La sistole nel nostro cuore | A caccia di scarafaggi e di re coi Baustelle

Elvis dei Baustelle è un album che mescola sapientemente sonorità pop, rock e blues, dando vita a un lavoro fresco e retrò allo stesso tempo. Le melodie accattivanti accompagnano i testi, spesso malinconici e nostalgici, che riescono a fare breccia nel cuore degli appassionati. Ogni canzone è un piccolo teatro di emozioni, come “La nostra vita”, una ballata commovente in cui l’amore è una scritta al neon, o “Contro il mondo”, che racconta l’essenza di questi tempi amari. Il sound ricorda in alcuni momenti la musica degli anni ’80 e ’90 dei Pulp, ma il tutto è rivisitato in chiave moderna e originale. Spesso fanno capolino, complice il cambio di line-up, sonorità anni ‘60 e riff beatlesiani, come sottolinea il videoclip di “Milano è la metafora dell’amore”. In definitiva, “Elvis” è un album che non delude le aspettative dei fan e che segna il ritorno dei Baustelle ai loro temi più politici. Ne abbiamo parlato con Rachele Bastreghi e Francesco Bianconi.

I Baustelle. Da sinistra, Rachele Bastreghi, Francesco Bianconi, Claudio Brasini

Ciao Rachele, ciao Francesco. Innanzitutto, come state?

Bene, grazie.

Nel vostro nuovo album, “Elvis”, avete dato al vostro sound una virata decisamente rock n’ roll. Chi sono i vostri nuovi musicisti?

Rachele: Pur avendo fatto generi diversi negli anni, l’attitudine rock l’abbiamo sempre avuta. Io stessa quando sono entrata nei Baustelle – più di vent’anni fa – avevo insieme una fascinazione e una diffidenza per quello che facevano. Però gli serviva una voce, quindi eccoci qui dopo tutto questo tempo a parlarne. Questo disco rispetto ai precedenti ha sicuramente un’anima più soul, passando anche per la musica nera, per il gospel e per il blues. Abbiamo attraversato generi con i quali non ci eravamo mai confrontati e ci siamo detti che per il nuovo album fosse necessario rivoluzionare tutto, e così è stato.

Francesco: Non solo, è stato un disco che a differenza degli altri è partito da un bisogno comune di esprimere delle cose a partire da quello che i nostri lavori solisti ci avevano lasciato dentro, suonando insieme in sala prove, senza congetture o decisioni a priori. Non c’è stato un concept, come in Fantasma, nel quale si parlava dello scorrere del tempo, né un’impronta forte come ne L’amore e la violenza. Tutto si è amalgamato liberamente. Abbiamo voluto fortemente questo nuovo sound perché la musica dei Baustelle è sempre stata in divenire e stavolta – complice la lunga pausa dovuta alla pandemia – abbiamo fatto ampio uso di sessioni aperte con Claudio Brasini e i nostri nuovi compagni di viaggio, molto bravi e molto giovani, che hanno partecipato anche ad alcune fasi di arrangiamento e di scrittura dei brani: Alberto Bazzoli (piano e Hammond), Lorenzo Fornabaio (chitarra elettrica e acustica), Julie Ant (batteria e percussioni) e Milo Scaglioni (basso e chitarra).

Più che a Elvis, in molti brani sembra che strizziate l’occhio ai Beatles del “White Album.” A cosa dobbiamo questo revival anni ‘60?

Rachele: Elvis è la rockstar decadente per eccellenza. È come una parabola discendente, che ha il suo apice e poi cade, con tutto quello che sta in mezzo. Come la vita.

Francesco: Da ragazzo amavo molto quel periodo. Poi ovviamente cresci e ascolti altro, però ci siamo resi conto di avere un debito non ancora chiuso con i Beatles, anche se ovviamente poi accetti che sia esistita anche la new wave, la black music, l’elettronica. Volevamo darci qualche riferimento che oltre al rock n’ roll venisse dal vecchio blues. Questa è l’attitudine che unisce tutte le canzoni.

Il Re era solito affermare “quando non puoi dire qualcosa, canta.” In quest’epoca di “fascismo e squallore” per voi è la stessa cosa?

Francesco (ride): Da alcuni passaggi in quello che abbiamo scritto si capisce che non siamo proprio “filo-governativi.” Anche se gli altri mi prendevano in giro, quando ho proposto il titolo per Andiamo ai rave tutti mi dicevano “ma dai Francesco, che parola desueta!”, invece un mese dopo l’insediamento del nuovo governo tutti i giornali titolavano quella parola. È così facile trovare materiale di questo tipo in questo periodo, che il nuovo disco è venuto fuori quasi da solo, con tutto l’amore e anche con tutto l’odio che questo momento storico suscita in noi.

