopo averne scorse molte altre, tra cui «oggetto d’amore», «direzione, opera, impegno», «ornamento, cura della persona», «studio, compilazione, ricerca».

Prima del restringimento di significato che ci ha consegnato il lessema <cura> così come lo conosciamo, infatti, questo non era, il più delle volte, il rimedio all’inquietudine o alla preoccupazione, bensì la preoccupazione stessa.

Può dunque la scrittura, che Artaud definiva “un male pericoloso e contagioso”, configurarsi come un antidoto al malessere, fisico o mentale? Se sì, questo rimedio sarà spontaneo e indolore oppure comporterà effetti collaterali e richiederà fatica?

Per avere un riscontro – o meglio, diversi possibili riscontri – rispetto al tema, ne ho parlato con Dome Bulfaro, poeta e performer attivo in corsi di Poetry Therapy, e Sonia Caporossi, poeta e critica, autrice, tra le altre opere, della raccolta Taccuino della cura (Terre d’ulivi Edizioni, 2021).

Dome Bulfaro: la poesia come terapia e indagine del sé

ECB: Cosa si propone di fare un laboratorio di poetry therapy? A chi si rivolge?

DB: La poesia è un “ponte”, ogni suo verso è sospeso nel vuoto e congiunge una sponda dell’ignoto non detto alla riva opposta, sempre appartenente all’ignoto. La Poetry Therapy, che in questa intervista uso come sinonimo di poesiaterapia, precisa dove si dirige questo “ponte”: non più verso l’ignoto, bensì verso la cura, l’aiuto alla consapevolezza e il benessere delle persone, tutte. La poesiaterapia fa bene ad adulti, anziani, adolescenti, bambini, neonati e feti nello sviluppo prenatale. Per questi ultimi, negli anni ho ideato la pratica Nido, poesia in dolce attesa.

ECB: Se la poesia è una cura, a quale malattia risponde? Può essere prescritta?

DB: La poesiaterapia, a seconda della malattia, può funzionare come pratica di cura autonoma oppure va usata come pratica integrata ad altre arti-terapie o terapie. Se volessimo curare un tumore in metastasi soltanto con la poesia, saremmo certamente fuori strada; nel contempo, però, la medicina occidentale sta prendendo sempre più coscienza – vedi ad esempio il crescente ricorso alle medical humanities – del fatto che per curare un organo malato si debba operare sulla persona nella sua totalità e in sinergia con essa, assecondando un “approccio integrato” dell’esperienza della malattia e della cura. Su quali poesie preesistenti utilizzare e quali prescrivere esiste, specie negli Stati Uniti, una letteratura piuttosto estesa. Storicamente, il primo “poetaterapeuta” di cui si hanno documenti, è il medico romano di nome Sorano che, nel I secolo d.C., prescriveva la tragedia per i suoi pazienti maniacali e la commedia per coloro che erano depressi. Nel corso dei secoli la questione della prescrizione si è approfondita e sempre più evoluta. Certamente si possono trarre risposte concrete di auto-mutuo aiuto dall’antologia Poesia per ogni pandemia, che ho curato con lo psichiatra Paolo Maria Manzalini.

L’evento malattia, con i concetti conseguenti di lesione, di dolore, e con la corrispondente paura di eventuale perdita della vita terrena, può essere uno squilibrio di per sé, ma non per quell’essere umano che realmente conosce se stesso, e che è giunto a conoscere se stesso attraverso la consapevolezza. Lo stesso avviene nei migliori percorsi di poesiaterapia: la cura della malattia non può essere separata dal processo di aiuto e sostegno alla consapevolezza di sé. Lo studio del sufismo, ad esempio, aiuterebbe noi occidentali a maturare una visione olistica della malattia. Gabriele Mandel Kân, ad esempio, vicario generale per l’Italia della confraternita Sufi Jerrai-Halveti, ci ricorda quanto disse Âbû Hamid âlGhazalî, grande maestro Sufi ed eminente filosofo islamico: “La malattia è una delle forme di esperienza tramite le quali gli uomini giungono alla consapevolezza di Dio.” O ancora, se consideriamo lo studio di Margot Astroy nell’antologia Il serpente alato (1962): “È chiaro quanto per gli indiani americani fosse fondamentale per la cura il potere guaritore della parola: più dell’erba medicale che veniva somministrata al malato.”

Anche il concetto di “cura” andrebbe meno idealizzato. Stasera ho rivisto Sabrina diretto da Billy Wilder e verso la fine del film Audrey Hepburn (Sabrina) dice al padre, sull’onda della svanita cotta d’amore per David Larrabee e una nuova storia d’amore che desidererebbe vivere con il fratello Linus Larrabee ma che è ancora irrisolta: “Sì,  mi è passata oramai, sono guarita, ma ora come guarirò dalla cura?”

ECB: Il poeta si presenta come terapeuta, offre i suoi strumenti di lavoro agli altri, permettendo loro di apprendere e applicare strategie utili a cercare risposte ai propri interrogativi. Chi riceve e impiega questi strumenti si fa a sua volta poeta e terapeuta di se stesso? Siamo perciò tutti, almeno in potenza, poeti?

DB: Joseph Beuys, già negli anni Sessanta, sostiene che “Ogni uomo è un artista”, considerando l’arte una “scienza della libertà”. Il mio lavoro di insegnante di poesia performativa va nella medesima direzione: “Ogni essere umano è un poeta” – quando siamo bambini ne diamo prova costantemente – solo che non sappiamo di esserlo, né sappiamo come incarnarlo. Anche solo imparare a dire poesie ad alta voce, ad esempio, significa imparare a volare, conquistare il coraggio di essere liberi.

Il poeta e il poetaterapeuta, al pari di un musicista e un musicoterapeuta, sono figure affini, ma solo in alcuni casi sono sovrapponibili. Per praticare la poesia-terapia occorre una formazione adeguata che comprende anche l’acquisizione di una deontologia professionale. Con il gruppo Mille Gru, con cui dal 2009 elaboro percorsi di poesia-terapia, stiamo studiando diverse scuole di formazione di bibliopoesia-terapia. Per ora stiamo guardando ai percorsi formativi proposti negli USA e in Europa, specie in Finlandia e Ungheria. Personalmente sto approfondendo le ricerche di figure italiane poco indagate ma di notevole valore, come le “pratiche di etnomedicina” di Antonio Scarpa, la modellistica psicofisiologica di Vezio Ruggieri, la psicobiogenealogia di Antonio Bertoli, ecc. Ad ogni modo, tutti i poetiterapeuti contemporanei sono accomunati dalla volontà di condividere esperienze, modalità, tecniche, strategie per facilitare i colleghi nello svolgere il proprio operato e facilitare il proprio cliente nel trovare una via di guarigione o, più semplicemente, un sostegno alla propria crescita. Spesso chi si avvicina alla poesia o scrive poesia lo fa, consciamente o meno, per guarirsi o aiutare a guarire, anche solo immaginando simbolicamente un mondo diverso, che permetta delle condizioni di vita migliori.

