Posava lo sguardo sul bordo screpolato della finestra. Immobile, privo d’ogni facoltà cognitiva.
Oltre, i palazzoni grigi e le bestemmie degli spazzini gli rendevano omaggio, mentre la vita riprendeva in quello che sembrava il suo ultimo respiro.
La sveglia gli urlò contro e lui ritornò in sé. Giorgio s’era alzato con la solita flemma. Mentre si vestiva gli era venuto da guardarsi allo specchio, soffermandocisi. Strizzava gl’occhi. “Forse è paura”, pensò. Allora prese, e si buttò per strada.
I viali ingrigiti gli sussurravano cose e lui s’era talmente imparanoiato che non ci stava col cervello.
Odiava severamente quello stato, e odiava essere troppo sensibile; eppure, allo stesso tempo, lo amava perché lo considerava un super potere in grado di renderlo puro, vero e sincero.
Tergiversava. Passo dopo passo, dondolandosi col pensiero, gli venivano flash in testa tipo il revival delle vagine pelose come simbolo d’emancipazione femminile, e ci si soffermava. Ci pensava e pensava alla genesi dell’atto, e poi passava all’insicurezza degli uomini legata al decadimento del patriarcato, che però ancora temporeggiava nel femminicidio; la messa in discussione della mascolinità e tutte le stupide forme d’odio da essa suscitate; la desensibilizzazione ad opera della pornografia verso il rapporto con la sessualità e il corpo – coi cazzi enormi, eretti come colonne elleniche su seni marmorei, riposti in corpicini rachitici, modellati da qualche Egon Schiele che, occasionalmente, percepiva il sublime della perversione carnale su Instagram. Poi ricordava i cinici semianalfabeti pro-Forza Nuova, le loro campagne a sfondo razziale, la loro fastidiosissima disinformazione propagandistica; della Meloni che cagava il cazzo con le sue burattinose troiate filo-cattoliche, quel damerino di Draghi che faceva proselitismi manco fosse Tom Cruise evangelista di Scientology, e tutta la politica del Paese che gli reprimeva il fiato. Così passò subito agli adolescenti complessati e alle loro sventure amorose, che gli usavano doler meno la testa – e di cui si sentiva di far parte.
– Schiaffati per una realtà impropria, e dunque privati del loro candore – orava interiormente.
Si fermò alla fermata della corriera quando improvvisamente la pioggia incominciò a batter cassa sugli affanni della gente. Un piccolo e corpulento velo collassava a lato della pensilina. D’improvviso, stormi da una parte all’altra dei marciapiedi, camminavano.
Ancora quei corpi nudi, quei genitali esposti in bella vista come prodotti da banco.
Rabbrividì.
Giunse il 18 con 5 minuti di ritardo. Salì, e si recò a lavoro.
– Ok! Il numero 15 ha ordinato un “Fatbelly” con patatine, possibilmente senza il pomodoro e i sottaceti, insieme alla salsa speciale, con, se è possibile, carne vegana.
– Mo’ glielo faccio. Intanto porta questi, va’.
La cucina puzzava, la sala faceva schifo, e Il forte brusio sommesso ai martellanti ritmi rockabilly e la puzza di fritto, padroneggiavano l’intero locale.
C’erano luci che saturavano ancor di più quello squallore.
– Scusami! Abbiamo ordinato un quarto d’ora fa e non è ancora arrivato niente! Se non arriva da mangiare, noi ce ne andiamo, eh!
– Mi scusi, siamo oberati di lavoro questa sera. Chiederò in cucina.
Giorgio si sprecava come si sprecano saggi consigli agli stupidi, e seppur tollerasse poco la cosa, se la faceva andare come si faceva andare quella bettola.
Ma là dentro si poteva trovare di tutto: da omuncoli grezzi, superficiali ed omertosi a stronzissimi uomini d’affari; famiglie con la necessità di staccare dalla vita agra, ai sempliciotti maschilisti e pervertiti, e dove c’erano loro, c’erano anche frivole, ruffiane e compiacenti fanciulle che a questi miagolavano sia l’alcool che il cazzo; vecchi teppisti disadattati; dissidenti mentali; poveri disgraziati; gente depressa e semi-normali appassionati della pop cultura americana.
– Giorgio! Hai già mangiato tu?
– Non ancora. Ma posso aspettare, anche perché qui sembra ci sia bisogno.
– Vai tranquillo! Mangia, tanto qui la situazione è sotto controllo.
– Okay. Tu hai già mangiato?
– Mangerò dopo di te!