Rachele: Tanto coraggio ti viene restituito anche dall’energia sprigionata dal pubblico. Personalmente, non farei questo lavoro e non canterei queste cose se non per le persone che mi capita di incontrare durante i tour. Sapere di parlare a qualcuno che in qualche modo si sente come te ti dà una grande forza.

In molti vostri testi vengono fatti dei riferimenti politici espliciti. Cosa significa per voi, oggi, essere antifascisti?

Francesco: Ogni nostro disco nasce da un’urgenza che è anche politica, altrimenti non avrebbe senso. La cosa che mi fa piacere è che questo momento storico orribile stia costringendo molte persone a schierarsi. È un processo assolutamente naturale. La democrazia che è stata rappresentata dai partiti liberali, comunisti, socialisti e democristiani, erano tutti partiti nati dalla lotta contro il fascismo e su questo si basa la nostra Repubblica. Per questo, pur essendo nato e cresciuto in provincia, mi sento ancora bene a vivere in una città come Milano, che ha segnato una controtendenza alle ultime elezioni politiche rispetto al resto d’Italia, come ho scritto in “Milano è la metafora dell’amore”. Non è un inno al Partito Democratico o cose del genere, ma solo il mio modo di affermare che mi trovo più in linea a un’appartenenza di questo tipo, fieramente antifascista, piuttosto che nell’orrore di cui si sente parlare in altre parti d’Italia. Se me ne andassi da Milano, me la ricorderei eccome.

Rachele: Io credo che Milano si ricorderà di me, invece. Perché gli affitti sono troppo cari (ride). A parte gli scherzi, scriveremmo canzoni di altro tipo se non condividessimo la stessa urgenza.

Milano e i Baustelle, una storia d’amore destinata a durare

In un vostro disco del 2008, “Amen”, cantavate che “le avanguardie erano OK almeno fino al ‘66.” Secondo voi quanto è rimasto oggi di quell’approccio  radicale all’arte e quanto aiuta a distinguersi nel mercato musicale?

Francesco: È un problema nel quale io stesso mi rivedo spesso. Come ricorderai, in quel testo, Il liberismo ha i giorni contati, facevo riferimento anche al mio modo di prestarmi al gioco al massacro delle vendite, che questa mia amica dell’epoca, molto più radicale di me, trovava assolutamente deprecabile. Ma quando fai questo mestiere devi anche considerarlo. Di più: dopo un po’ capisci che non c’è un modo buono o cattivo di dire le cose. L’importante è che qualcuno ascolti. Per fare questo noi non volevamo essere come tutti gli altri quando abbiamo iniziato. Anzi, ai nostri primi concerti distribuivamo questi volantini con su scritto “viva l’avanguardia di massa”. In un certo senso quindi volevamo essere contro il mondo, pur vivendoci e standoci in mezzo. Allo stesso tempo però avevamo voglia di essere popolari, non nel senso di diventare famosi – al successo non abbiamo mai creduto veramente – ma far parte di quel “sentimento popolare” che nasce “da meccaniche divine”, per citare il maestro.

Rachele: Fare arte ti aiuta a immortalare ciò che è importante e isolarlo da ciò che non lo è. Come in una fotografia. Fai arte se hai qualcosa da dire, altrimenti vai al bar, esci con gli amici, fai un viaggio. Fare arte significa avere un’urgenza, come si diceva prima. Ecco perché per noi è stato importante ascoltarci molto e collaborare a un progetto preciso, pur nella voglia di arrivare a più persone possibili. Poi quando vedi le persone che cantano le canzoni ai concerti, è una bella rivincita. Per fortuna noi abbiamo iniziato a fare questo lavoro in un periodo in cui tutto questo era ancora possibile. Per molte persone questo percorso, nel sistema discografico di oggi, è totalmente precluso.

I Baustelle, contro il mondo in 120 mq di parquet

Montale, Magrelli, Franco Loi sono solo alcuni dei poeti che riecheggiano in questo nuovo disco. Quanto è importante per voi la poesia italiana e come si accompagna a un sound americano?

Francesco: Essendo prima di tutto lettori di poesia, quello che viene fuori nel nostro caso è un uso consapevole della parola nelle canzoni. C’è quasi una crasi, come in “che antico testamento adesso fermerà/ la sistole del nostro cuore”. Penso che i testi delle canzoni e i testi delle poesie a volte abbiano delle metriche simili. Dopo un po’ impari alcuni trucchi per accostare un linguaggio più arcaico a parole di uso comune e queste sono le canzoni che più amo scrivere e ascoltare. Per me le canzoni si dovrebbero sempre scrivere così, insieme ad una buona dose di incoscienza, a fari spenti nella notte, con le parole della poesia a guidarti. Non esistono parole vietate, tutto dipende dal modo in cui le dici.