ECB: Ritieni che sia importante, per raggiungere gli obiettivi posti da un laboratorio di poesiaterapia, il carattere orale e performativo della poesia? Lo consideri un momento successivo a quello della scrittura o sono due aspetti inscindibili della stessa pratica? Possiamo dire che la parola si fa corpo e viceversa?

DB: Quando adotto il modello RES del pioniere Nicholas Mazza, tendenzialmente seguo l’ordine più canonico: 1- componente ricettivo/prescrittiva (R); 2- espressivo/creativa (E); 3- simbolico/cerimoniale. Però in poesiaterapia regole precostituite rigide non ce ne sono. Ogni persona e ogni gruppo con cui lavori ha un vissuto e delle caratteristiche proprie. È su quelle che dovrai modellarti. Ai fini della guarigione il carattere orale e performativo della poesia ha un ruolo certamente basilare, come lo hanno l’ascolto, la scrittura e altre componenti proprie della poesia-terapia. Ruolo e importanza dipendono da quale percorso voglio compiere e con chi lo sto compiendo. In generale posso dire che il momento della scrittura terapeutica è quello che più necessita di un “riscaldamento” il quale, solitamente, può essere rappresentato da una lettura da parte del poetaterapeuta, oppure da esercizi di riscaldamento svolti con il corpo.

Il suono della parola ha un corpo, a maggior ragione lo ha la parola. Certamente per “poetizzarsi”, mutuando un bel neologismo della psicologa e poeta Marisa Bracciaroli e appoggiandomi alla simbologia cristiana, nel rito della poesia performativa arriva un momento in cui bisogna che la poesia si faccia carne e quindi corpo. Per dirla con il poeta Antonin Artaud nella poesia Post Scriptum: “(…) voi vedrete il mio attuale corpo / volare via in schegge / e raccogliersi / in diecimila aspetti ben noti / un corpo nuovo / in modo che non possiate / mai / dimenticarmi.”

ECB: Il percorso di terapia che impiega lo strumento poetico ha una sua conclusione, che coincide con una “risoluzione del caso” o della “malattia” oppure si prospetta come processo che è sempre in divenire?

DB: Ci sono nodi che sciogli per sempre e altri che sciogli ma poi si riannodano e quindi vanno di nuovo trattati con il balsamo della parola poetica. Ci sono riti di passaggio che, con l’aiuto della poesia, una volta superati non occorre più che vengano affrontati e, per contro, ci sono disagi, difficoltà, traumi, che richiedono più cicli di incontri.

Teniamo conto che la Poetry Therapy è una pratica che prevede l’uso intenzionale della poesia e di altre forme letterarie per la guarigione e la crescita personale, quindi ad esempio, circa la crescita personale o collettiva di un gruppo classe di una scuola primaria, può essere che il poeta-terapeuta lavori per diverse annualità; lo stesso vale se lavora con anziani in una struttura come una RSA o con malati di Alzheimer residenziali o con malati di mente, senzatetto, alcolizzati, carcerati, coppie in via di separazione, donne che hanno subito violenza.
Detto questo, da un certo punto di vista qualsiasi essere mortale, anche il più sano, vive in un perenne stato di malattia. Salute e salvezza sono termini strettamente collegati tra loro.

È interessante notare che nella contrapposizione malattia/salute ai poeti più “sani” si attribuiscono simbolicamente caratteristiche che di norma si considererebbero un handicap fisico (la cecità) o una infermità psichica (la follia). La migliore condizione di “salute”, secondo il poeta sufi Rûmî, la si raggiunge quando si diventa folli: “Lascia ogni ipocrita astuzia, o amante, / entra nel mezzo del fuoco, diventa pazzo! / Distruggi la tua casa e con il tesoro nascosto in essa / sarai in grado di costruire migliaia di case.” [1]

Spesso il problema risiede non tanto in cosa vivi ma in come lo vivi. Due delle leve che sovente il poetaterapeuta cerca di far azionare dal proprio paziente sono il cambiamento e la speranza, due componenti che non a caso sono alla base di una delle poesie sul coronavirus che più si è diffusa in quel periodo, tanto da diventare un farmaco virale collettivo: si tratta di And the people stayed home (in Italia tradotta con il titolo Guarire) di Kitty O’Meara, una insegnante in pensione, che la compose e pubblicò sul suo blog per sedare le proprie ansie e paure: “(…) qualcuno pregava / qualcuno ballava / qualcuno incontrò la propria ombra / e la gente cominciò a pensare in modo differente / e la gente guarì.” Perché sperare di guarire significa aver già compiuto un enorme passo per guarire davvero.

La poesia che si offre come terapia è perciò uno strumento, secondo Bulfaro, la cui utilità comprovata risiede nel permettere all’io di conoscersi, avere consapevolezza di sé e del proprio percorso di vita. Anche Sonia Caporossi, nel suo Taccuino della cura, porta avanti un’operazione che sembra prendere le mosse dallo stesso tipo di indagine, vediamo però in che modo la conduce.


Sonia Caporossi: la poesia come indagine aperta e crudele

ECB: Il tuo Taccuino della cura (Terra D’Ulivi Edizioni 2021) sembra insistere sulla scrittura come pratica, processo o procedimento di indagine lucida – ma non semplice – dell’io. Eppure, percorrendolo, l’indagine non sembra essere chiusa. L’io si riconosce ma non rimane fermo su se stesso: si avverte, costante, una tensione. L’io è finalmente sé o è anche altro da sé?

SC: Sono una convinta assertrice della teoria di Hartmann, in base alla quale le pulsioni dell’Io non provengono semplicemente da un’intima natura nevrotico-difensiva, come pensava Freud, bensì possono anche essere di impronta adattiva, visto che riescono a dare espressione alla nostra capacità di adattamento alla realtà. La parabola umana vive sul filo sottile di un indefesso Bildungsroman interiore, un costruirsi che è anche un decostruirsi alla luce dell’esperienza, dell’autoanalisi e della presa progressiva di coscienza delle proprie idiosincrasie e della propria “vilipesa umanità”. Dobbiamo, però, essere consci del fatto che fronteggiamo un rispecchiamento identitario slittante continuamente in altro, tale che l’ottenimento di quell’istanza definitoria, nella quale solamente vige la possibilità del “conosci te stesso”, è più un’aspirazione progettuale che un traguardo raggiungibile. L’io, insomma, è sempre un altro, proprio perché è esperienzialmente sempre in altro.

ECB: Si potrebbe dire un’indagine aperta?

