Karōshi | Retina

Per un io lirico esprimere la propria esperienza (spesso, la propria pena), equivale a rappresentarsi, nell’arena di una poesia, come detentore di un dolore unico e speciale, così tanto da crederlo utile ai propri simili. In questo l’io lirico confessa, accusa e sfoga, e bellissimo e pieno di pathos ricade nell’egopatia che l’aveva condotto a quella coraggiosissima e un po’ autoritaria parola io. Può succedere però anche il contrario: che un io lirico più coraggioso e sincero tenti di donarsi al testo con l’umiltà di scomparire in esso, di affiorare e affondare ancora come la verità che cerca. E allora diventa una scena, qui particolare, privata, sconosciuta se non alle retine degli occhi interni, una scena forse archiviata nelle viscere da generazioni da cui emerge un nome impronunciabile o pronunciabile solo nel silenzio. E in quel silenzio si ritrova una concreta e materica vecchia sarta che con gesto creativo e liturgico prova a recuperarsi, a non disperdersi nel caos che la chiama, a vivere ancora nella tremenda violenza di un nome indicibile, di un’origine perduta per sempre, poiché mai avuta. Ogni occhio che passa passa e non comprende, interpreta quelle stoffe come mostra d’orgoglio identica alla propria superbia e non vuol vedere. Che le stoffe che lei tesse senza pace sono ciò che l’essere umano non ha mai smesso di fare: tentare di riprodurre nella materia, con la materia, l’angoscia di non aversi.


(Lorenzo Lombardo)

Retina

Dal vetro, verso l’interno:
ossatura perlacea di plastica
un manichino mantiene la posa,
la faccia vuota estatica – premuta
in un grande cappello. Agli altri
identico, occupa il margine
estremo del pavimento.

Su di esso scende copiosa
una luce azzurrognola – aspersione,
battesimo celere: chi passa alimenta
la doccia elastica, il nodo
lento; la morsa; le braccia
lunghe d’inverno.

Dietro:

retrobottega.
Una vecchia che mastica
quel ronzio caldo e sudato
sul tavolo;
s’agita, ferma, in un punto:
lo segna precisa, assetata
del prossimo; in scia
pulitissima alterna
allo spazio il suo rovescio:
sistema binario,
vita – decesso – vita – decesso.

Una voce nasale introduce i clienti.
Si fanno avanti, specchiano
gli occhi sulle pareti.
I passi vanno e vengono
i posti sempre occupati:
così il pubblico fronteggia
i retroscena.

Retrobottega.
La sarta non si dà pena
dei suoi burattini; la irrita
l’esposizione violenta
degli arti: gli zigomi alti,
gli occhiali pigiati, lei vuole
soltanto la stoffa distesa: pianura
inaudita, retina orizzontale
a fiaccarle le dita, la superficie
ultima; una terra
da consolare.
Ripete sempre
quel salto dal piede
alla sedia: sventola
un nome, bianco,
le lettere chiuse
sotto qualche strato.

Nella mano che sale,
che scende, che cerca,
qualche volta il nome
si dimena; non emerge.

Allora sbaglia,
riproduce lo strappo.

Rattoppa. Ricuce.

Un tratto – uno spazio – un
tratto – uno spazio – mare
aperto – un tratto – uno strazio –

Dov’ero rimasta?

Solleva lo sguardo.

Vede soltanto una fronte piana,
distesa, e una barca fiaccata:
come lingua strana,
in mezzo alle labbra
di plastica.

Dov’ero rimasta?

Mastica e chiama.

Un nome che sale,
che scende, che cerca.
Si dimena; non emerge.
Si dimena non emerge
dalla tela.

Dov’ero rim–astica e chiama.

Si nasce si cresce ci si assottiglia.

Mi somiglia sempre.

Si chiama:

Karōshi – Retina – Regia di Bonifacio del Dubbio, riprese di Marco Bavarino

Karōshi (過労死), è un progetto spoken word music nato dall’unione della musica elettronica di SOFIA_ con i testi di Elena Cappai Bonanni. Nel 2022 è risultato vincitore al Premio Roberto Sanesi di poesia in musica. Il loro primo album, dal titolo omonimo, è in uscita per ENF/RBN a marzo 2023.

