𝙼𝚎𝚣𝚣𝚘𝚘𝚙𝚊𝚕𝚌𝚘 | 𝖨𝗆𝗉𝗋𝖾𝟣 [𝖦𝗂𝗅 𝖲𝖼𝗈𝗍𝗍 𝖧𝖾𝗋𝗈𝗇 & 𝖯𝖺𝗍𝗋𝗂𝗓𝗂𝖺 𝖵𝗂𝖼𝗂𝗇𝖾𝗅𝗅𝗂]

Olimpo (epiclesi)

Olimpo glorioso
dammi una Musa
prêt-à-porter

Olimpo borioso
dammi una Musa
che ti costa?

Olimpo glorioso
dammi una storia
che si racconti da sé.

A memoir

Ha addosso un trench americano
fumo-di-Londra e un punch cubano
nella mano, ha una sigaretta spenta in bocca
che aspetta di poter sputare fuori
fumo dall’ombra. Sopra il ripiano
i resti di un french toast e dagli angoli bui
la polvere si alza dal piano Rhodes e rompe
gli schemi del feng shui, lui
non ha più fame. Da almeno un lustro
ha esaurito gli stimoli dell’Harlem e son settimane
che esaudisce senza gusto il mare di stimoli
del suo harem, resta giusto
l’odore di catrame nella stanza che aleggia –
quello non scompare in un “amen”. Mentre albeggia
entra abbastanza luce dai buchi delle persiane
per illuminare il ciarpame che fa da mare
al suo cargo disperso al largo del letto dell’Hudson.

Lo scranno su cui poggia, adesso,
ha addosso l’aria di un animale in letargo
con il taglio alla Preston, e lo scettro
che gli occlude il palmo è il plettro
con cui accarezza sussurrando una Gibson Les Paul dell’84
di Jackson e direttamente da Jackson, Tennessee. Sì.

Suona “The Payback” di Brown, le note
zampillano unendosi al sudore sulla sua fronte
che lo riporta in prima linea al fronte
ai tempi della Motown, e canta
dandosi il La a 440, e ripassando a memoria
i vari throw-up di Manhattan come un mantra si ripete:

“Ascolta le note che pulsano.
Non senti il braccio che freme?
Non vedi le VENE maiuscole
che fungon da canto
delle sirene?”

Mentre l’accende prega. Sa che può farsi da parte
ora che la sua arte è un anthem e si è passati a Obama
da Reagan, con buona pace delle Black Panther.
Quel salotto è una sala d’attesa. Di prima facie
tutto tace tra i vicoli della grande mela.
Ormai è sera. La mano destra trema
in balia delle onde che riflettono frame
di “Ombre rosse” di John Wayne impedendogli
di riproporre alla perfezione “Faith” di Wonder
o un assolo qualunque di Coltrane. È un uomo solo.

È un uomo solo,
un uomo solo un uomo
solo un uomo solo
un uomo solo un uomo
solo. A pezzi,
è solo pezzi di un uomo, cosciente
che il solo porto di approdo
di ritorno dal vecchio continente
sia la rivoluzione che ha nella mente

e non sente le note che pulsano,
né ascolta il braccio che freme,
non vede le VENE maiuscole
che fungon da canto
di nuove sirene.

E accanto ai lividi preme, ha i brividi, beve
crede che ai bivi dei vivi ci siano due strade
che siamo proclivi a farci guidare
da spiriti altri da quelli dell’Ade. E adesso
che anche le note sono Blue Not(t)e
le sue vene son Veneri rare, Muse
da venerare nei cieli più neri di maggio
intonando al paesaggio le strofe
di “Venus de Milo” di Davis.

L’ultimo Sol è calante, al tramonto
è un soul in minore che non sente nessuno.
Le sole sirene che cantano adesso
son quelle del nove-uno-uno.