SC: Certamente. In fondo, in tutta la mia produzione letteraria non saggistica, sia in poesia (con le mie quattro sillogi) che in prosa (con il dittico di racconti filosofici Opus Metachronicum, Corrimano Edizioni 2014 e Opus Metamorphicum, A&B Edizioni 2021, nonché col mio romanzo onirico Hypnerotomachia Ulixis, Carteggi Letterari Edizioni 2019) ho fatto come l’Eraclito del frammento 80: “Ho indagato me stesso”. Ma l’indagine dei più remoti recessi dell’io, necessariamente, permane nella potenza dell’atto, soggiace all’incostanza e all’accidente, resta consapevole della paradossalità logica di una contingenza assoluta insita nella possibilità del dirsi, che rimane sempre molto al di qua della possibilità del darsi. Allora, se la nostra natura mostra tutta la debolezza di cui siamo (in)capaci, se, per dirsi, non rimane che la poesia come strumento salvifico, l’indagine si muta in operazione artistica, che per natura non concede mai un’ermeneusi compiuta e perfetta. Contrariamente al vanto abituale di cui si ammanta il mezzo linguistico, attraverso la poesia non si dà, infatti, comprensione sensibile del mondo, ma solo apprensione e decodifica parziale del dato attraverso una dimensione estetica che è, insieme, impressione ed espressione. Il poeta si aggira intorno a temi e problemi perennemente aperti, in un sistema segnico e significante osmotico ed espanso. La poesia, secondo me, non è che la più verosimile rappresentazione simbolica, in forma di taccuino e di microfinzioni dell’io, dell’entropia del senso delle cose.

ECB: Questo processo di annotazione non si limita a una registrazione e riproduzione in forma poetica di dati sensibili e significati che intervengono sulla sfera del corpo e della malattia, ma sembra vi sia un’interazione di questi due piani. Mi sono chiesta quindi se in certi spazi che si aprono negli incastri tra il piano verbale e quello preverbale, non si crei quasi una corrispondenza tra il corpo e la carta su cui si esercita la scrittura. Può la scrittura sottrarsi alla mera funzione di codifica, e lasciare da parte il binomio significato-significante, per essere un materiale?

SC: Se la funzione sociale di un corpo sano e il senso di esclusione ed emarginazione insita nel possesso di un corpo malato era già nota benissimo a Giacomo Leopardi, la medesima funzione intrinseca alla malattia mentale è divenuta biopoliticamente determinante almeno da Michel Foucault in poi. Ma già il Nietzsche della Gaia Scienza scriveva, in modo sufficientemente rivelatorio: “abbastanza spesso mi sono chiesto se la filosofia, in un calcolo complessivo, non sia stata fino ad oggi un’interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo”. Io direi che, invece, la poesia è un fraintendimento dell’anima. Troppo spesso, pulsioni e deviazioni le sono state allontanate come fossero tematiche non degne del mezzo espressivo, per un misunderstanding legato alla presunta “altezza” della poesia in quanto tale. Ma la poesia, in fondo, non è altro che un tessuto linguistico, cioè, wittgensteinianamente, una “forma di vita”. E se, con Lotman, niente di ciò che è presente in natura può essere estraneo ad essa (contraddizione in termini già al solo pensarlo!), non vedo perché la poesia non possa farsi espressione delle pulsioni più recondite dell’umano; non, si badi bene, in senso esclusivamente consolatorio, laddove l’oggetto sia il sentimento del dolore, ma anche in senso ostensivo e descrittivo, laddove l’oggetto possa essere ciò che di atroce galleggia sul magma ribollente dell’anima e del corpo. Ho scritto molti versi corporei, a partire dalla mia prima raccolta Erotomaculae (Algra Editore 2016), per poi proseguire con la trilogia dei Taccuini: nel Taccuino dell’urlo (Marco Saya Edizioni 2020), l’argomento era l’elaborazione del lutto amoroso; nel Taccuino della madre (Edizioni Progetto Cultura 2021), il tema centrale verteva sull’elaborazione della perdita archetipica del Materno (con alcune pagine in cui lo strazio è consistito nella descrizione del disfacimento del corpo materno distrutto dal cancro); nel Taccuino della cura, la dinamica di disfacimento/decostruzione/ricostruzione riguarda la mente. La mente è, infatti, con il suo portato di memorie e di ipnoeresie, un tavolo da lavoro, fatto di nodi e scanalature: è un organismo vivente, spesso agonizzante, ma comunque vitalisticamente abbarbicato all’istintualità, un “eurganismo / che respira pioggia” (Erotomaculae).

È la mente, qui, il vero corpo senziente, e la carta non è che il suo sudario, luogo in cui il bollore del magma trova riposo.

ECB: Può la poesia essere quel “sassolino nella scarpa che infastidisce il cammino”, per citare un tuo testo e, a sua volta, il corpo farsi indice e causa di trasformazione della lingua, per cui “il piede batte dove la langue duole”[2]?

SC: Il testo che citi è rivelatorio di una serie di questioni di tipo estetico e critico-letterario. Dato che la poesia della lamentatio interiore ha sinceramente terminato la propria funzione simbolica, comunicativa e linguistica (d’uso), essendo ormai degenerata in un lirismo epigonale che, alla luce dell’ultracontemporaneo, non ha più niente da dire, occorre trovare nuove forme d’espressione. Tuttavia, non voglio dire che debba essere “nuovo” il messaggio relativo al contenuto tematico, che può continuare legittimamente a essere qualsiasi cosa: in poesia, infatti, come in ogni forma d’arte, niente è vietato e nessun argomento è intoccabile, non solo quelli nuovi, ma nemmeno quelli abusati. Al contrario, con “nuove forme di espressione” intendo la capacità di proporre una poetica differenziale che si dia nella ricerca di uno stile e di un adeguamento tra forma e contenuto consustanziali al proprio Kunstwollen. Il piede, quindi (in senso metrico, ovvero la poesia), batte le strade su cui la langue, con il suo retaggio di categoremi e regole grammaticali precostituite, duole. Avvertire il dolore significa riuscire a togliersi dalla scarpa il sassolino del rispetto delle regole e la soggiacenza nei confronti del gusto comune. Lo ammetto: è una fatica immane, e spesso non ripaga. Guarda caso, ogni volta che un’avanguardia è intervenuta per scardinare le regole, alla lunga ne ha create di nuove…

ECB: L’esito della scrittura è una fatica intesa sia come sforzo legato a un’indagine tutt’altro che indolore, sia come prodotto tangibile, opera. Si può dire che la poesia si propone non come un rimedio o antidoto al dolore e alla ferita, bensì come un’operazione volta a precisare e rendere manifesta la ferita stessa, se non a produrla direttamente? Potrebbe manifestarsi, addirittura, come crudeltà?