Rachele: La poesia come la canzone è anche suono, quindi che si tratti di Baudelaire o di Dante, è la nostra maniera di omaggiare i grandi senza dimenticare che si sta scrivendo per il pubblico di oggi. Ad esempio non è sempre facile unire alcune parole più letterarie alle sonorità rock ‘n roll. Per fortuna ci ha già pensato David Bowie prima di noi. Il nostro interesse è nel fare la stessa cosa in una lingua non sempre facile come quella italiana.

In “Los Angeles” sembra quasi che l’immaginario americano si sposi con una disillusione di fondo. Per voi la musica può contribuire a cambiare la realtà o è soltanto una retorica vuota?

Francesco: Per me la canzone popolare ha sempre avuto la possibilità di essere politica, essendo espressione di un singolo punto di vista. Sembra una contraddizione, ma non lo è. Quando scrivi una canzone, eserciti un controllo rispetto al caos dell’esistenza. In questo senso, dichiararti in opposizione a qualcosa ti aiuta a definirti, prima di tutto come essere umano e come cittadino prima ancora che come artista. In questa cosa io credo fermamente, perché filosoficamente essere contro una certa deriva del mondo ti spinge anche a migliorarlo.

Rachele: Invece io non mi sono mai chiesta perché facessi una determinata cosa prima di farla. Io faccio. Se poi quell’urgenza si riproduce anche a livello artistico e musicale, allora diventa interessante e proseguo per la mia strada, altrimenti mi fermo. L’importante è non diventare banali.

La nostra vita

Che cosa abbiamo a cena, amore? 
Che vento ci sorprenderà? 
Che ipotesi di cambiamento segnerà 
La croce del nostro dolore? 

In fondo sono solo un uomo 
Perduto nell’oscurità 
Continuo a chiedere perdono e poi chissà 
Da quale Cristo arriverà 

Fine dell’estate della nostra vita 
Sembrano rimaste solo sigarette spente 
E un gigantesco niente 
Notti sconsacrate senza via d’uscita 
Pure illuminate da una scritta al nеon gigante 
Io ti amerò per sеmpre

Chi ha vinto le elezioni, amore? 
Che vuoto ci governerà? 
Che Antico Testamento adesso fermerà 
La sistole nel nostro cuore?

In fondo sono una ragazza 
Nel crollo della civiltà 
Continuo a interrogare il cielo e poi chissà 
Mio figlio quale nome avrà 

Fine dell’estate della nostra vita 
Sembrano rimaste solo sigarette spente 
E un colossale niente

Notti scorticate senza via d’uscita 
Sono illuminate da una scritta al neon gigante 
Io ti amerò per sempre

E ora la luce sconvolgente dell’autunno 
È rame fuso su di noi 
Nessuna morte ci potrà ferire mai 
Nessuna morte e tu lo sai 
Perché se anche questo fosse il capolinea 
Riusciamo ancora a credere 

La fine dell’estate della nostra vita 
Ben illuminata da un’insegna permanente 
Io ti amerò per sempre

voce e testo di Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi
Musica di Claudio Brasini, Lorenzo Fornabaio, Milo Scaglioni

Osso Sacro | Urla dal confine tra mito e nuovi canti

Gli Osso Sacro sono un trio sannita che unisce i fratelli Carlo e Corrado Ciervo, musicisti e polistrumentisti di Benevento, con il poeta e performer sannita Vittorio Zollo. Il progetto Osso Sacro unisce la ricerca delle radici tradizionali con la sperimentazione sonora. Un modo nuovo di fondere la tradizione musicale con l’elettronica, la ricerca di testi tradizionali, improvvisazione teatrale e performance.

Il loro lavoro è stato premiato in varie occasioni, tra cui la IX edizione del Premio Alberto Dubito nel 2021. Urla dal confine è il loro primo album, uscito per la poetry label bolognese ZPL, e come suggerisce il titolo, si concentra sulla questione delle frontiere e della migrazione, con una forte attenzione alle tematiche sociali e politiche. Le poesie presenti nell’album affrontano in modo critico la questione delle barriere tra i popoli, la sofferenza e la fatica degli immigrati, la violenza della guerra e l’alienazione sociale. La musica spazia dal rock all’elettronica, con sonorità che si ispirano alla tradizione popolare mediterranea.