Elena era una delle colleghe del posto: Giorgio non aveva mai sentito una vera amicizia con lei, poi lui era perlopiù schivo, non di certo un gran conversatore. Il più delle volte provava una fitta e desolante noia quando gli si parava l’occasione di chiacchierare con persone poco stimolanti; magari anche con una buona cultura, interessi in comune, ma brutalmente normali. Tuttavia, con Elena sorse una reciproca consapevolezza di loro stessi, tramutatasi poi in una stima quasi del tutto reciproca.
Lurido, il panino sul piatto gli suscitava solo vomito. Pallido, il sole versava verso est, sporcato a tratti da qualche nuvola.
Un vento sottile gli fischiò tra le incavature delle orecchie, lasciando i capelli ondeggiare come steli di grano rossastri. Oceani verdi gli s’intrufolarono nell’anima: avrebbe voluto gettar via quello schifo, il grembiule e abbracciare quel senso che lo chiamava, correndogli addosso, spogliato d’ogni peso superfluo e nuotare, defluire come entità extracorporea, brandendo pacifico la cresta di quel fluido smeraldo che costeggiava il confine tra desiderio interiore e il costante crescere delle incertezze.
Fomentava desiderosa la voglia di libertà, ed essa, più di ogni altra cosa, era la sua unica compagnia.
Terrorizzato dal possibile fallimento di tenere fede a quell’esigenza, venne assalito dal mal di testa.
Desiderava andarsene, ma non ebbe voglia manco d’alzarsi.
– Com’è il panino?
– Buono.
– Io avrei preso qualcosa di più leggero.
– Avevo voglia di mangiare male.
Lei rise.
– Capisco… ‘Stasera c’è un casino di gente!
– Si, ‘stasera non si può vivere…
– Comunque non ti ho chiesto come stai, oggi.
– Come sempre, Ele… Sempre la solita storia.
Elena si volse, ed osservò con adeguata attenzione lo sguardo crucciato di Giorgio, come si fa con chi si vuole bene: con premura e preoccupazione.
– Giò, c’è qualcosa che non va?
Un sospiro fondo uscì dal butterato naso arrossato, come segno di resa.
– Solite cose… Tu? Come stai? Cosa racconti?
– Nulla di che, solite rotture di coglioni…
– Immagino… Mi dispiace.
Lei gli si posò di fianco, sul parapetto della scalinata che portava alla cucina del ristorante. Immobile, irrigidita nell’impaccio di un momento così fastidiosamente silenzioso.
A Giorgio interessò relativamente la forzatura d’intavolare una conversazione proprio in quel momento, perché gli crebbe dentro come una foce di fumo denso: il bisogno vitale di spegnersi e distaccarsi da ogni cosa, anche se sapeva bene quanto danno gli stesse recando.
Il silenzio divenne sempre più solenne; l’aria leggera che trasportava il sapore di terreni concimati con merda fresca gli cullava il cervello. E in poco tempo prese vita un discorso così eloquente quanto animato.
Il sole, intanto, s’intimidì.
– Abbiamo anche bisogno delle persone, per poter sbagliare e crescere…
– Cosa?
– Ah, niente. Pensavo a voce alta.
Quel cenno d’emotività scosse Elena sino al midollo. Non aveva mai avuto il piacere di percepire così direttamente l’umanità di un ragazzo che, per quanto si sforzasse di conoscere, non gli aveva mostrato alcunché di umano fino a quel momento.
Si ritrovò ancor più rigida e bloccata di prima; sentiva che quell’intimità era rara: troppo delicata da trattare così a cuor leggero. Gli pareva una confidenza estranea, immeritata, che automaticamente la portava a sentirsi tale, oltre che terrificata dalla responsabilità che avrebbe avuto se solo si fosse azzardata a proferire stupide parole di circostanza.
Gli partì come una molla, l’ansia di pesar bene le parole. Tese la mano sulla spalla, palpandogliela con malespressa gentilezza. Fischiava il vento.
– Mi dispiace, caro… ma la vita è fatta anche così.
A quella frase, sorse in lui una repulsione psicofisica. Si faceva schifo. Lo schifo gli salì su, fino a vestirgli la pelle del cervello come un abito di sartoria cinese: stretto, orticante, cancerogeno. Sentì la debolezza d’essersi mostrato così vulnerabile di fronte a una persona che evidentemente non lo capiva, vergognandosene. Irrigidendosi dentro di sé, dove nessuno si sarebbe preso il disturbo di comprendere quel mutismo distaccato.
Capì d’aver detto una cazzata, emettendo versi d’imbarazzo. Scivolò via la mano dalla spalla, ritornandosene a lavorare.
Lui rimase lì, a contemplare il crepuscolo. Gli sembrò di essere più vuoto che mai. Nel frattempo, calò un’amarezza muta, portando a sé domande di cui non avrebbe ricevuto alcuna risposta. Infine, giunse nuovamente il silenzio. Esalò il fiato; s’alzò ricomponendosi, e se ne rientrò dentro.