SC: Di più: è una dilacerazione esfoliativa della ferita archetipica, di qualsiasi ferita; è un’ostensione del fuoco doloroso che anela al refrigerio e che non può mai avere pace. In questo senso, l’unica cura è l’eviscerazione completa. Per questo motivo, sostengo da sempre che la poesia è un atto crudele, in quanto non è esente dall’epifania dell’atrocità, della parte peggiore di se stessi e degli altri. Bisogna squartare la parola e farsi pastori della propria carne. Allora, e solo allora, avrà senso il dono del sacrificio, perché qualsiasi cura, come fuoriuscita o fuga dal nido confortante dell’abitudine disfunzionale, è sempre un atto di suprema crudeltà nei confronti di se stessi, che prelude alla presa di coscienza dell’inequivocabile verità: “dal dolore non si sfugge” (Hypnerotomachia Ulixis).

ECB: Per mettere in atto un’operazione di questo tipo, diceva Artaud, è necessaria una lingua che “non può essere ingenua, naturale, spontanea” ma deve agire con “calcolo, metodo”, quindi in modo accurato. Concordi con questa possibilità e modalità di “ripossedere corpo e linguaggio” assumendosi tutti i rischi del caso?

SC: Se il rischio è quello di darsi un linguaggio che determini il delinearsi di una vera e propria poetica personale, al netto dell’indistinzione e dell’epigonismo in cui annega la poesia ultracontemporanea, allora rischiare non solo mi piace, ma è la mia missione precipua. Scrivere, per Blanchot, è una “tremenda responsabilità” che, innanzitutto, riguarda lo stile. Se non torniamo a propugnare una visione estetica delle cose d’arte, se non ci riaffidiamo di nuovo a una sensibilità che riesca a percepire la distinzione tra il bello e il brutto, l’universo poetico sarà destinato a deperire. Soprattutto, occorre svincolarsi dall’impostazione neoclassica che suggerisce come obiettivo quello di descrivere esclusivamente un contenuto bello in una forma bella. Si deve avere il coraggio di offrire una descrizione del mondo che conceda spazio al contenuto brutto in una forma sensata, giacché, se esso esiste, ci saranno pure un motivo e una forma che ne rendano ragione. A mio parere il brutto, parafrasando Pascal, ha ragioni di bellezza che la banalità non conosce.

La poesia, dunque, secondo Caporossi, può essere intesa come farmaco soltanto mantenendo uno sguardo aperto su tutta l’area semantica che in quest’ultimo termine è racchiusa: qualsiasi sostanza, inorganica od organica, naturale o sintetica, capace di produrre in un organismo vivente modificazioni funzionali, utili o dannose.

Ammettendo perciò che il linguaggio verbale possa – e debba – interagire con gli altri linguaggi e sistemi per riceverne – e produrre a sua volta – mutazioni e divenire, le nostre avvertenze rimandano a una precisa scelta, affatto obbligata: guarire o agire la ferita, prescrivere o scrivere la poesia.

Copertina di Klawe Rzeczy

DOME BULFARO (1971), poeta, performer, insegnante e artista, tra i più attivi nello sviluppo della poesia performativa. Su invito degli Istituti Italiani di Cultura ha rappresentato la poesia italiana in Scozia (2009), Australia (2012) e Brasile (2014). Ha cofondato la LIPS, Lega italiana poetry slam e ha raccontato il movimento slam, internazionale e italiano, nel libro Guida liquida al poetry slam (2016). È ideatore e direttore artistico del festival PoesiaPresente. È stato tra i primi in Italia a sviluppare e diffondere la poetry therapy. Tra le sue pubblicazioni Ossa. 16 reperti (Marcos y Marcos 2001), Carne. 16 contatti (D’IF 2007) vincitore del Premio di Letteratura “Giancarlo Mazzacurati e Vittorio Russo”, Milano Ictus (Mille Gru, 2011), Ossa Carne (Dot.com Press, 2012) con traduzione in inglese di Cristina Viti e Prima degli occhi (Mille Gru, 2015) con CD musicato da David Rossato. Sue poesie sono state tradotte negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Sud America.

SONIA CAPOROSSI (1973), docente, musicista, musicologa, scrittrice, poetessa, critica letteraria, scrive di estetica filosofica e filosofia del linguaggio incentrando la propria indagine intorno alle forme del poetico e alle scritture di ricerca. Ha esordito narrativamente nel 2014 con la raccolta di racconti Opus Metachronicum (Corrimano Edizioni). Nel 2016 ha pubblicato la silloge poetica Erotomaculae (Algra Editore), mentre del 2017 è la raccolta di saggi Da che verso stai? Indagine sulle scritture che vanno e non vanno a capo in Italia, oggi (Marco Saya Edizioni). Nel 2018 ha curato l’antologia La Parola Informe. Esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità (Marco Saya Edizioni). Del 2019 è Hypnerotomachia Ulixis (Carteggi Letterari), romanzo sperimentale composto da narrazione e filosofia. Tra il 2020 e il 2022 pubblica le sillogi Taccuino dell’urlo (Marco Saya Edizioni), Taccuino della madre (Edizioni Progetto Cultura) e Taccuino della cura (Terra d’Ulivi Edizioni). Dirige il blog multidisciplinare Critica impura.


[1] Da Gialâl ad-Dîn Rûmî, Follia sacra

[2] Da Sonia Caporossi, Taccuino della cura, poesia XV

La volontà rimossa del Romancero Gitano

Federico García Lorca compone il Romancero Gitano tra il 1924 e il 1927. Compare, per la prima volta, tra le pubblicazioni della «Revista de Occidente» diretta da José Ortega y Gasset, nel 1928; si tratta, non a caso, della rivista che fece da perno per le nuove istanze culturali della prima metà del Novecento in Spagna, promuovendo più di ogni altra la diffusione delle avanguardie europee.
La raccolta riguarda cronologicamente quegli anni in cui il poeta di origini granadine ha vissuto per lunghi periodi a Madrid, soggiornando presso la Residencia de Estudiantes. In tale ambiente ha sviluppato la sua ricerca, entrando in relazione con Luis Buñuel, Salvador Dalí, Pepín Bello, Emilio Prados, in costante dialogo con gli stimoli interni ed esterni al gruppo. Da qui egli deriva l’attitudine critica verso i putrefactos, clichés e modi della tradizione ormai privi di fecondità, stantii. La volontà di rottura, tuttavia, in Lorca non si configura come semplice negazione: dalla tradizione il poeta si muove con consapevolezza e autonomia per aprire strade nuove.
All’uscita del Romancero segue una reazione di rifiuto da parte dei suoi compagni, con attacchi più o meno velati che Lorca decifra anche nel famoso cortometraggio Un chien andalou, in particolare nel titolo: Buñuel e Dalí, i quali vedono nell’utilizzo del metro tradizionale e nei riferimenti popolari una ricaduta nelle forme esauste della letteratura, non risparmiano a Federico l’appellativo di cane dell’Andalucía, quasi a dipingerlo come insulso e prevedibile poeta che canta la sua terra.
Da questa lettura impietosa – e dal rischio che spesso consegue alla grande diffusione e popolarità di un’opera – nasce la necessità di Lorca di rivendicare la vera natura della raccolta, molto più articolata e universale di quanto appaia. Lo fa apertamente e con cura, in occasione di una conferenza tenutasi presso l’Università di Madrid nel 1934, e successivamente a Barcellona, in cui si presta a un commento critico e puntuale ma aperto, accessibile, dei suoi stessi componimenti.
Tali prose, trascritte e già note in ambito ispanico, sono state riprese e tradotte da Alberto Pellegatta, per Taut Editori, in Federico García Lorca. La volontà amorosa – Scritti sulla poesia.