Testo e voce Elena Cappai Bonanni
Musica SOFIA_
PRODUZIONE ENF/rbn, 2022

Che non sono pronto | Il Collettivo della Solitudine

Il dizionario semantico della pandemia, diffusosi tempestivamente e con insistenza nella nostra vita d’ogni giorno dentro la macchina del capitale, ci ha insegnato un nuovo accostamento di valenze di significato. È una delle strategie, forse la più potente, che i governi mettono in atto quando cigni neri come lo stato epidemico attuale rendono “necessarie” pronte misure di contenimento. Per questo, tutti gli emittenti di narrazione e discorso (Internet e social network, televisione, giornali), chi a favore e chi contro, hanno contribuito a plasmare delle nuove associazioni, rimodulando la nostra idea di contatto e corpo e associandola a quella di pericolo e contagio.

Che non sono pronto, poesia musicata de Il Collettivo della Solitudine, narra con profonda oggettività e malinconia il dramma delle voci nascoste, degli estinti, di quella manica di umanità che sa che il nostro bisogno fisico non è cessato. La musica, scandita da funerari accordi minori, ci riporta alla monotonia assillante e chiusa di una vita protetta, chirurgicamente asettica ma triste e bisognosa di contatto. Così si profilano i lineamenti di quei gesti e quelle esperienze un tempo talmente stratificate nelle nostre abitudini da passare inosservate, come il tocco dell’aria fresca, l’abbraccio di un simile o il suono della voce di un altro essere umano. La domanda di fondo che corre inesorabile lungo tutta la poesia è allora questa: saremo ancora considerabili esseri viventi se la qualità organica di toccarci e di trasmetterci calore con la vicinanza dovesse venir meno? Saremo ancora considerabili branco, se il nostro stare insieme è veicolato da schermi e immagini bidimensionale, forieri di una morte del corpo che ha l’estetica delle lapidi?

Accanto a questo dubbio post-umano, tanto applicabile alla pandemia quanto allo stadio di tecnologicizzazione e conseguente digitalizzazione delle relazioni umane cui il progresso e le ragioni di mercato ci stanno conducendo, si scorge velata anche una critica al mondo precedente la pandemia: ciò che chiamiamo comunità e che ispira in noi senso di comunione e di fratellanza è, come la paura, come l’epidemia, una parola, un rituale o meglio un’associazione semantica stabilita dalla gerarchia governante e dal suo storytelling. Al ristrutturare di questi significanti e significati viene meno anche la reazione che ad essi abbiamo legato, il processo di stimolo-risposta. Possiamo stare in gruppo solo e unicamente con i rituali del nostro tempo, e venuti meno i mitologemi e i dispositivi che ci tengono uniti e forniscono al nostro mondo interiore la nozione di insieme, di gruppo o di altro come la liturgia della scuola, […] dell’assemblea, dei riti […], di tutto il teatro possibile delle bevute fatte in cerchio, viene a cercarci la nostalgia. Nostalgia di un mondo non virtuale, virulento e vero come la vita.

(Lorenzo Lombardo)

Che non sono pronto

Che non sono pronto, questo ho capito
ieri al supermercato
osservando distanza d’un metro
osservando quelle facce di altri
chiedersi se l’aria sia ostile
proprio come ho fatto io.

Non sono pronto a salutare
a un tempo in cui temere i fratelli
a perdere il privilegio del tocco
sfiorare casuale di corpi
stare caldi e odorosi, insieme
fastidiosamente a volte, ma insieme
sui mezzi, nelle piazze.

Non sono pronto a vedervi i volti
sottilissimi costretti da schermi
con l’estetica delle lapidi,
a non sapere da dove sbuca la voce
a perdere l’unicità di ogni voce,
vedervi frammentati e intangibili
come – a volte – nei sogni – gli estinti.

A perdere la liturgia della scuola
non sono pronto
dell’assemblea, dei riti a cui non credo
di tutto il teatro possibile
delle bevute fatte in cerchio.

A questa virtualissima relazione
che mi assomiglia a quella dei morti
io non sono pronto.

Non sono pronto a svestirmi
della qualità di questo esser vivo:
osservare forse la morte
mantenendo una certa distanza.