Non sempre ricordano

[1. non sempre ricordano]

Aveva un corpo da abitare
e una decina di riserva:
il primo di membra di carne
e gli altri di fughe da risme di carta

si trascurava come donna
tra le convulse riproiezioni di posti
analoghi ai mondi psichici,
luoghi di miti e miscomprensioni

Cantami invisa
d’amori scomparsi
d’archeologie di futuri minori
perdi la forma da corpo di donna
sebbene stai nuda cantando
carponi, che
c’è una piscina sul tetto del mondo
c’è una tempesta in piscina e sul fondo
soltanto si vive in apnea,
laddove seduta si trova la dea della calma
male agghindata e mangiata dal cloro
ventimila leghe sotto loro lei, seduta, lei guarda la spuma
che l’ombra proietta la luna sul bordo
e vede un’armatura
un’armatura fatta su misura
vede un’armatura
e nuota un’armatura
verso l’armatura
e prende l’armatura in mano, lucidava l’armatura
guarda dentro,  dentro l’armatura ed entra.
Dentro l’armatura entra,
sigillata dentro l’armatura
prega

[2. samurai]

Come una mela che si spaccacome seno di gravida comesole africano come mare che lambisce il corpocome uomo splendente nella sua forma di maschiocome donna radice del darsi in ogni impronta di voluta apertura

USALA quella carezza insicura,
appena impressa e poi rimossa da una pellicola peritura
protagonista di un mito in cui senza censura, si inarca il sesso e la schiena ne segue la curvatura
la posa statuaria nel marmo si fa misura e reale diventa anche quello che è oltre-natura
e montatura, però è animale e se non move l’ale pare
non sappia di averle preposte
non sappia di averne paura

per ritrovarsi a dimenarsi in un letto di serpi a Tangeri
a divincolarsi dagli orgasmi dagli accenti francesi
e nascondendo le bianche ali dentro una siepe di rovi
ha perso lo sguardo degli anni leggeri

[3. Morocco made]

dallo sguardo sulla costa
si riflette l’ombra nuda
della via che porta a casa
che lei si dimenticò

con uno spasmo della faccia
con lo zigomo indicava
la via per tornare a casa
con un gesto la salvò

Per vie ritorte vanno le menti sane
percorrono i calanchi di rughe
gincane, danno sembianze umane, come
vi fosse nata, la maschera butterata
segnava il percorso agli occhi
con voglia di spade
ma se gli indizi della rovina non si allontanano
dall’area rossa, dove il petto richiede calma
la mano disegna sommossa, e se la scossa
non è di elettricità la vena crede condurrà
in modo almeno sufficiente
a dimenticare il niente che arreda il riad
e veste questa gente, condividendo
sfocature, alimentando le apparenze
maschere sostitutive di quelle paure
per cui ritornare significa darsi alle sentenze.

Percorrendo volute di fumo
cascate di tè marocchino
il corpo nudo le perde contatto
ed attraversa
la storia
meravigliosa breve
già data irraccontabile
col metodo sensibile
con metodo
con metodo
la beve

_Mezzoopalco
_Testi e voci: Toi Giordani, Riccardo Iachini
_Beat box: Mollo Beats
_Costumi: En Kružíková
_Opera: En Kružíková e Elisa Capucci
_Video: Frameless

Sulla questione del poetry slam

L’avvicinamento al mondo del poetry slam rappresenta una piccola, traumatica sconfitta personale. Spesso mi capita di rivedere, nelle facce stranite e un po’ deluse sparse per il pubblico allenato alle serate di poesia, la stessa faccia che avevo io quando, appena uscito dal tropico dell’aula studio per una meritata birra, mi trovavo per le prime volte di fronte all’orgiastica ed esplosiva miscela di due tra le cose da cui mi sento più umanamente ed esteticamente distante dell’universo tutto: la rap battle e il talent show. Tutto questo applicato alla cosa che è stata la più tenace e coriacea tra tutte le mie testarde passioni e ricerche: nemmeno a dirlo, la poesia.
Più che un agone, un gran magone. Un minestrone riscaldato e indigeribile. Dopo la fine del piacere del testo e la ricerca del fastidio letterario, il vettore torna indietro raggiante, si fa scherzoso, trendy, gradevolissimo sottofondo di chiacchiera da votare in decimale.
Crolla tutto. Anche qui. Eppure la Storia, per quanto sbriciolata nella modernità e amalgamata ed emulsionata dalla manona capitalistica, qualche sostegno ce lo dà, oh noi delusi.
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