L’operazione di Pellegatta è mossa da un’intenzione sicuramente interessante: è volta a restituire al poeta la sua opera, in una sorta di “Vita nova” lorchiana, sottraendo il Romancero a sguardi parziali per maneggiarla con gli strumenti giusti: tali strumenti ci vengono dati dalla stessa voce di Federico, che – in due momenti che paiono reciprocamente indispensabili – scrive e condivide con il pubblico i propri versi.

L’incontro con il poeta apre così l’incontro con la poesia. Le parole d’introduzione ai romances permettono di coglierne la portata, senza farsi abbagliare da letture altre.
Ci troviamo collocati dentro, e non di fronte, l’opera poetica. Questa si configura come un retablo, un dipinto, della terra andalusa; i suoi personaggi – tutt’altro che statici – non si offrono semplicemente, non si prestano allo sguardo del poeta per una semplice descrizione: agiscono invece la volontà che il poeta vuole mostrare. Il contenuto è dato dalla conflittualità da loro intrapresa e incarnata – «la sorda lotta latente, in Andalusia e in tutta la Spagna, tra gruppi che si attaccano senza sapere il perché» – che si sovrappone al mito e se ne appropria, senza farsi mai pietosa: «tutti i drammi e le danze [sono] sostenute da un ago intelligente di gioco e d’ironia».
La pena negra, spesso fraintesa, è un’altra faccia della volontà amorosa, quella che sta sotto; ciò che spinge tale volontà verso la lotta: «è la radice del popolo andaluso. Non è ansia, perché con la pena si può sorridere, non è un dolore che acceca, dal momento che non produce pianto; è un’ansia senza oggetto, è un acuto amore per niente, la sicurezza che la morte (preoccupazione perenne in Andalusia) stia respirando dietro la porta».


Il Romancero segna un passaggio fondamentale nella produzione lorchiana, non tanto perché vi si consolidano le basi per una simbologia che riguarderà tutto il suo lavoro, quanto per la scelta della materia e per l’enfoque con cui viene lavorata: è chiara l’impossibilità, per Lorca, di rinunciare a lo popular, alle vicende del sostrato, alla vita desnuda che informa la cultura, nonostante le pretese di un’estetica nuova che già reclama forme più libere e, per forza di cose, elitarie. Il neopopularismo[1] che vi si rintraccia non cede alle lusinghe dell’arte disumanizzata: mantiene attivo il dialogo tra le nuove istanze della poesia di ricerca e la materia che continua a venire dal basso. La sua scelta predilige la contraddizione, il suo sguardo sempre molteplice e dinamico.

L’impianto è pittorico, l’intento mai pittoresco.
«Il libro è un retablo d’Andalusia con gitani, cavalli, arcangeli e pianeti, con il suo venticello giudeo, con i fiumi, con i crimini, con la nota volgare del contrabbassista, e quella celeste dei bambini nudi di Cordova che prendono in giro San Raffaele», e continua: «Un libro in cui viene espressa appena l’Andalusia visibile ma in cui rabbrividisce quella che non si vede. Ve lo leggerò.  Un libro anti-pittoresco, anti-folklorico, anti-flamenco. In cui non c’è neanche una giacca corta, né un vestito da torero, né un cappello piatto o un tamburello […]».

Il risultato non è lirico: semmai, epico.
 Una registrazione di gesta occulte, che sfuggono alla linearità delle narrazioni ufficiali, che si intrecciano in modo sempre anomalo e indisciplinato: il lavoro e la lotta vitale dei gitani, la violenza della Guardia Civil, le rappresaglie, lo spesso smalto dell’iconografia cristiana, il fermento culturale dei nuclei ebraici e arabi, la minaccia del divenire al divenire, la morte, la contrattazione quotidiana dei limiti interni della toponomastica e dell’esistenza, il movimento insito negli eventi atmosferici e umani, tutti elementi della stessa storia. Questo tipo di approccio sembra rispondere a quanto era considerato intrahistoria dal filosofo Unamuno: sostituire, nella prassi, le grandi narrazioni con quelle piccole, minuziose, chirurgiche.
Non narra le gesta di un popolo, ma i gesti: i movimenti concreti, concitati, volgari, meccanici del popolo, in modo organico.
Il romance è, nella tradizione popolare – orale – il metro adibito alla narrazione, tradotto qui in «romanzo» [sarebbe stato forse preferibile mantenere la traduzione “romanza” introdotta da Carlo Bo o il termine originale, n.d.r.].
Assistiamo alla presa in carico di simboli puntuali, complessi ed esatti, come punti-segno da collocare dietro l’apparato testuale, crune e perni entro cui far passare tutte queste linee narrative.
Ecco, infine, perché una traduzione di tali testi deve operare con la stessa crudeltà e precisione, senza cedere alle lusinghe dei suoni e dell’atmosfera.
A differenza di altre opere più sperimentali, il Romancero è più accessibile, come testimoniano i vari esempi di traduzione e diffusione: a seguito del suo grande e repentino successo di critica e di pubblico, la raccolta è stata conosciuta e accolta con facilità in Italia. Le traduzioni più autorevoli rimangono ad oggi quelle di Carlo Bo (del 1940), Oreste Macrì (1951) e Claudio Rendina (1993).

Scivola sulla lingua senza muovere passi, la traduzione di Pellegatta; cade nella gestione del piano lessico-semantico generando cortocircuiti forse troppo facili per poter risultare problematici – e, quindi, interessanti.

Produce, in più di un’occasione, errori d’interferenza linguistica; in particolare si notano i calchi paronimici quali <cintura> dallo spagnolo cintura per <fianchi> o <vita>, <granata> da granada, che però vuol dire <melograno> – o <muscoli>, dallo spagnolo muslos, che in realtà significa <cosce>.
I calchi paronimici sono calchi che si basano sulla similitudine fonetica o etimologica di due parole che hanno però assunto, nelle due lingue, significati diversi.  Si tratta di lapsus, desvíos, che alterano la collocazione semantica degli elementi. Tra questi, il più accettabile può essere l’utilizzo del lessema <cintura>, già adottato in traduzioni precedenti; esso dovrebbe però presuppore un senso metonimico – “cintura” per “vita” – che pare innecessario e soprattutto inattuale.