Di ritorno verso casa, decise di camminare per il centro. Ne approfittò per levarsi la brutta sensazione che sentiva dentro, immergendosi nel pallore di quell’atmosfera festosa, dove ampie volte itteriche e vivaci lucine sostituivano il cielo stellato.
Il marciapiede continuava a farsi scalfire dal tempo e il brusio soppiantava il fischio del vento.
Abbandonati come bici scarnificate ai pali, i barboni.
Camminò tra la folla, e volgendosi l’ammirò in severo silenzio.
Rivide l’apparenza così benvestita e ne cercò lo spirito, il senso, domandandosi se quella gente avesse mai messo in discussione se stessa, i propri costrutti e quella finta sicurezza che gli mascherava la faccia. Camminavano; lui con loro.
Giunto alla fine della via, svoltò frettoloso l’angolo, addentrandosi per un budello umido, squallido, disseminato di pozze rancide grandi quanto laghi, e luci fioche di appariscenti neon.
Il tanfo assillava quanto i venditori del Folletto. Una fredda decadenza gli colse lo stomaco.
Intanto, in lontananza, un suono sordo attirò l’attenzione, avvicinandolo. Vide una porticina nascosta da edere secche. S’intrufolò.
Gl’occhi s’aprirono in fronte ad una corte diroccata, vuota, confitta da erbacce incolte ed antiche mura fatiscenti che quasi imploravano di venir buttate giù a sassate.
Si guardò attorno. Echi d’acqua illuminavano l’anima di quel luogo umano, percependone vita.
In quel deserto, in cui tutto il fragore della città pareva una carezza votata a lenire le crisi dei cristi perduti nelle trappole del proprio cervello – senza essere in grado di uscirne – ragione e coscienza sparivano. Si perse il senso d’identità, genere e razza, sciogliendosi tra canali del corpo, iniziando a espellersi come spora batterica, perdendo densità, definizione, linearità e confine.
Chi ci finì dentro, di sicuro non lo fece né per scelta e né per volere del destino, ma nemmeno per caso.
– Hai mai visto Tacchi a spillo di Almodovàr?!? Hai mai visto Tacchi a Spillo di Almodovàr?!? – vociferava malamente un punkabbestia.
Continuò a farsi guidare dal suono che cominciò a sentirsi più forte.
In fronte a una transenna, oltre il porticato, stazionava un tipo.
– È venuto per la serata? – disse accomodante.
– Io in verità volevo farmi due passi.
– Allora prego, la vorrei invitare ad assistere ad uno spettacolo teatrale d’avanguardia, preparato da una giovane artista molto valida!
– Va bene, tanto non ho niente di meglio da fare. Ma devo pagare?
– No. Questa sera si svolgeranno solo delle prove. L’ingresso è libero.
Entrò, guardò lo spalto e ci si accomodò. Dal giallore delle lampadine, sempre più fioco e lieve, mura scrostate ed umide, fatiscenti come il buio che giunse, rotto solo da un lieve brusio.
Irruppe una lunga e vibrante fiamma.
– Ed ora, l’interpretazione artistica della giovanissima Kore. Grazie.
Posata su di una lastra di legno, leggiadra, iniziò a vibrare. Vibrava e vibrava, come una membrana cianotica, al ritmo di rumori serrati e compulsivi che contribuivano a propagare un senso piacevole di disagio.
Non la si brandiva, né si coglieva.
Corse così avidamente dentro quel momento che non diede modo di razionalizzare nulla, ma andò bene così, perché ci si sentiva tranquilli trascinati dai rimorsi e dalle titubanze sempre più fitte, folte e consapevoli di star sprecando la propria irrealtà sempre più ulcerosa.
Lei, intanto, tenendoli al guinzaglio come cani, così da lasciarli che si bagnassero di fioche illusioni, rimase splendida. Pur piegata nella sua danza macabra a ringhiare la propria neutralità, rimase se stessa: libera da regole, doveri, vite destinate ad abitudinarie azioni; scevra d’empatia e costrutti idealistici.
Lei, in lei: libera, di una libertà esistente.
Continuò per una decina di minuti, dopodiché terminò.
La gente rimase immobile. Aspettò diligentemente il ritorno delle luci per poi alzarsi, piangere moderatamente, ringraziare ed andarsene. Giorgio pure, ma rimase ancora seduto. Chiuse gli occhi. Meditò qualche istante, con lo sguardo fisso sul rigoletto verdastro di un muro.
Scoprendosi, infine sorrise. Si sentì.