Il racconto concreto di Gaia Ginevra Giorgi

Ne facevano organismo unico, feroce. È l’arte del raccogliere e filtrare, catalogare, spezzettare e riprenderne brani, forme di vita tornate indipendenti e sovrapporle, impastare in ascolto attento, ogni altro sguardo e odore in dialogo con ogni altro. Puoi chiamarlo montaggio cinematografico, beatmaking, comporre un articolo, ma alla radice c’è la memoria – l’azione del suo potere disvelativo di chi la usa, come una mappa al contrario: cosa si salva dalle ore? Quale dettaglio emerge, quali accostamenti, ponti temporali o causa/effetto, cosa distorce, cosa prende scena e cosa è cancellato? Come ti viene spontaneo porli in relazione? Perché?

Sotto quest’occhio va letto il racconto dietro a Racconto Concreto, diaristico ed esploso, incarnazione politica ed individuale: catalogo e distorcimento, giustapposizione di materiale che, a brandelli e flash, comunica il filo sotteso. Le tecniche messe in campo da Gaia Ginevra Giorgi e Demetrio Cecchitelli ne seguono l’approccio: librerie di fields recording elaborati e sovrapposti allargano lo spazio di parole che evocano sprazzi e riflessioni legate a un luogo, una forbice di tempo, e significativi accadimenti incrociati in quello spaziotempo. La precisione chirurgica della penna lacera il disegno complesso, ne trova un altro significato rimescolando, lo fa canto di simboli così specifici e definiti, senza sovrastrutture e perciò leggeri, ma anche leggibili in così tanti modi da poter raccontare più qualcosa dell’ascoltatore, colto nel pensare di capire cosa succeda davvero dietro quei suoni dal bosco.

Dal Bosco, come un altro lavoro audio di GGG legato a stretto filo a Racconto Concreto con cui condivide l’origine dei testi, la sezione diaristica de L’animale nella fossa, progetto vincitore della prima edizione del Premio Sanesi e libro uscito per Miraggi dopo la pubblicazione estiva di queste due rese sonore, l’una per Oceani e l’altra in una puntata del programma Katakresi del palinsesto di Fango Radio. La narrativa condivisa mette in dialogo le due opere al punto da ospitare svelamenti reciproci, ma evolve ancora di un livello nell’accostare le date di registrazione delle due uscite, avvenute nell’arco di pochi giorni. È anche il lavorare fervido dell’autrice che emerge, quindi, nell’accumulare le connessioni nei tratti, nella sapienza del porgere la parola e stratificare suoni d’ambiente e commento ad essa, nella fisicità delle scelte di utilizzo della presa diretta, della postproduzione mai slegata da un atto fisicamente esistente. Il suono è portato nel suo specifico timbrico, la voce è nuda nel dettaglio, estesa nella spazializzazione, azione consecutiva di un racconto che è parte strettamente correlata a chi compie l’atto di narrare, la biografia, l’apprendere delle mani e dei sensi (provando a ridurre l’egemonia della vista).

Tutto quel che è raccontato ha la consistenza del vero. Lo è, senza il suo essere nominato esplicitamente. Lo è per la profondità del dettaglio emotivo, dei processi descritti col bisturi, della conseguenza necessaria dello scenario. Ha il linguaggio oltre il corpo pensato, un odore di istinto alla lettura di precise smagliature, e fioriture, dei contesti. La volontà di studiarli, innestare le sue specifiche come inseminazione incrociata, proseguire nella danza delle specie. Poco importa, forse, la cosa descritta: nel proporre questo approccio al relazionarsi con l’attorno, ogni attimo nasconde questa potenza di rito d’ascolto e risposta.

Isidoro Concas

IL TEMPO DELLA FESTA

abbiamo rilasciato le viscere, gli organi, disfatto tutto, i corpi sapevano come ed eravamo tutte e tutti in un grande incastro, in una colla, in un miele denso. le questioni si sono delineate presto, le urgenze a danzare storditi sopra vetri spezzati.

l’affettività è un fatto di scambio, che gioia avere avuto tanti corpi vicini, caldi, voluttuosi. la nostra spinta, che esisteva già da qualche parte in una potenza eterea si è fatta carne e bisogno, alleanza. la ferita si è aperta in uno spazio altro, illecito, forestico, lontano dalle nostre geografie sistemiche, in un tempo di festa, di ribaltamenti, sovversione dei codici, ma è una calma folgorata, vibra tutto a ogni prossimità, siamo tornati organizzi sensibili e reagenti, interdipendenti. che gioia. non so come si ridisegnerà la figura, ma c’è una novità, e in segreto festeggiamo.