Tra le canzoni più rappresentative dell’album, la title track Urla dal confine, Demetra col tamburo e Pruserpina, tutti brani dove l’italiano si mescola alla lingua natìa di Zollo, quella campana, nella ricerca della costruzione di un nuovo mito, distante da quello religioso e più vicino al rito pagano, che unisce riferimenti classici a figure del cristianesimo. In particolare, il testo di Pruserpina, che prende a prestito il titolo da una poesia di Sylvia Plath, esempio di bellezza formale e profondità di sguardo, parla dell’emigrazione, della perdita delle radici e della ricerca di una nuova identità. Il testo affronta il tema della migrazione dal punto di vista della Proserpina, la dea romana del mondo sotterraneo, che rappresenta la figura del migrante che cerca di ricostruire la propria vita in un nuovo paese.

Frame dal videoclip di Pruserpina

La figura di Proserpina viene utilizzata come metafora della condizione del migrante, che cerca di adattarsi al nuovo ambiente, ma che allo stesso tempo cerca di mantenere la propria identità e le proprie tradizioni. La canzone è caratterizzata da un sound sperimentale e dalle sonorità del pianoforte e del violino, che contribuiscono a creare un’atmosfera malinconica e struggente. Quel che si evince dal brano è una condizione inedita della figura del migrante, che non vaga sulla Terra per punizione divina ma per grazia, essenza della sua stessa umanità.

PRUSERPINA

Rubare il fuoco per poco
Donarlo a chi ora minaccia
La stessa roccia alla quale incatenata fosti
E fatti non foste a viver da titani
Nella scintilla che mi vibra tra le mani e nelle nubi
Vedo nuovi satelliti squarciano il cielo di Scizia

Annego
La solitudine del raziocinio di Ipazia
E so che non è semplice
Crollare restando in piedi
Ma un vento lontano riporta quell’eco
Di una relazione tra il fulmine e Teti
Tutti tra chi dimentica il dramma
Ade decide di dati di doti di dita di Dite di vite di steli recisi

Easy, arde ‘a gramegna nei campi elisi da mis’
E mancano i surris’ int’ ‘i pais’
Stu fuoc’ m’eccis’, è cris’
Brucia ‘ngoppa a ‘sta pelle ‘na fiamma ribelle
Prometeo contadino, Sant’Antonio anacoreta
È sul quann’ chiude l’uocchi, ca uno pe’ vero se sceta

E sanguina ancora l’occhio dell’aquila
E appare come la vergine a Fatima
Il dio che commosso ci donò il fuoco
Che ci generò dall’Olimpo malato

Sulla cima di Atlante passando
Summonte s’arrampica a gente
Pe’ Mamma Schiavona
Nun è contemplato ‘u respiro
Affannato se saglie pe’ grazia
E no’ ‘p punizione
Cu fegat’ rutt’ pe’ via d’u supplizio
‘A criatura  resiste a ci s’a magna viva
‘Na foglia d’aliva int’a l’acqua sorgiva
Se secca, è abusiva
Ma è calore estiv’
‘Stu fuoco ca coce
E nun truammo pace
Accussì vann’ ‘i cos’
E nun tene riposo
Essa porta ‘stu peso
Dalla notte dei tempi
Pe’ l’eternità

E sanguina ancora l’occhio dell’aquila
E appare come la vergine a Fatima
Il dio che commosso ci donò il fuoco
Che ci generò dall’Olimpo malato

Pruserpina in catene ai confini del mondo
Ripensa a Prometeo ed Atlante assieme
Se perde ‘ntu mit’ ricorda Afrodit’

Ancora un grido muto che da lei proviene
Accetta la nemesi oppure rigetta
Il seme del demonio che origina l’ira
È ancora criatura innocente e perfetta
Sfiorandosi il ventre se spezza ‘u respir’
No no ‘n ce sta modo è l’eterno riposo
Mo o accetto ‘a mimosa o faccio com’ a Erode

Accussì vann’ ‘i cos’
E nun tiene riposo
Essa porta ‘stu peso
Dalla notte dei tempi
Per l’eternità

Osso Sacro, videoclip di Pruserpina
Testo e voce di Vittorio Zollo
Musica e arrangiamenti di Corrado Ciervo e Carlo Ciervo
Video di Michele Salvezza