La traduzione di Pellegatta riporta:



La bambina dal bel volto
continua a raccogliere l’oliva,
con il braccio grigio al vento
stretto intorno alla cintura.[3]

La niña del bello rostro
sigue cogiendo aceituna,
con el brazo gris del viento
ceñido por la cintura.



Negli ultimi versi della strofa sopra riportata un altro tipo di alterazione, sul piano sintattico, depotenzia il legame che Lorca innesta nei due versi conclusivi: è il vento, con il suo braccio, a cingere la vita della bambina; rappresenta l’elemento erotico – qui, dispotico – maschile che agisce una violenza.



La pazza sera dei fichi
e dei rumori caldi
cade svenuta sui muscoli
feriti dei cavalieri.[4]

La tarde loca de higueras
y de rumores calientes
cae desmayada en los muslos
heridos de los jinetes.


 
Anche qui, la costruzione proposta da Pellegatta sembra spostare il focus: la forma quasi agrammaticale «loca de higueras / y de rumores calientes» può in effetti tentare chi traduce ad attribuire il sintagma nominale che segue l’aggettivo al soggetto, cioè alla notte stessa, come fosse una nota descrittiva, mentre sarebbe preferibile lasciare che tale sintagma agisca come causa dell’attributo cui è legato: sono infatti i fichi e i rumori caldi a rendere folle la notte.
Bisogna comprendere che questi elementi – il vento, i rumori – non gravitano intorno alla volontà del poeta e non ne sono investiti: ne fanno parte, costituiscono tale volontà e la concretizzano.
L’apparato simbolico, si ricorda, non viene inserito dal poeta granadino all’interno del suo linguaggio, bensì è generativo dello stesso. L’attenzione estrema dedicata alla volontà che informa la sua poesia, dovrebbe riguardare ancora più compiutamente la poesia stessa.
E, per quanto riguarda la poesia trasposta in una lingua diversa, la volontà dell’autore si salvaguarda garantendo quella che Eugène Nida definisce “equivalenza dinamica”: occorre assicurarsi che ciò che il linguaggio fa nel testo di partenza, avvenga anche nel metatesto. Occorre maneggiarla, non accompagnarla di fronte al nuovo pubblico.
Per quanto lodevole e riuscita sia l’intenzione di consegnare a Lorca stesso la responsabilità della sua opera, è altrettanto importante farsi carico della responsabilità collaterale da parte di chi veicola i suoi versi in un’altra lingua.
Se l’intento di Pellegatta, perciò, era quello di consentire una lettura limpida del Romancero, senza filtri e distorsioni, non si comprende questo svolgersi malfermo della traduzione, che genera impedimenti e guasti, appannando la lente di chi legge. 

Federico Garcìa Lorca, La volontà amorosa. Scritti sulla poesia
Taut Editori, 2020
A cura di Alberto Pellegatta
Copertina di Riccardo Garolla


[1] Il Neopopularismo è stato un movimento tipicamente andaluso, sorto come reazione contro la letteratura elitaria ed eccessivamente universalista del Modernismo e certa freddezza e inaccessibilità delle Avanguardie, in particolare dell’Ultraísmo.

[2] Federico García Lorca. La volontà amorosa – Scritti sulla poesia, Taut Editori, 2020, pag.11

[3] Federico García Lorca, ivi, Alberé alberé, pag.34

[4] Federico García Lorca, ivi, Rissa, pag.22

Che fare con il pubblico?

A maggio 2020 la redazione di «Neutopia» ha prodotto un inserto, NEUTOPINA®: 80 mg di letteratura per soluzione orale. All’interno, diversi contenuti tra cui un racconto pensato per essere messo in scena non in un patio ma in un cortile condominiale, di fronte a un pubblico di ragazzini e gatti più o meno randagi. Tale racconto prende le mosse da uno studio sul teatro più sperimentale di García Lorca, sottoponendo – tramite un innesto – l’autore stesso alla stessa operazione di crudeltà che egli agiva nei confronti dei personaggi, del direttore di scena e soprattutto del pubblico.

Scritto a Cuba nel 1930, il dramma El público fa parte del cosiddetto teatro «irrepresentable» cui lo stesso autore faceva riferimento, in un’intervista del 1933, con queste parole: «non è mai stato rappresentato perché non lo si può rappresentare». Si dovrà infatti aspettare cinquant’anni dopo la sua morte per le prime messe in scena, orfane comunque di una versione definitiva dell’opera, tradita da un solo originale manoscritto, edito nel 1967 da Martínez Nadal.

Risposta – ben più compiuta – a una prima sperimentazione surrealista messa in campo da Buñuel con il suo Hamlet, El público di Lorca si presenta come una successione di «sei atti e un assassinio» che anticipa le stesse logiche della Crudeltà auspicata da Antonin Artaud nel Teatro e il suo doppio (1938). Il Direttore confessa: «Ho scavato il tunnel per impossessarmi degli abiti [di scena] e mostrare il profilo di una forza nascosta, non lasciando al pubblico altra scelta che assistere, pieno di spirito e soggiogato dall’azione.» E ancora: «Questo è teatro! Se ho trascorso tre giorni lottando contro le radici e i getti d’acqua, l’ho fatto allo scopo di distruggere il teatro.»

Anamnesi

 

 

 

A voi –
baritoni ben nutriti –
che da Abramo ai nostri giorni,
rintanati in grandi teatri
arieggiate Romei e Giuliette.[1]

Sembra stia ascoltando questi versi del poeta russo, Federico, sorridendo con malizia mentre concepisce un’opera che al teatro al aire libre – teatro all’aria aperta – si sottrae per inaugurare un nuovo teatro, quello bajo la arena, sotto la sabbia, occultato. Rinviene, dando uno scossone al genere, quelle zone d’ombra che lo ammorbavano; ne mette a nudo i meccanismi, ne calpesta i punti di stagnazione, servendosi dei suoi cliché e tic per sradicarne la struttura.

Abbiamo Romeo e Giulietta. Il sepolcro. Il direttore di scena si giustifica di fronte ai cavalli che gli comunicano l’imminente distruzione: non può zittire la maschera e scendere nel sepolcro, scoprire il bluff. Che fare, dunque, con il pubblico?

Con un sapiente sabotaggio, il teatro di Garcia Lorca si distrugge da sé; basta un punto che salta, una chiave di volta: la scena si svolge, la storia, quella che conosciamo tutti, ha il suo compimento. Romeo. Giulietta. La coppia. L’amore. La morte.

Ma qualcosa non torna. Tutto va a rotoli: il pubblico si rompe, non riceve quel che credeva. Giulietta non si trova. Giulietta è un fanciullo. Giulietta c’è. Giulietta è Giulietta, ma Giulietta è un fanciullo. Giulietta è legata sotto una sedia, in mezzo al pubblico. Non c’è nessun pubblico. Giulietta è sul palco e recita. Giulietta è un fanciullo.

UOMO 1
Loro hanno paura del pubblico. Io so la verità, io so che non cercano Giulietta e nascondono un desiderio che mi ferisce e che leggo nei loro occhi.