Parole di Davide del Grosso
Suoni di Ilaria Lemmo

Whore on acid | La realtà è una guerra in acido

Ciò che è vero e normale è codificato, già stabilito e tradizionalmente accettato, e diventa ben presto indice di scrematura e rimozione di quel superfluo. È questo “superfluo”, spesso tacciato d’essere inutile o improduttivo, che l’indagine compiuta da Valentina Giacuzzo – aka Whore On Acid – tenta di scagionare e di salvare nei lavori oggi presentati da «Neutopia», riscoprendolo squisita esperienza metafisica e transensoriale.

Ervin Goffman ha spesso parlato del concetto di “stigmatizzazione” di un individuo all’interno di un istituto psichiatrico o di una prigione, definiti da lui come “istituzioni totali”[1] per il loro potere di tracciare un limite ben definito tra sanità e malattia mentale e separare dunque lo staff (chi si occupa, attraverso le svariate mansioni, di reintegrare un individuo all’interno della società che lo ha escluso) dal paziente (chi svia da un comportamento socialmente accettabile e produttivo). Lo studio di Goffman, che va ad ampliare il filone aperto già da Michel Foucault con la sua Storia della Follia in Età Classica  (Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique, 1961), descrive un’istituzione più ampia, quella della nostra società liberale e capitalista, come fortemente segnata dalla narrazione – fittizia – della verità e della normalità.

Can You Hear My Heart, pensato per comunicare la realtà di sovraccarico di un sistema psichico disturbato da voci e suoni ripetentesi a intermittenze, è costruito attraverso un interessante stratagemma, essendo il testo una traduzione automatica operata dagli algoritmi traduttivi della piattaforma YouTube. Lungi dal rappresentare un facile escamotage per la composizione di un brano, la tecnica qui messa in atto dall’autrice è in grado di edificare, attraverso un procedimento simile al ready-made, un effetto sensoriale ben specifico, avvicinando l’ascoltatore ai sintomi di paracusia, allucinazione positiva e schizofrenia.

Es Dominion, invece, brano dalla matrice testuale più complessa e organizzata, è un trittico che indaga la reazione di un sistema cognitivo-comportamentale alla realizzazione della psicopatologia, ovvero la reclusione o autoreclusione cui l’individuo stigmatizzato è destinato nella società odierna. In esso viene descritto infatti lo sforzo, impossibile da compiere, di escludere realmente le logiche irrazionali e simboliche della nostra psiche dalle azioni quotidiane. La guarigione e il ritorno ad una regolarità accettata dall’ecosistema umano sono, per questo, tentativi frustrati di assettarsi a un confine impossibile.

Nella prima parte del brano, il modello virtuale di una realtà reale e univoca è arso, bruciato dal “blue spectrum of fire” il cui rogo rade al suolo la città, metafora di quell’insieme di norme scritte e agrafe che governano la sopravvivenza del branco all’interno dell’ingranaggio sociale e la produzione ad esso sottesa. La guerra cui fa dunque riferimento il progetto più ampio nel quale Es Dominion è inserito si prefigura così non solo come il netto contrasto tra interiorità ed esteriorità, ma anche come il fagocitare assoluto della prima nei confronti della seconda. La natura di questo conflitto è psichedelica, lisergica, poiché sempre combattuta nel mondo inaspettato e imprevedibile di corrispondenze che a partire dai traumi generano la nostra autocoscienza.

La seconda parte del brano, che richiama più da vicino Can You Hear My Heart, tenta infatti di restituire, attraverso la sovrapposizione e la ripetizione di input verbali tra loro incoerenti e contraddittori, il gomitolo di istanze e impulsi che attanagliano la mente quando è labile e perduta nella dispercezione, che è qui rappresentata non come la devianza da un modello “corretto” di percezione, bensì come la natura ultima e concreta della percezione stessa.

Il risultato a cui si giunge è l’esclusione, che è anche il tema della terza e ultima scena del brano. Un’esclusione serena, quasi stoica, in cui il soggetto si accartoccia su se stesso in un rifugio di “Pink radial ribs”, un ventre costruito da chi lo abita, accettando a braccia aperte lo spazio animalesco e antico di una mente liberatasi dall’imposizione della sanità. Ciò che era stato additato come mostro è in realtà sublime,  enorme, incomprensibile e ricco di segreti come l’abisso, rivelando un giacimento-fiumana di scoperte interiori tali da superare l’esteriorità ed il fenomeno per diventare metafisiche.