GRAFICA DI TOI GIORDANI

Nuit Bleue | Sfogliando dal libro del punk

Nuit Bleue è un progetto hardcore/postpunk con base a Toulouse, in Francia, che vede un assetto scarno ma estremamente compatto formato da basso, batteria e sassofono sostenere due voci, Damien e Cicuta, il primo caratterizzato da uno scream viscerale, profondamente scavato nella ricerca più espressionista e coraggiosa delle esplorazioni vocali, e il secondo da un approccio che oscilla tra rap ed uno spoken word che può ricordare un po’ le imprese punk emiliane e un po’ il primo Teatro degli Orrori, concedendosi anche al canto o al recitativo laddove le atmosfere dei brani glielo concedono. Quello che appare infatti chiarissimo, fin dal primo ascolto del loro omonimo demotape live, è proprio l’ampiezza di varietà d’ambienti che la formazione decide di sondare con un’attitudine squisitamente narrativa e spontanea, costruendo la propria musicalità sulla solida base della direzione del proprio discorso e del sentire sottostante, svelandolo fino alla nuda carne. Così quindi l’orecchio si ritrova all’interno di racconti in cui, nel suo dipanarsi, la forma-canzone, già esplorata in massima libertà dalla formazione, si permette di spostarsi da violente staffilate di chiara scuola hardcore ad aperture sonore che possono ricordare i The Comet is Coming tanto quanto gli Zu, i Marnero quanto gli Sleep, spaziando tra jazz, stoner, postrock e rap, mentre al microfono suggestioni bilingue si alternano in massima libertà, concedendo ad ogni brano la sua forma più sincera.

Ed è così che la penna di Damien, estremamente teatrale e cruda, compare tanto in esplosioni brevi quanto in tirati monologhi dove forse più che negli altri brani l’intero muro di suono sembra agire, espressionista, come cassa di risonanza della parola, mentre quella di Cicuta può prendersi più spazio, scegliendo di accostare ad una semplicità di scrittura che suona come necessaria, nello sporgersi di ciò che dice, vezzi di forma e sprazzi d’immagini che arrotondano il discorso per farlo sposare con la musica in un’ottica più ampia dove il ruolo di trascinatore e trascinato si fondono. Nella formazione è infatti davvero centrale la danza tra i desideri espressivi dei due poli, la parola agìta ed il suono degli strumenti, che nella musica dei Nuit Bleue più che essere corpo unico sembrano costantemente lasciarsi spazio e venirsi addosso in un pogo di necessità che si sostengono a vicenda fino alla prossima, vicinissima, ondata. Questa chimica versatile si svela in un’altra forma ancora quando, in Feu Bleu, il microfono viene passato al rapper Kaio Dayo del collettivo Zook’ook, sempre con base a Tolosa, dimostrando ancora una volta con quanta attenzione i mondi sonori della band mutino forma in maniera sincera e radicale riconoscendo le differenti energie portate dal polo parlante. Sotto questo punto di vista il ruolo della batteria spesso stupisce nella tremenda aderenza con cui risolve il dialogo con la voce, imbastendo una sottile trama di accenti e dinamiche legatissima al verso, con un’aderenza simile a quella di Michele Koukoussis nel Bhutan Clan.

Già attivo dal 2019 sotto forma di duo e con una notevole esperienza di palco maturata principalmente nella scena punk d’oltralpe, il gruppo già mostra nella sua demo una solidità ragguardevole e una fantasia molto spiccata, soprattutto in una ricerca volta alla performance del verso in dialogo con un immaginario, quello punk, che concede veramente tanta libertà quanta se ne desidera prendere. Nella crudezza dei loro arrangiamenti si nasconde moltissimo potenziale, che talvolta brilla. Nella ricerca vocale una volontà unitaria che punta a rispettare quello che dal foglio emerge con la fedeltà più dolorosa e bambina, senza compromessi. Questo potenziale ha già scaturito fiammate esplosive, nulla ci rimane che augurarci che tutto questo prenda sempre più fuoco.

(Isidoro Concas)

Terroristes (Nemmeno Le Lacrime)

Aaaahhhh!

Quanto è bello l’amore!
Quella mano che ti scava nello stomaco e ti strizza l’interiora com’uno straccio!
Neanche le montagne russe reggono il confronto!
Ed io!
Non sono mai stato così felice di morire un’altra volta tra le tua braccia!
Oh sì!
Lieto m’è il vomitar su questo foglio! Sto ‘na bomba!
Ma dove cazzo sei finita?

Oramai ricordo a malapena
La tua faccia si confonde
Ve ne son quarantamila tutte uguali
La tua voce s’è già persa
Come un jingle che ho sentito da bambino
Un motivetto sciocco che non riesci più a capire se hai inventato
Ogni momento ogni sorriso ogni parola sussurrata con dolcezza
Pensavamo l’uno senza l’altro di non poterci stare
Invece hai visto che bel sole, mia cara,
Hai visto che bel sole?