CAVALLO NERO
Non un desiderio, tutti i desideri. Come te.

UOMO 1
Io non ho che un desiderio.

CAVALLO BIANCO
Come i cavalli, nessuno dimentica la propria maschera.

UOMO 1
Io non ho una maschera.

DIRETTORE
Non ci sono che maschere. Avevo ragione, Gonzalo. Se ci burliamo della maschera, lei ci appenderà a un albero come il ragazzo d’America.

GIULIETTA (piangendo)
Maschera! [2]

Reminiscenza platonica caricata di nuova, abbacinante luminosità, i cavalli portano avanti le istanze del desiderio, degli impulsi di natura erotica. Illuminano le ombre riempiendo tutte le fessure – dello spazio, del tempo, della parola e con il gesto – con il loro membro, in una penetrazione ricorsiva, inappellabile, nelle fibre del teatro che vengono ad aprirsi.

La maschera non è un oggetto. Quando è oggetto, la maschera non è una maschera, è una maschera coagulata, rappresa, si spazza con un rapido svolazzo della mano. La maschera che va tolta è quella che sta ovunque, ipertrofica, che non ricopre tutte le superfici ma costituisce tutte le superfici.

Una cosa è costretta, per apparire, a mimare stati strutturali, a immergersi in stati di forze che le servano da maschere. Fin dall’inizio investe già sotto la maschera, attraverso la maschera, le forme terminali e gli stati superiori specifici che ulteriormente porrà in modo autonomo. [3]

La maschera è liquida. Lorca s’impegna per sostituirla. Conosce bene la sua natura: è maestro dell’acqua, ne districa la dialettica: se l’acqua scorre, è vita, se si ferma è morte.

Nella raccolta Poeta en Nueva York (1929), il componimento dedicato al Rey de Harlem è tutto un agitarsi di suoni e di forme in accordo a ciò che viene definito «el insomnio de los lavabos»: forte e inarrestabile come l’acqua che scroscia «insonne», senza posa, il vitalismo che il poeta associa alla comunità afroamericana la designa come quella parte di umanità che può rovesciare il sistema disumanizzato e disumanizzante cui è preda la metropoli statunitense. Se l’acqua invece stagna, se smette di scorrere, diventa uno specchio de lo podrido, della morte:

 E resto con le mani vuote nel rumore della foce. [4]

Da qui la necessità di aprire tagli, far sgorgare: l’acqua, come il sangue. Così, nel famoso Romancero Gitano (1928), gli zingari sono trapassati da questa scia che è la loro pena negra, in un rincorrersi di vita e di morte, spargendo le strade di sangue come di lacrime. Il sangue è per Lorca il simbolo più significativo. In esso la dialettica tra la vita e la morte si ingarbuglia e riassume i suoi due estremi. Il sangue versato è, al tempo stesso, liquido sacrificale – devastazione, morte – e liquido incendiario – catarsi, amore.

Un proverbio arabo dice: il sangue è versato, il pericolo è passato. Il pericolo sussiste invece quando il sangue non perviene. Federico gestisce i simboli come punti salienti che riguardano ogni uomo, cui l’uomo risponde come a un patto antichissimo; affida al liquido rosso l’azione-rivoluzione. Ad esempio, in Poeta en Nueva York, incita la sua corsa furiosa in mezzo ai grattacieli e ai tentacoli del capitalismo, fino a farlo sfociare verso Wall Street con una possente imprecazione; lo lascia scorrere, lascia che aderisca ad ogni cosa per penetrarla e cambiarla di segno.

La maschera è liquida. La maschera è ovunque. La maschera è morale, è borghese; è un’ombra fasulla, ci sta dietro e ci anticipa. Lorca s’impegna per farla saltare.

DIRETTORE
In mezzo alla strada la maschera ci abbottona ed evita il rossore imprudente che talvolta affiora sulle guance. In camera, quando ci mettiamo le dita nel naso o ci esploriamo con delicatezza il sedere, il gesso della maschera opprime la nostra carne tanto che possiamo a malapena stenderci sul letto.

UOMO 1.
La mia lotta è stata contro la maschera, per riuscire a vederti nudo.

Bucare la maschera per vedere il corpo nudo. Soltanto la sete consente di praticare questo “buco”. La sete è il desiderio, l’Eros. L’autore è dunque una porta che si apre: el desnudo que amasa la sangre de todos.[5] Al suo petto, al suo torace aperto, riconduce tutto. È un flusso: il sangue va e viene, sale, scende. Opera. Il sangue circola. È questo il meccanismo da innescare, la rivoluzione.

Calma la sete di sangue di coloro che guardano il nudo.
Ciò che importa è questo: buco. Imboccatura
.[6]

Il meccanismo si innesca nella carne. La carne si può operare. Non l’aria, non il teatro, non la struttura. Sulla carne si agisce, e la carne si porta via tutto. Su. Giù. Il sesso dei cavalli cerca la «porta» di Giulietta. Per salvarla dal suo destino. La liberazione è qualcosa che passa attraverso il sesso. In questo modo, spoglia l’opera dall’ambiguità elisabettiana.

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Alex Rigola, El público (2015), Teatro Alhambra di Granada

Soglia

Federico colloca al centro del palco un paravento. I personaggi lo attraversano. Il codice impazzisce, si rivela. Usando la lente del surrealismo, possiamo dire: l’inconscio emerge – e non è uno ed è uno. Si può leggere, il codice è intermittente. Le interferenze sono il codice. Si possono leggere. Per Deleuze e Guattari: passaggi, soglie, gradienti.  Le intensità vanno costrette nel canale, affinché avvenga la trasformazione.

I TRE CAVALLI
Spogliati, Giulietta  […] vogliamo resuscitare!

L’amore può innescare il fremito che muove le fondamenta. L’amore-desiderio è il bisturi per l’operazione. Resuscitare è sacrificio. Sangue. Crocifissione. Il lessico, così come il sistema di rimandi, è biblico – evangelico – e blasfemo ad un tempo. Federico porta un nuovo messaggio, uno scarto maggiore, più radicale. Il suo amore non è quel sentimento cattolico con cui la Chiesa non fa che perpetuare disuguaglianza e repressione, non è quella «lama d’abbagli» con cui anche Artaud allude al Papa – Lorca neppure lo risparmia, chiamandolo «vecchio dalle mani traslucide» che, stordito, ripete «amore amore amore» – nelle sue invettive: è un’altra lama, più invasiva, più umana e spietata ed esatta. Riporta in superficie «il problema rimosso», «il segreto occultato»[7]. È un altro amore, questa lama. Federico la fa agire sulla scena: è membro maschile – la lama penetra – è desiderio – il suo, omoerotico, fino ad allora nascosto – ed è l’amore che rovescia il teatro, genere della finzione sublimata, buttandolo sulle ginocchia per mettergli in bocca la verità.

