Alberto Dubito: un libro che si ascolta

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Alberto cammina accompagnato dal ritmo dispari delle bombolette spray nello zaino. Lo appoggia. Guarda il muro, immaginando il bombing imminente. Inizia a dipingere.
Dubito canta un pezzo, Sospé manda la base e suona i synth. Ecco che urla sillabe molotov dal microfono; una scritta prende forma su un muro della periferia arrugginita.
Il fumetto di Claudio Calia è costruito sull’alternanza di due momenti, esecuzione e scrittura. Ovviamente le tavole si leggono prima dei testi, nonostante siano a metà della foliazione. O almeno così ho fatto io, appena ho preso il libretto in mano.
Santa Bronx (Squilibri, 2018) è un libro ‘necessario’, accompagnato da un cd curato da Dr.Sospè, al secolo Davide Tantulli. La selezione dei tredici brani con testi dei Disturbati dalla CUiete offre uno spaccato puntuale e agevole per orientarsi nella vasta produzione di Alberto Dubito, poeta e rapper trevigiano scomparso a ventun anni, nel 2012.
Le poesie sono state riportate a partire dai file originali conservati nel suo computer; poiché Alberto non aveva pensato ad approntarne una versione per la stampa, i testi sono quelli che utilizzava per le sue performance. Per questa ragione, si presentavano ricchi di una serie di diacritici e maiuscolature, utili per la loro esecuzione. Questi segni disturbavano una lettura scorrevole, pertanto in questa edizione il testo è stato normalizzato e si presenta diversamente da Erravamo giovani stranieri (Agenzia X, 2012), la prima antologia di testi e immagini pubblicata postuma e divenuta un long seller. Lo stesso destino che aspetta questa piccola, importante, pubblicazione, da pochi giorni in libreria.
L’invito è di seguire Canzoniere, la nuova collana di poesia, musica e immagini di Squilibri, un’ostinata e particolarissima realtà editoriale che potete conoscere meglio qui, e che ringraziamo per la gentile concessione delle tavole e dell’estratto dall’introduzione di Lello Voce, intitolata Dubito e l’archeologia del futuro:

È difficile tentare l’analisi di una produzione insieme così tanto ‘precoce’, ma, per altri versi, del tutto matura come quella di Alberto Dubito e dei Disturbati dalla CUiete. Quello che rimane tra le mani – a causa della brusca interruzione della loro attività – è come una serie di tasselli di un’unità esplosa: alcune parti sono rimaste visibilissime, altre probabilmente sono irrimediabilmente perdute. Il fatto poi che l’edificio di cui si parla non fosse affatto completato, ma avesse, di contro, fondamenta solidissime e un profilo ormai ormai spiccato, e sempre più riconoscibile, non fa che complicare le cose. Ciò che toccherebbe fare allora sarebbe un’archeologia del futuro, un paradosso, quanto di meno prevedibile e ‘filologico’ si possa immaginare. Vale dunque la pena di provarci, a piccoli passi, ma con la certezza che tutto terminerà, per il critico, con uno scacco. Anzi, proprio in nome di questo scacco e come sgarbo scaramantico a ogni filologia. Tenterò dunque soltanto una prima ricognizione, a partire da un topic certamente decisivo nella produzione di Dubito e che probabilmente non è solo un topic, un ‘contenuto’, ma è anche un suggerimento formale prezioso per avvicinarsi al nucleo caldo delle parole e delle musiche, delle performance di questo giovane artista e del suo complice, Dr. Sospè. Mi riferisco alla ‘periferia’, che torna ossessiva in tutta la sua produzione, direttamente chiamata a comparire, o allusa, implicata, celata sotto le mentite spoglie di questo, o quel panorama esistenziale, prima di tutto quello trevigiano, del quartiere operaio e ‘zigano’ di Santa Bona, da lui ribattezzato Santa Bronx  […]

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Tavole di Claudio Calia, testo di Lello Voce, da Santa Bronx, (c) Squilibri 2018

Diluvio ed esposizione universale

Milano, 1 agosto 2015

Vi scrivo da un sottotetto di porta Venezia, dove fortunatamente vivo. Oggi son tre mesi che piove ininterrottamente sulla pianura padana. Il tg dice che l’acqua ha raggiunto l’altare del Duomo. Ha iniziato a piovere il primo maggio, giorno di inaugurazione dell’Expo, e non ha più smesso, con una media di più di tre centimetri d’acqua al giorno. Nutrire il pianeta è il sottotitolo dell’esposizione universale, e il pianeta Terra ha voluto prenderci in giro o forse sottolineare quanto lo stiamo sfruttando. Le ultime colate di cemento su Milano hanno coperto gli spazi verdi residui, gli unici in grado di assorbire l’acqua. L’asfalto ha fatto da fondale dell’immensa piscina che è diventata questa città. Dalla finestra osservo il canale Buenos Aires, finalmente libero da insegne e turisti; in lontananza si vedono spuntare le chiome degli alberi del parco di Palestro, private dei tronchi, come fossero mangrovie.
Tutti gli abitanti degli scantinati e dei piani terra si son dovuti trasferire; i prezzi delle case dal secondo piano in su sono schizzati alle stelle. I più ricchi, insieme ai catastrofici, si stanno accaparrando gli ultimi livelli dei grattacieli; i senzatetto hanno occupato la Torre Galfa, vicino alla stazione Centrale. I più lungimiranti, tra cui il sottoscritto, hanno acquistato una canoa gonfiabile da Decathlon in piazzale Cairoli, poco prima che venisse sommerso insieme alla rete della metropolitana. I primi giorni era bello vedere il fossato del Castello pieno d’acqua; da piccolo credevo che gli Sforza ci tenessero dei coccodrilli.Continua a leggere…

Triplice fischio


Nacqui terzo di nove fratelli, dopo la guerra. Mio padre raccontava la vastità del deserto libico, una vittoria degli inglesi, la cattura e la prigionia durata sei anni. Mamma l’aveva aspettato. La prima volta che ho conosciuto un inglese volevo tirargli un pugno, da parte di mio padre. Poi ho pensato che la colpa non è genetica e ho lasciato stare. Però non mangio fish and chips e disprezzo profondamente la regina Elisabetta e i Beatles.
Con i miei fratelli e i picciotti della vanella giocavamo a pallone in un campo pieno di pietre. Prima di ogni partita ne toglievamo sempre un po’ ma sembravano essere infinite. La terra era grossa e dura, la palla di stracci si sfaldava, le porte di legno cadevano a ogni tiro, era quasi impossibile giocare. A me non fregava niente, tanto arbitravo. Ho sempre fatto l’arbitro, per mia scelta, non so dirvi il motivo; volevo mettere ordine, regolare. Non è un’attitudine da sbirro mancato, come pensano tutti. L’arbitro non prende ordini da nessuno. È semplicemente Dio, per novanta minuti più recupero, decide chi e quanto punire, chi perdonare. Decide l’inizio e la fine.

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