A chi importa di noi?
Forse ad un dio stanco e ormai attempato, le tempie calve, che ci guarda dai cieli?
Ho sentito dire ch’egli ama tutti, nessuno escluso
Ma a parer mio è già lungo tempo che non ci degna d’uno sguardo


A chi importa allora?
Allo Stato? Quale dei tanti?
Il signor Stato che per noi ha pensieri, prego, si faccia avanti
No, invero per esso siam vari / tra i molti
Com’a seguito d’una battaglia i nomi che si susseguono dei soldati morti
Chi si cura di noi?
I nostri parenti?
Tra chi è morto, tra chi è matto, chi lontano e chi nemmeno sa che esistiamo?


Chi si cura di noi?
I nostri fratelli? Troppo impegnati a guardarsi la punta delle scarpe?


Chi vuoi ch’abbia la mole di prendersi una tale responsabilità?
Puoi chiederlo forse alla città, per la quale non siamo mai stati più anonimi?


Chiedilo allora a una montagna
Ch’indifferente svetta alle nostre gioie e alle nostre pene
Inamovibile e codarda, per noi non alzerebbe mai un dito
Volgiti al vento se ti va
Ti lascero’ fare
E t’accorgerai che per risposta otterrai soltanto il suono della tua voce


A chi importa di noi?
Ad una qualche azienda? Un sito internet?
Puo’ darsi, ma giusto per venderci cianfrusaglie, al pari d’un truffatore

Per chi contiamo?
Per i nostri amici?
Per i quali a dir molto un mese siam pettegolezzo e un minuto dopo una seccatura?

E chi allora?
I giornalisti? No, che idea sciocca
E’ ovvio che noi non siam persone da prima pagina o che fan notizia

Quindi a chi chiediamo?
Alle stelle? Al sole? Alla Luna?
A venere? Marte? Mercurio? Giove?
Ai pianeti più lontani? O forse all’universo stesso?
Si, come se gliene fregasse qualcosa

Mi credi forse così sbadato?
Certo che ho chiesto alla gioia, e sai che mi ha risposto?
Che sono un avido bastardo

All’amore dunque?
Ohhh, ci ho sperato
Ma sai quanto fosse volubile quel maledetto cane

Dimmi una cosa
A chi importa di noi
Se non è importato a noi?
Chi si prenderà cura di noi
Se non ci siamo presi cura di noi?

Ed in fondo il peggio non è certo l’odio
Ma sapere che il nulla si fa strada come un verme
Sul cadavere della nostra felicità

Non sai che gioia è fingere
Che la prossima volta sarà diverso

Mia cara, hai visto che bello?
Non ci restano manco le lacrime
Oh si!
Non ci restano manco le lacrime

Voce e testo di Cicuta
VOCE e batteria DAmien
Basso Johan
SAX jb

Karōshi | Retina

Per un io lirico esprimere la propria esperienza (spesso, la propria pena), equivale a rappresentarsi, nell’arena di una poesia, come detentore di un dolore unico e speciale, così tanto da crederlo utile ai propri simili. In questo l’io lirico confessa, accusa e sfoga, e bellissimo e pieno di pathos ricade nell’egopatia che l’aveva condotto a quella coraggiosissima e un po’ autoritaria parola io. Può succedere però anche il contrario: che un io lirico più coraggioso e sincero tenti di donarsi al testo con l’umiltà di scomparire in esso, di affiorare e affondare ancora come la verità che cerca. E allora diventa una scena, qui particolare, privata, sconosciuta se non alle retine degli occhi interni, una scena forse archiviata nelle viscere da generazioni da cui emerge un nome impronunciabile o pronunciabile solo nel silenzio. E in quel silenzio si ritrova una concreta e materica vecchia sarta che con gesto creativo e liturgico prova a recuperarsi, a non disperdersi nel caos che la chiama, a vivere ancora nella tremenda violenza di un nome indicibile, di un’origine perduta per sempre, poiché mai avuta. Ogni occhio che passa passa e non comprende, interpreta quelle stoffe come mostra d’orgoglio identica alla propria superbia e non vuol vedere. Che le stoffe che lei tesse senza pace sono ciò che l’essere umano non ha mai smesso di fare: tentare di riprodurre nella materia, con la materia, l’angoscia di non aversi.


(Lorenzo Lombardo)

Retina

Dal vetro, verso l’interno:
ossatura perlacea di plastica
un manichino mantiene la posa,
la faccia vuota estatica – premuta
in un grande cappello. Agli altri
identico, occupa il margine
estremo del pavimento.

Su di esso scende copiosa
una luce azzurrognola – aspersione,
battesimo celere: chi passa alimenta
la doccia elastica, il nodo
lento; la morsa; le braccia
lunghe d’inverno.

Dietro:

retrobottega.
Una vecchia che mastica
quel ronzio caldo e sudato
sul tavolo;
s’agita, ferma, in un punto:
lo segna precisa, assetata
del prossimo; in scia
pulitissima alterna
allo spazio il suo rovescio:
sistema binario,
vita – decesso – vita – decesso.