A questa riflessione circa il rapporto tra psiche polimorfa e sanità mentale se ne affianca un altro, non meno importante, volto a indagare la relazione tra lingua e realtà. Il linguaggio difetta della capacità di esprimere e comunicare realmente il sé, e i due brani qui presentati, specialmente Can You Hear my Heart, tentano di consacrare la nascita di un nuovo codice insieme linguistico e a-linguisitico, significante e aleatorio, fatto di suggestioni, risposte sensoriali autonome,  sussurri, distorsioni. Su questo comparto tecnico di effetti sonori si installa poi l’utilizzo di un inglese liberato dalla sua caratterizzazione coloniale che vuole sempre contrapposti il “buon inglese” all’inglese degli emigrati. Quello di Valentina Giacuzzo è un inglese di tutti e scevro dai nazionalismi, scelta grazie alla quale l’autrice ha potuto collaborare anche con uno dei progetti cross-linguistici e transcreazionistici più importanti per quanto riguarda la lingua inglese, quello organizzato dal collettivo Mother Tongues, con sede a Londra.

Se la performance recitativa è volutamente offuscata e soffusa, tanto da rendere ostico in alcuni tratti l’ascolto del testo, fortificando ancora di più l’idea di ambiguità, liminalità e polimorfismo, la musica che l’accompagna è costruita ad hoc per trasmettere sensazioni d’ansia e paranoia ed evocare atmosfere peste e soffocanti. A un lieve sgocciolio elettronico sono accostati, infatti, grevi e improvvisi violini, quasi strattoni volti a spezzare la tranquillità dell’ascoltatore inoculando in lui disagio, paura e solitudine e trasportandolo con forza in un mondo di alienazione e incomprensibilità.

(Lorenzo Lombardo)

Es Dominion

This is Reality is an acid war
The section of the city appears on fire
It burning like a hypnotic forest.
We live in the blue spectrum of fire
While the stake changes the physiognomy of what happens
Let’s rewrite the map
Every day, daily exercise
Setting references, keeeping lucidity
Remain in the logical axis
Expect the Accidental
We crawl along plastic walls
Smell of burning glass
Emerging from dark water

Asphalt segments are fords
Where are we going?
The spectrum burns the perceptual fibers
But we know it: it is the subsoil
Of my body, point two references,
Change of shape/
confidence and intuitions

The obelisks stand out
in the reality illuminated by the sun
But we don’t understand its symbols.
Hot flashes on the metal armor
Our codes here are not valid
The mysteriously changing order
Alienating revolt
Illogical…

Peace is recognizing the shadow.

II:

IO
DO IT DON T DO THAT
DO IT
I’M MAKING AN EFFORT
I’M MAKING AN EFFORT

DON’T THAT
DO IT
DO IT
DO IT

I ‘MAKING AN EFFORT

III:

Imagination organizes the remedy:
a gush that allows you to breathe
like the greatest of sea creatures,
cetaceans etymologically calls them monsters,

they live sunke,
they seek air emerging from the waves
to avoid to fall into complete unconsciousness.

Living in perceptive depth
Resurfacing through restorative images:
the greater the danger
the greater what saves

Clear morning light on the shoreline
center of Metaphysical  force
A belly built by who is inhabit it,
the womb is carved in crystal,
to find shelter in beauty.

Language is distance
Is a vision
here’s
an image


I built my house of pink radial ribs
My essence is inside a shell
between the dunes you imagine of a sandy beach
evoked by the very reality that still wants me present
Lucid

Knees bent towards the chest
The Mother of pearl caresses my forehead
Fatigued by the crystallization of obsessive shadows.
My home , self-centered of illusions was built in a dream
It is a fascination  surfaced by my unconscious
Magical addiction.