Testo e voce Gaia ginevra giorgi
Musica Demetrio Cecchitelli

Gaia Ginevra Giorgi (1992) è poeta, sound-artist, performer e ricercatrice. Ha pubblicato Manovre segrete (Interno Poesia, 2017) e L’animale nella fossa (Miraggi Edizioni, 2021). La sua ricerca si orienta verso le possibilità generative della poesia intercodice: sperimenta vocal soundscapes, e studia i rapporti tra testo, voce, nuovi dispositivi elettronici e spazio architettonico, realizzando progetti site-speicific. Fa parte del collettivo curatoriale e performativo Extragarbo.

Demetrio Cecchitelli (1997) è un musicista attivo nel campo della musica di ricerca, pubblicando su etichette internazionali come Healing Sound Propagandist e Whitelabrecs tra le altre. Porta avanti un percorso di ricerca a metà tra linguaggi di trasformazione elettroacustica ed estetiche ambient-noise. Recentemente ha collaborato con i Motus per lo spettacolo “Tutto Brucia”.

La lunga strada di cemento | F. Cane Barca

Assolato. È in una tempesta di sole che partiamo io e Catalina verso la città marittima di #####. Nemmeno tengo la maglia, che poi mi si scioglie addosso. Hai preso i soldi? Altro caffè?

Il dubbio che non esista altro nel mezzo degli inferi e interi anni di utenze da intestare, albe e tramonti, discordie, scarichi e ricarichi, tubi di elettricità, sistemi complessi di arrangiamento, di orizzonti coperti dal sole e dallo smog che mangia il cielo e i polmoni, orizzonti che si riempiono la boccaccia di cose da fare e promesse che non vengono mantenute, giorni e notti e altri giorni e altre notti, e poi raggruppo quel gruzzolo, con Catalina, monetine contate per fare quel viaggio di sei giorni, uscire da Genuaua, che vi sia altro oltre questa mia città? domani lo saprò. Lei me l’ha promesso: Te lo giuro ci sono altri monti, altri mari, cibi diversi, vieni, seguimi! Hai preso abbastanza mutande?

Ero pieno di aspettative. Credevo sarei potuto cambiare, nel migliore dei modi sarei tornato, tutto nuovo, io e Catalina per il mondo, a mandare cartoline. Invece. La lunga strada di cemento, lunghissima, che taglia il paese, tra le valli, e sulla costa, e sui monti, lunghissima, costruita da poco, nel ####. Nuove strade per nuovi desideri

È stato un fallimento, qualcosa di strano è successo.

Ecatombe di motori, lamiera, fili elettrici, batterie consumate, camion e rimorchiatori fermi lì, a sciogliersi i copertoni, morti e vivi morti, cerco di tirare le somme, di fare le sottrazioni, mi guardo le spalle a ricostruire le cose accadute, ora, che è finita questa storia, o appena iniziata, con Catalina qui di fianco che guarda il cielo cercando qualche buona stella per trovare la strada di casa.

Cerco di pensarci ma ho come un’ebbrezza, una destabilizzazione della memoria come da postumi dopo bevute di bassa qualità.

Il primo giorno, quanta allegria, fin troppa, con Catalina cantando dei cult anni Novanta, che risate!

Tutto questo brioso andare non si è fermato alla prima mezzoretta di coda. Anzi. Ci siamo fermati in un bel posto. Due montagnole ai lati. Ripide. Verdi. Boscose. Scendiamo e andiamo a funghi? ha detto ridacchiando in quel modo adorabile.

Per fortuna siamo poco fuori la galleria. Abbiamo aperto i finestrini. I motori di tutti i mezzi erano spenti. Che profumino.

Mezz’ora. Un’ora. Fai anche tre. Nessuno si aspettava una sosta così lunga. Chissà se vediamo qualche animale, mi farebbe scendere la rabbia. Niente. Soltanto io ho visto qualcosa. Sono sicuro di aver visto una sagoma, un uomo nel bosco, figura rosea, quindi nuda o vestita di roba in chiaro. Là! Uomo nudo, guarda!

E lei: Idiota che sei.

Al primo giorno nemmeno un metro di strada, poco meno. Un camionista ha litigato con un motociclista. Il camionista, ha detto di chiamarsi Benedetto, era fuori, a fumare, a dirci che inizialmente non voleva passare per questa strada nuova, ma poi …Ero curioso, mi piacciono le strade, le novità. Il motociclista è arrivato velocemente passando tra la nostra auto e il camion, Benedetto si è messo in mezzo, …stanco dei furbetti che superano le code, gli ha detto: …ti fai la coda con noi, trasporto vino, ha voglia ad aspettare.  Sono finiti a darsi mazzate e Catalina mi ha detto di mettermi in mezzo, e così ho dovuto fare, non volevo muovermi troppo. Alla fine ho trattato, il motociclista è passato e Benedetto mi ha raccontato di quando guidava gli autobus a Torino, un racconto noiosissimo.