Una voce nasale introduce i clienti.
Si fanno avanti, specchiano
gli occhi sulle pareti.
I passi vanno e vengono
i posti sempre occupati:
così il pubblico fronteggia
i retroscena.

Retrobottega.
La sarta non si dà pena
dei suoi burattini; la irrita
l’esposizione violenta
degli arti: gli zigomi alti,
gli occhiali pigiati, lei vuole
soltanto la stoffa distesa: pianura
inaudita, retina orizzontale
a fiaccarle le dita, la superficie
ultima; una terra
da consolare.
Ripete sempre
quel salto dal piede
alla sedia: sventola
un nome, bianco,
le lettere chiuse
sotto qualche strato.

Nella mano che sale,
che scende, che cerca,
qualche volta il nome
si dimena; non emerge.

Allora sbaglia,
riproduce lo strappo.

Rattoppa. Ricuce.

Un tratto – uno spazio – un
tratto – uno spazio – mare
aperto – un tratto – uno strazio –

Dov’ero rimasta?

Solleva lo sguardo.

Vede soltanto una fronte piana,
distesa, e una barca fiaccata:
come lingua strana,
in mezzo alle labbra
di plastica.

Dov’ero rimasta?

Mastica e chiama.

Un nome che sale,
che scende, che cerca.
Si dimena; non emerge.
Si dimena non emerge
dalla tela.

Dov’ero rim–astica e chiama.

Si nasce si cresce ci si assottiglia.

Mi somiglia sempre.

Si chiama:

Karōshi – Retina – Regia di Bonifacio del Dubbio, riprese di Marco Bavarino

Karōshi (過労死), è un progetto spoken word music nato dall’unione della musica elettronica di SOFIA_ con i testi di Elena Cappai Bonanni. Nel 2022 è risultato vincitore al Premio Roberto Sanesi di poesia in musica. Il loro primo album, dal titolo omonimo, è in uscita per ENF/RBN a marzo 2023.

Testo e voce Elena Cappai Bonanni
Musica SOFIA_
PRODUZIONE ENF/rbn, 2022

Nessuna maschera dietro le mani | Un’intervista a Somma Zero

Somma Zero, all’epoca Simone Tencaioli, scrive e produce i suoi progetti ed è stato vincitore della seconda edizione del Premio Sanesi, avventura che gli ha consentito di intraprendere il viaggio di scrittura di Peek-a-boo!, il suo nuovo progetto, che sta per uscire per Radiobluenote Records e che vede alle produzioni il fondatore del collettivo torinese, Davide Bava. In occasione di questa nuova uscita, anticipata qualche mese fa dal singolo X, abbiamo deciso di contattare Somma Zero per ascoltare assieme il nuovo album e chiedergli come lo sviluppo dell’opera abbia preso forma.

Ciao Simone, benvenuto. Cominciamo dalla fine: il tuo nuovo lavoro, Peek-a-boo!, è un concept album a tinte cangianti, assieme fosche e energiche, lunare e solare. In questa terra di mezzo, intrecciati nei testi, si alternano immagini di un tempo statico, circolare, a cui ogni ribellione viene ricondotta come altra strada per la stasi, e invece la ricerca continua e speranzosa di una chiave di apertura del loop, in cerca di un nuovo inizio, e il tutto confluisce nella frase con cui il disco termina, “l’alfa è solo un simbolo spezzato d’infinito”. Come vivi, in questi testi, i due temi del tempo e della speranza?

Ciao Isidoro, cominciamo da una fine che in realtà è un inizio. Il verso a cui fai riferimento l’ho scritto più di dieci anni fa. Andare a pescare così lontano nel tempo è un modo per manifestare al contempo ciclicità ed evoluzione. All’evoluzione si collega la speranza, ciò che mi ha spinto a buttarmi in questo progetto. Immaginare e creare a parole una realtà migliore, sia esterna che interna, è il primo passo per stare meglio.

All’interno del tuo rapporto con la scrittura sul suono si è sempre di più incontrato un lavoro metrico cesellato e intenso, che qui in Peek-a-boo! libera soluzioni molto differenti tra loro, seguendo lo svilupparsi del racconto interno all’album. Come è cresciuta, per te, la tua scrittura, con questo ultimo disco, considerando che per la prima volta ti sei trovato a confrontarti con delle produzioni non tue?

È stato un esercizio interessante. Nei miei lavori precedenti testo e base crescevano su linee quasi parallele. Qui mi sono trovato a confrontarmi con una struttura preesistente, sulle prime è stato molto difficile. C’è stata una svolta quando ho capito che il testo non doveva a tutti i costi seguire rigidamente questa matrice, ma poteva farsi a sua volta schema. È come se avessi composto una seconda strumentale fatta di parole che si integra alle musiche di Davide.