***

Questa è la realtà è una guerra in acido
La sezione della città appare in fiamme
Brucia come una foresta ipnotica.
Viviamo nello spettro blu del fuoco
Mentre il rogo cambia la fisionomia di ciò che accade
Riscriviamo la mappa
Ogni giorno, esercizio quotidiano
Settare riferimenti, mantenere lucidità
Rimanere nell’asse logico
Aspettarsi l’Accidentale
Strisciamo contro muri plastici
Odore di combustione di vetro

Emerge dall’acqua scura

Segmenti di asfalto sono guadi
Dove stiamo andando?
Lo spettro brucia le fibre percettive
Ma lo conosciamo: è il sottosuolo
Del mio corpo, punta due riferimenti,
Cambiamento di forma e
Intuizioni

Gli obelischi svettano nella realtà illuminata dal sole
Ma non ne comprendiamo i simboli.
Vampate incandescenti sulle armature metalliche
I nostri codici qui non valgono.
L’ordine misteriosamente mutevole
Rivolta straniante
Smarrimento

Assurdità

La quiete è riconoscere l’ombra.

II:

IO
FALLO NON FARLO
FALLO
STO FACENDO UNO SFORZO
STO FACENDO UNO SFORZO
NON FARE QUELLO
FALLO
FALLO
FALLO
STO FACENDO UNO SFORZO

III:

L’immaginazione organizza il rimedio:
uno zampillo che ti fa respirare
come la più grande delle creature marine,
i cetacei li chiamano etimologicamente mostri,
vivono affondate, cercano l’aria che emerge dalle onde
per evitare di cadere in completa incoscienza.

Vivere in profondità percettiva
Riemergere attraverso immagini restaurative:
maggiore è il pericolo maggiore è ciò che risparmia

Chiara luce mattutina sulla battigia
centro di forza metafisica
Un ventre costruito da chi lo abita,
il grembo è scolpito nel cristallo,
per trovare rifugio nella bellezza.

La lingua è distanza
È una visione
ecco
un’immagine

Ho costruito la mia casa di costole radiali rosa
La mia essenza è dentro un guscio
tra le dune immagini una spiaggia sabbiosa
evocata dalla stessa realtà che ancora mi vuole
presente
Lucida

Ginocchia piegate verso il petto
La Madreperla mi accarezza la fronte
Affaticato dalla cristallizzazione di ombre ossessive.
La mia casa, egocentrica di illusioni, è stata costruita in un sogno
È un fascino emerso dal mio inconscio
Dipendenza magica.

Testo e musica di Valentina Giacuzzo
Traduzione di Lorenzo Lombardo
Illustrazione di Lulu Lin


[1] Vedi Goffman, Ervin (1961) Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates, trad. Franca Basaglia (1968), Einaudi, Torino.

Un allegro tic all’occhio

La poesia di Donatella è la poesia di una moderna druida, un canto silvano, fungino, agreste.  In lei e nei suoi versi prende forma lo scontro tra spirito e individuo. Il primo porta avanti a denti stretti l’idea, necessaria oggi più che mai, che non vi sia reale differenza tra uomo e natura, ma che anzi l’uomo non sia differente da alberi e piante, che anch’esso sia diramato dalla terra come una radice. Il secondo, invece, non consapevole della sua strutturale unità con l’ecosistema e l’universo di cui è manifestazione, tenta con l’altro una fusione inevitabilmente frustrata.  Una natura naturante nello spirito ma innaturale nella persona e nell’unione, che è sperata, provata eppure impossibile e si accorda a quell’impossibile sincronia di particella e onda che configura la realtà stessa ed il meraviglioso scatto fulmineo, rapace dell’amore.
È forse questo il tratto più pregnante de Un allegro tic all’occhio, contenuta nella raccolta Tenere Casa in Ordine, edita da Secop nel 2017. La presenza dell’altro, irrinunciabile attività di traduzione mai fedele, è simbioticamente invischiata ad un complesso simbolico alberoso, muschioso, georgico, verde. L’incontro con l’altro collima nell’incontro con una natura di fertilità invincibile, talmente lussuriosa da essere decadente, soffocante l’io e le sue ragioni nell’abbraccio ramoso e legnoso della foresta, nel silenzio carico di energia del seme. La natura non conosce, difatti, né il bene né il male, solo la sua legge di costante progressione e trasformazione, a tratti benevola, a tratti cieca agli occhi di chi vuole irretirla con una morale.
L’amore non corrisposto, che è al centro della composizione, è in un primo strato il senso di rifiuto di una donna nei confronti di un uomo, ma in un secondo è il senso di esclusione dalla Natura, e di conseguente frustrazione, che caratterizza gli esseri umani moderni e contemporanei. Se ne evince un tic all’occhio, uno spasmo muscolare come il segnale di una paura o un dolore non completamente compresi e disvelati.
Vi è dunque un equilibrio osmotico e labile: la consapevolezza di essere tutti un tutt’uno, un miscuglio eterogeneo di piante, animali, ricordi, semi, facce, umani, stradine di campagna e palazzi si contrappone ferocemente all’idea di persona, che è parziale, menomata, scattante nel suo tentativo di recuperare al livello fisico (nel rapporto con l’altro) quell’unità che sa di avere con esso al livello spirituale, ma che vede ogni giorno frustrata nel mondo della causalità che è il mondo degli occhi e delle orecchie, e dei sensi.
La musica che accompagna questa irrequieta voce è tuttavia tranquillizzante, avvolgente e sinuosa. L’hangdrum, strumento musicale sin dalla sua recente nascita associato a frequenze di natura meditativa, tenta qui di lenire il dolore con vibrazione ampie come abbracci e luminose come giornate di sole, trasformando lo sforzo dell’unione panica con il tutto e con gli altri in una percezione liquida, invitante, pacificatoria.

