Debito è il primo progetto dei MORA, duo formato da Sebastiano Mignosa (voce e testi) e Daniele Bettini (pianoforte) che è stato tra i finalisti dell’edizione 2021 del Premio Dubito. Dotato di quell’impatto lirico della spoken word più orientata verso il territorio performativo degli slam, l’album viene presentato come un concept che tenta di descrivere il rapporto tra una persona ed il contesto in cui vive cercando di sottolineare le dinamiche di potere e coercizione del singolo dettate da un senso di colpa contestuale che, spostato dal suo significato più cattolico, prende nuova carne nelle dinamiche capitalistiche. Le varie tappe esplorate nel concept cercano di tirare un parallelo tra le fasi di un prestito bancario che, partendo da un debito da ripagare, arriva alla fase di scaricarlo sulle generazioni successive, e le fasi di una storia d’amore in cui un ragazzo diventa simbolo di un’intera generazione e una ragazza simboleggia la città ed il sistema sociale in cui questa generazione è immersa. Il tutto nella cornice di un mondo distopico, descritto nella prima traccia del disco che ospita la voce di Soulcè come quella di un narratore esterno in posizione nettamente opposta allo sguardo dei testi recitati da Mignosa, immerso in prima persona in questo scenario in cui il cielo è stato privatizzato e della cui vista, quindi, solo i più ricchi possono permettersi di godere.
Ad un ascolto vergine di questi rimandi, l’album scorre molto fluido tra la penna immaginifica di Mignosa e gli interventi di sonorizzazione che ne sottolineano forse persino troppo pedissequamente l’evoluzione della sua interpretazione (che nei momenti più trascinanti riesce a riportare quel bebop vocale tanto difficile da ritrovare in ambito spoken, ma che per il suo uso del volume tipico di un approccio solista al microfono rischia di appiattire le dinamiche vocali a un oscillare bidimensionale tra l’urlare frasi ad alti bpm per i momenti più concitati ed il rallentare in una parlata più calma e posata quando si passa a scene a più ampio respiro). Le tracce, intervallate da campionamenti di origine varia (da Nanni Moretti ad Alberto Dubito, influenze tematiche richiamate anche all’interno delle composizioni di Mignosa), creano quadri in cui il lirismo dei testi si permette di spostarsi tra eventi più personali e descrizioni generali, mentre l’approccio al pianoforte di Daniele Bettini, figlio di un minimalismo di chiave einaudiana che fonda sulla modularità il suo apporto, riesce a creare una varietà di scenari tale da chiarificare il tono plurale del racconto – salvo poi, per consentirsi di arrivare al termine di un modulo in cui la voce ha danzato libera, portare un po’ forzatamente la stessa a ripetere lo stesso verso di chiusura più volte, con esiti in alcuni casi molto efficaci, altre volte un po’ forzati. La scelta, presentata dal duo, di partire dal testo finito per ricercare seguentemente la resa musicale, in casi come quelli sopracitati mostra ogni tanto i limiti di un approccio creativo top/down che però, in questo specifico caso, regala anche soluzioni molto musicali (come i fraseggi in Debito o la chiusura di Ancora), sebbene il ruolo musicale spesso risulti subordinato anche nella sua personalità, nonostante l’ottimo lavoro di Bettini. Le suggestioni del duo, in ogni caso, creano un quadro in cui l’ascoltatore che approccia quest’opera può ospitare istantaneamente le proprie sensazioni, shiftando più volte tra le diverse chiavi di lettura, ed in questo si svela la precisione del ritratto generazionale tentato nel testo.
Le stesse interpretazioni presentate dagli artisti, però, rischiano di confondere l’efficacia del lavoro in un tentativo di collegamento tematico che talvolta sembra essere più costretto che naturale, portando a cerebralizzare troppo un flusso che, nella sua naturalezza, riesce a dipingere perfettamente le tensioni, ogni tanto sociali, ogni tanto personali, che emergono dal testo e dall’interpretazione di Mignosa. Il parallelismo che viene espresso tra il ruolo della voce come simbolica del ragazzo all’interno della relazione sentimentale e della musica come simbolo della compagna, ad esempio, se letto alla lettera rivelerebbe una visione non particolarmente paritaria di questo rapporto, visto il ruolo molto poco autonomo della musica, perlopiù utilizzata come amplificazione del mood di un testo che solo in pochi casi è in dialogo non esclusivamente metrico con essa, e ancora meno spesso le concede un ruolo autonomo. L’affastellarsi di queste chiavi rischia in qualche modo di impoverire la potenza di ognuna delle singole immagini, nonostante la loro forza immaginifica (come lo scenario del cielo in vendita, presentato come contesto e fulcro della narrazione nella prima traccia, che finisce per perdere molta forza nel resto del disco). Tuttavia, come tracce generali, queste indicazioni possono essere una buona ripresa per chi, al primo ascolto, possa aver perso alcuni di questi riferimenti all’interno di un’opera che costruisce, anche in questo gioco di specchi e rimandi, una sensazione molto chiara di perdita di focus all’interno di una società sempre meno a misura d’uomo.
DEBITO – La volta che non ci siamo restituiti gli sguardi
Prendo le redini della storia degli uomini
che nascono indebitati fino al collo
e dei loro colletti bianchi che s’ingialliscono
come le mie dita di freddo blu Winston. Scrivo
di una città invisibile come la mia faccia e fragile
come noi, come i tuoi occhi presi in prestito
alla solitudine. Dubito e scrivo cantilene
per la voglia di rime dette male e la maledetta
voglia di rimanere vivo e se Nessuno ascolta
butterò semi al vento così magari fiorirà il cielo
come in Dillo un’altra volta, Primo.
Le emozioni giacevano comode nelle tasche vuote
dei sentimenti che vestivano salopette sporche
della paura di non valerne la pena. Ancora.
Tornavano di moda come le ronde nere
nei paesini di provincia e spogliavano
ciò che rimaneva di noi per abbottonarsi
sopra a vestiti paranoie. Tu, come altre, sparivi
tra parole e scuse al miele e rimanevo solo a sfogliare
un altro cielo dépliant di opinioni su come sarà il tempo
domani. Tiravo, come al solito, il filo della tenda
dalla parte sbagliata.
Dalla parte sbagliata crollavano promontori di promesse
artificiali sui cadaveri delle vostre storie d’amore
marce, sulle bugie di tutte queste banche di sangue
sui vostri cuori presi a rate e sui loro vuoti emotivi
da riempire il venerdì sera, sulle voragini da lexotan
sui frantoi di questa sanità pubblica. Crollavano lenti
su questi sentimentifici ai metalli pesanti, a ritmo
di minuti di silenzio nero su un’altra cattedrale sorda
sulle omelie dal rumore bianco bara, su un’altra infanzia
che paga le vostre rate in mora! Ssshhh!
Scrivo di un silenzio reduce da un senso di colpa
che non lascia perdere, l’ego si lascia vivere
in quarantena appeso al filo della rabbia, macchia
di sete le camicie bianche se non guardi bene
e fa stalattiti satellite delle lacrime di un salice
e pozzanghere calme del mio sguardo incerto bora verde.
Dal mio posto qualunque accarezzo la fronte a un altro
giorno che non mi conosce ancora e se la vita è un debito
la mia poesia è la mora. Vorrei un tramonto di mercurio
che si schiantasse subito e lucido, grigio e definitivo
anche su di noi che continuiamo a prenderci in giro.
Quando mi chiedi come faccia tutto questo perdere
a lasciarti sempre qualcosa, io ti rispondo con le mie tasche
vuote. So che mi lascerai ancora e ancora e ancora e ancora.