L’esperienza della traccia Sproloquio, dalle sonorità che evadono molto da quelle in cui il resto del disco è ammantato, porta in scena il tema della maschera, indossata (per poi liberarsene) dal protagonista del disco sia come tramite per liberare altre parti di sé che per ottenere, tramite un’attitudine diversa, qualcosa a cui altrimenti non avrebbe accesso. Non posso non pensare al tuo agire sotto pseudonimo, quindi ti chiedo: percependo qualcosa di estremamente intimo nelle tue produzioni, quali sono i gradi di separazione tra Somma Zero e Simone?

In questo caso lo pseudonimo non crea dal nulla un’altra identità. Ha una funzione simile al titolo che si dà a un’opera: conferisce una direzione all’agire e fa da prima chiave di lettura per ciò che viene prodotto. Non è tanto una questione di gradi di separazione, quanto di gradi di intensità. Più che di maschera parlerei di trucco scenico, non nasconde i lineamenti ma ne rinforza o mitiga l’aspetto. Trovo che le operazioni artistiche che antepongono il personaggio alla persona siano dannatamente noiose.

La scelta di un racconto, nel concept, che oscilla tra una voce interna che racconta il proprio stare e una voce esterna ma partecipante che si estende al generale e sembra parlare sia al protagonista che all’ascoltatore come se avesse già attraversato queste tematiche, si accomoda bene alla piegatura temporale che l’album descrive. Ma, all’esterno, da artista che ha prodotto l’opera, a chi diresti che questo intero disco sia riferito? A chi parla?

Voglio che passi un messaggio di positività. Credo che la musica debba avere un ruolo di supporto sia a livello personale che sociale. Personalmente questo progetto mi aiuta tantissimo nel quotidiano, non so come potevo farne a meno sino a qualche anno fa. I dialoghi che si possono intravedere nei testi sono un collage di pensieri rimasti tali, frasi dette o sentite dire, rimpianti, fantasticherie e speranze. Mi piace mescolare le carte e far scomparire mittente e destinatario. Qui arriviamo al livello della ricezione esterna. Non c’è un ascoltatore designato. Parlo a chiunque faccia bene sentirsi dire determinate cose.

Questa è la tua prima uscita dopo il Premio Sanesi, anticipata qualche mese dal singolo X che ha segnato il tuo ingresso in Radiobluenote Records, per la quale Peek-a-boo! uscirà e che vede alle produzioni il sopracitato Davide Bava e al microfono, in un featuring, Brownie, due membri del collettivo con i quali hai già partecipato ad alcuni live. Quali saranno le direzioni che prenderanno i tuoi lavori, nel futuro? Hai qualche desiderio specifico?

Ho una memoria digitale strapiena di progetti da ultimare. Credo di avere già a disposizione il materiale per la prossima uscita, solo non ne sono ancora pienamente consapevole. Poi in questi mesi ho incontrato un sacco di artisti validissimi. Mi piacerebbe mettermi alla prova con un’esperienza diametralmente opposta a Peek. Lasciare per una volta la scrittura e produrre un disco dove far convivere più artisti e generi differenti.

NEMESI

è
come se non ci capissimo più
io sempre più saldo [fermo]
nella mia convinzione
sempre più stanco [cerco]
di avere ragione
sull’incertezza [il fine]

della mia condizione

mi guardo intorno e trovo solo torvi attori
[sorridi o muori]
chi mi parlava del futuro ora mi tiene fuori
[fatti tuoi]

eppure questo cuore mio non sa attutire i tonfi e i contraccolpi

niente più davvero [sclero] mi tiene a freno [fremo]
ho da riscattare un debito [spero] di fremiti non spesi [tremo]
senza assenso o pentimento
tento di aver la meglio
su un inverno parassita
che si insinua, si attorciglia
avvizzisce meraviglia
in tralci e viticci
di intralci e capricci
non cerco lusso
il mio agio è tra meticci e meretrici

è vero spesso opporre i sogni al nulla porta incomprensioni
fisso l’orizzonte è limpido, si sta avverando
la promessa scritta a mano con il sangue caldo
due figure si contendono in un limbo metafisico [granitico]
un diritto che il mito relegava al destino
ho capito
che il mondo è il punto di arrivo
per uno spirito che taglia i fili
al suo burattino

Testo e voce Somma Zero
Produzione e musica Davide Bava
Illustrazione di Eleonora Ballarè
RADIOBLUENOTE RECORDS © 2022