Bucare la maschera per bucare tutte le cose. Liberare il flusso. Se l’acqua stagna e muore, il sangue della morte agisce: dalla morte si muove e si rimette in circolo.

L’autore tocca un punto dolente e tutto si agita. Con un segno minimo, che scardina quel paravento posato in mezzo alla scena. Tutti passano attraverso. Tutti si spogliano, manifestano gli strati. Un trucco. «¿Quién pasa a través de quién?» Gli uomini – il direttore, Gonzalo, Enrique – sono una ballerina, un perverso dotato di frusta, una donna in pigiama che toglie e mette un paio di baffi.

Ma Federico vuole di più. Federico vuole arrivare al punto, toccare il nudo centro, il buco, la sottrazione ultima: Federico vuole l’ultimo. L’unico che può scomparire e portarsi dietro tutto è l’uomo ch’era già nudo, dentro e fuori. Lui che diceva: «Io non ho maschera» – era già tutti e nessuno. Senza soglie. Viene sopraffatto e si offre. Non potrebbe altrimenti. Ma non soffre. Gode?

Il desnudo abbandona per sempre la maschera, dall’inizio dell’opera. La scena simula l’interno di un teatro. In mezzo alla scena, sdraiato su un letto, accerchiato da infermieri, c’è l’uomo nudo. Un teatro, nel teatro, sta crollando. Il teatro si apre, si chiude, si apre. Bisturi.

NUDO
Quando finite?

(Sta per iniziare l’operazione.)

INFERMIERE (entrando rapidamente)
Appena cessa il tumulto.

(Su, giù, su, giù.)

NUDO
Cosa vogliono?

INFERMIERE
La morte del direttore di scena.

Lo zoom fa l’ultimo scatto in avanti.
L’autore è nel teatro – l’autore è l’uomo nudo.

INFERMIERE
Verrò con il bisturi per darti la ferita al costato.

(Il punto è quasi chiuso; quasi aperto.)

NUDO
Lo voglio.

(S’offre.)

Autore è chi opera il desiderio.
L’uomo nudo è sul tavolo, accerchiato da infermieri.
Dice:

NUDO
Ho sete.

 

Esito

 

 

 

 

Soltanto un mago dei fraintendimenti quale Indro Montanelli poteva arrivare a parlare della produzione teatrale del poeta granadino come di una sua «ambizione sbagliata»[8], inscrivendo l’autore in quella tradizione borghese cui egli apparteneva soltanto geneticamente e negando la portata critica e politica della sua opera, convalidando di fatto quella miope ricezione della produzione lorchiana che si ebbe in Italia.

Quando, nel 1951, scrive sul Corriere della Sera alludendo al «tradizionalismo implicito» dei suoi drammi, Montanelli confonde con il folklore l’ambientazione popolare di Bodas de Sangre, de La casa de Bernarda Alba, di Yerma (portata in scena in Italia da Marco Ferreri, NdR) senza coglierne il risvolto critico, la denuncia sociale specchiata nelle vicende delle protagoniste femminili. Ignora, inoltre, quello specifico enfoque che il Gruppo del ‘27 aveva nei confronti della tradizione. Muovendosi tra i due poli – tradizione e avanguardia – il gruppo surrealista formatosi nella Residencia de Estudiantes di Madrid agiva sulla prima senza scrupoli: prova ne sono le numerose sperimentazioni ad opera di Lorca, Buñuel e Dalí fin dal 1924, anno del rifacimento del Don Juan di Zorilla (1844), in cui venivano inseriti in un copione dell’Ottocento elementi anacronistici, come una moderna macchina da scrivere. Montanelli ignora, infine, Il pubblico.

Per mettere in atto il suo smascheramento, Lorca sottrae il Romeo e la Giulietta di matrice shakespeariana cambiando di segno la loro storia d’amore: sostituendo Giulietta con un fanciullo, utilizza la scena come una soglia, una porta tramite la quale far passare, aprendola, un desiderio omoerotico fino ad allora tenuto stretto nelle maglie della repressione.

Complice la censura del regime franchista, la storia delle rappresentazioni di El público prenderà avvio soltanto nel 1986, con la produzione di Lluís Pasqual i Sánchez messa in scena al Piccolo Teatro di Milano e nel 1987 presso il Teatro María Guerrero di Madrid, fino ad arrivare al 2015, con l’adattamento del Teatro de La Abadía di Madrid con la regia di Alex Rigola, di cui proponiamo i video e le immagini.

Tutto si confonde, ed è qui che si produce l’apertura.[9]

L’opera si articola – e disarticola – come ciò che l’analisi deleuziana definirebbe un viaggio in intensità fino a farsi ordigno, innescando, come un’operazione, la liberazione del desiderio: flusso che supera gli sbarramenti e i codici. Soltanto così l’uomo finalmente «si esibisce come uomo libero», come uomo del desiderio.

La tela sprofonda in se stessa, è trafitta da un buco, un lago, una fiamma, un’esplosione.[10]

Che fare quindi con il pubblico?

VOCE (Fuoricampo)
Signore.

VOCE (Fuoricampo)
Cosa?

VOCE (Fuoricampo)
Il pubblico.

VOCE (Fuoricampo)
Che entri.

Immagini e video tratte da El público (2015), regia di Alex Rigola
Teatro La Abadía di Madrid

ELENA CAPPAI BONANNI (Cuorgné, 1996) è redattrice della rubrica di poesia Poiein di «Neutopia». Laureata in Lingue e Letterature Moderne presso l’Università di Torino con una tesi sulla poesia e sul teatro surrealista in ambito ispanico, scrive poesie in italiano e spagnolo tendenti a un surrealismo a tratti insurrezionale, che si spinge a definire “insurrealismo”. Nel 2018 Chance Edizioni ha dato alle stampe la sua opera sperimentale Askatasuna, presentata lo stesso anno al Salone Internazionale del Libro di Torino. Dal 2019 fa parte del progetto di spoken word Spellbinder.

 


[1] V. Majakovskij, All’armata delle arti, 1921
[2] F. G. Lorca, El público, Alianza, 2000, cit., p. 100
[3] G. Deleuze e F. Guattari, L’anti-Edipo, Einaudi, 1975
[4] F. G. Lorca, Navidad en el Hudson, da Poeta en Nueva York, 1929
[5] Las muchedumbres en el alfiler./ El desnudo que amasa la sangre de todos, / y mi amor que no es un caballo ni una  quemadura./ Criatura de pecho devorado. F. G. Lorca, Luna y panorama de los insectos, ibid.
[6] F. G. Lorca, Navidad en el Hudson, Op. cit.
[7] A. Artaud, Al Papa, in Lettere ai prepotenti, Stampa Alternativa, 1999
[8]http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Montanelli_Lorca_intervista_mancata.html
[9] G. Deleuze e F. Guattari, Op. cit.
[10] Ibidem