I telefoni hanno smesso di connettersi alla rete dopo poche ore. Non si poteva telefonare. Non si poteva fare altro che fissare il tempo scorrere.  

Le scene di isteria cominciarono alla quinta, o settima ora. Non sapevamo nulla delle cause di questa coda. Eravamo fermi sulla lunga strada, ignoranti. Il sole era alto e più grasso del solito. Potente. Stavo sudando questa vacanza. Credo di essere svenuto per poi svegliarmi con la notte alle porte. Era iniziata una festa. Un gippone di cui ignoro la marca aveva messo musica dance… E Benedetto aveva deciso di regalare vino. Ne ho mille casse qui, che mi importa. Bevi Catalina, che sei bella e giovane, e tu, trattala bene. Potevamo solo annuire.

Alcune persone, vai a sapere esattamente quando, hanno inveito piangendo contro la nuova strada, Catalina ne ha consolate un paio, avevamo legato con il gruppo di gente attorno alla nostra macchinetta, più qualcuno venuto da dietro e da davanti per bere il vino di Benedetto. Chi era lì per lavoro sbraitava contro chi era lì per andare in vacanza. Iniziarono dei dibattiti interessanti sulle strade secondarie. Sul senso della vacanza. Sul senso del lavorare. Sul lavorare con lentezza. Sul non lavorare affatto. Sul cibo degli autogrill e sul cibo della campagna circostante. Sulla guerra. Sui talebani. Sull’inquinamento. Io annuivo. Ogni tanto giocavo con dei bambini. Verso sera abbiamo anche fatto una partitella, ho vinto, in porta avevo Benedetto. Poi ho dormito, ero esausto, stranito.

Catalina ha alternato momenti di frenetiche parole e iperattività a momenti di silenzio e catalessi. Ha fatto yoga quattro volte in un giorno, …sempre meglio che stare a lavoro.

Il secondo o il terzo giorno l’ho passato quasi tutto a dormire, abbiamo portato in viaggio due bottiglie di limoncello, così per berle all’arrivo, non abbiamo voluto interagire come il giorno prima. Ho giocato ancora. Sono quasi sicuro fosse il terzo di giorno. Poi siamo rimasti sulla nostra isola. Abbiamo fatto un giro nel bosco. Alla sera abbiamo cercato di mettere gli scuri ai finestrini. Rattoppato meglio che potevamo. E abbiamo fatto all’amore in auto. Troppo caldo però. Nel bosco non abbiamo trovato funghi.

Ai lati e nella boscaglia circostante abbiamo creato dei bagni. C’è stata una organizzazione collettiva eccellente per dividersi le zone. I bambini hanno fatto i cartelli: VC.

Alcuni di noi hanno iniziato a dormire nel bosco. E anche noi la terza e quarta notte. Al terzo giorno e al quarto in molti hanno lasciato le auto per partire all’avventura, tornare a casa per il bosco, scalando le montagnole. Sono stati momenti confusi. Non ricordo tutto alla perfezione. Ricorda! Dibattiti. Rabbia. Altre litigate. Musica. Cibo. Mazzate. Fughe. Crisi di pianto. Partitelle. Un riposino. Vino. Partitella. Rabbia. Litigate. Riposino. Giro nel bosco. Un loop. Non saprei collocare le cose accadute. Tipo: Benedetto quando ha avuto quel delirio nudo sul suo camion? il terzo? quarto giorno? poi è caduto male. E abbiamo rinchiuso il suo corpo a morire nel cassone. Tanto il vino era finito.

Gratto la testa. Ho frammenti di una serata attorno al camper di due ragazzi croati. Della musica. Ho chiesto alla Catalina se…Eravamo nudi? Lei non ricorda. Lascia stare.

Al quinto giorno: due infarti e molti svenimenti. O era il quarto giorno.

Quelli in galleria sono venuti a dormire dalle nostre parti, poi è iniziata una rissa tra bande. Da un lato quelli della galleria e dall’altra parte noi, partecipai anche io, più per noia che altro, i bambini piangevano, alcuni erano spariti, poi siamo riusciti a trovare un accordo di pace: loro hanno dormito a sinistra della careggiata, e noi a destra. Abbiamo fatto ronde nel bosco per cercare i bambini: niente. Spariti in un waw!

Ho camminato con il mio amico per molto tempo, non c’è fine alla coda, sono rimasto solo, qualcuno ha visto Mario?

Eravamo soli, in tanti, ma solissimi, meno che all’inizio, alcuni telefoni hanno poi smesso anche di dirci l’ora. Non sapevamo nulla e il cibo era poco, abbiamo iniziato così ad aprire i camion. Se no va tutto in marciume. Sono stati presi d’assalto i camion che trasportavano cibo e acqua, abbiamo ucciso quelli che dicevano …Questo è mio! Non si tocca. Io ho aizzato la folla, ma non ho ucciso. Che sia chiaro.

Abbiamo creato un cimitero. E seppellito i cadaveri nel bosco e improvvisato una veglia funebre con le candele, anche due preti tra noi, per non discutere si sono divisi i morti, …Uno io e uno tu, e che Dio ti benedica.  

Alla fine del quinto giorno la Catalina ha detto che hanno dovuto tenermi e legarmi. Volevo picchiare un uomo perché aveva dichiarato: Quando c’era lui queste cose non succedevamo. Ho detto che non dovevano tenermi. Avrei dovuto ucciderlo. È la legge della strada, dissi con sguardo truce e occhi assottigliati.

Il sesto giorno quell’uomo è stato ucciso da un capellone che era rimasto in disparte per tutto questo tempo, nell’auto dietro di noi. Chi è quello? Mi sono limitato a chiedere, sempre con sguardo truce, pieno di ammirazione e voglia di sfida.

Al sesto giorno mi sono stancato. Catalina sono stanco, mi sento strano. Andiamocene, farò tardi a lavoro. Cerchiamo la fine della coda. Lasciamo qui l’auto. Diamole fuoco. Andiamo. Facciamo qualcosa. Ne risentirà la nostra relazione altrimenti.

E lei che ormai parlava con un accento strano, che era smagrita e muscolosa dai troppi esercizi fatti, stanca di leggere e far lezioni di yoga a tutte queste genti, lei ha detto: . Possono essere stati sei giorni, o dieci, il cranio è sbalordito. Lei ha accettato, l’ha fatto con un cenno e un sibilo, è una persona operativa, ha fatto uno zaino, preso l’acqua rimasta, un libro, il cibo che ha preservato di nascosto. E con un cenno mi ha fatto partire.

Trascinarci lungo la strada di cemento, cadaveri nelle auto, cani a terra, uno scenario eccessivo. Bardando la bocca e il naso abbiamo attraversato la galleria. Tre ore, forse di più, i telefoni spenti, oramai inutili, in tilt. Qualcuno è venuto con noi, ma alla nonsoqualeora si è fermato: Andate voi. Andate.

La camminata a bordo strada, una nebbia calda e densa già a metà della prima galleria, poi meno all’uscita, di nuovo spessa alla seconda, e via così, che tanto non guardavamo più le auto, e non si cercava più alcun panorama, avanti, siamo andati soltanto avanti e testa bassa. Non so quanto lontani dalla civiltà. Con i paraocchi andando avanti. Richiamandoci ogni tanto. Brevissime pause. Fino al calare della notte. Una galleria ancora, un buco nel monte. Camminiamo qui di lato ancora. La galleria finirà, tutto questo può solo finire. Mano nella mano per non perderci nel nulla. Ogni rumore gelato e sciolto il silenzio. Noi a toccare la parete per essere sicuri di andare dritti. Un tanfo di muffa. Di morte. E quei corpi che abbiamo dovuto superare con grandi passi. Io spaventato e Catalina a tirarmi via. E poi la fine. Catalina! mi scivola la sua mano. Cata! Cata! vado nel panico. Urlo il suo nome ma i suoni non passano. Catalinaaa! la carreggiata è stretta. La conosco Catalina, mi sono detto così: Sarà andata avanti. Sarà così. Sono andato più veloce. Cataaaa! a braccia larghe ho corso ansimando e con questo lezzo nella gola.

E poi finisce improvvisa la nebbia e lei mi afferra, finisce la galleria in una notte stellata. Lei mi ha preso. Afferrato prima di finire giù. Mi ha catturato prima, a bordo di in un dirupo la cui fine è invisibile. La nebbia a farci vedere la fine della lunga strada frantumata. Tagliata. Una gran vallata davanti a noi. Il vuoto. I monti bellissimi attorno.

Cosa? dico io.

Dobbiamo tornare indietro. Ci serve una nuova strada.

Cosa? dico guardando ancora il precipizio. Scrutando per vedere se dall’altro lato qualcosa qualcuno ci fa un cenno. Se vuole dirci qualcosa. È come il finale di Dellamorte Dellamore, brava Anna Falchi in quel film, sono tutto frastornato.

Poi penso ai nostri giretti nel bosco, a Catalina che dice: Guarda è una merda di lupo, è pelosa.

Resto seduto. Gambe a penzolare, pensieri a casaccio. Lei insiste: Facciamo qualcosa? poi si siede sconsolata. Mi dà un pezzo di acqua, sospira, guarda le stelle, e non dico nulla.

Illustrazione di David Plunkert