(Lorenzo Lombardo)

un allegro tic all’occhio mi fa compagnia
un’allegria disperata che dai tuoi occhi liquidi trabocca
mi affoga
ho le ali tutte bagnate
mi porto addosso una poltiglia di piume
informe e incolore
non distinguo il mio corpo dal tuo umore acqueo
che mi riveste come membrana plasmatica
come corazza fluida come cuticola tenera
che all’aria solidifica e mi plastifica e mi
limita i movimenti il respiro
non posso gonfiare appieno i polmoni
sto stretta qui dentro sto stretta
gratto gratto graffio
lacero il mio filtro e mi lacero
mi disidrato nella libertà della pelle
che non sa più essere pelle
e si sgretola e mi sgretolo mi disperdo
compattami tu bagnami affogami
immergimi nei tuoi occhi liquidi
inondami
voglio solidificare sulla tua corteccia come
fungo simbionte come
lichene come resina
sedimentare dentro le tue stanze buie
strato per strato
sabbia su calcare su argilla
roccia sarò sulle tue unghie corte
terra nelle tasche nei risvolti storti dei
pantaloni
e camminerò sotto i tuoi piedi navigherò
tra le linee perfette che corrono tra
l’alluce e il ginocchio delle tue gambe
di rami e foglie
e dai buchi nella terra nasceranno
le nostre storie intrecciate
alla pasta dell’aria calda condensata sulle bocche
secche sulle mani lontane che stringono
cuori secchi
ho la gola secca e non ho mai voluto nient’altro
da te
se non fondermi con te
arrampicarmi nelle tue braccia
entrare nella tua pelle attorcigliarmi comprenderti
comprendermi incastrarmi sciogliermi in quello
che non capirò mai di te
e lasciarti intravedere quello che
non capirai mai di me
mi farò verde e in fiore e porterò frutti nutrienti
e dolci e abbondanti
trapiantami ti prego innaffiami
di notte cantami ad aprile coglimi
ti chiedo solo
una volta ancora
guardami

Donatella Gasparro · Un allegro tic all’occhio mi fa compagnia

Testo di Donatella Gasparro, da Tenere casa in ordine (Secop, 2017)
Musica di Vitantonio Gasparro
Voce dell’autrice

Madrigale

La chiave di lettura di Madrigale è molteplice: come gli antichi madrigali, non solo rappresenta un’elaborazione a più voci – in questo caso tre – che si alternano su coinvolgenti polifonie; ma è anche idealmente prodotto di una macchina. Il disco ci conduce attraverso una grande burrasca di sensazioni, ricordi, luoghi legati indissolubilmente all’archetipo della madre, delineando tre fasi: conflitto, abbandono e riconciliazione.

Cosa resta delle madri, dei figli e delle figlie, una volta smascherate le fattezze dell’asservimento della famiglia tradizionale alla produzione capitalista? E cosa rimarrà dell’essere umano, una volta repressa ogni capacità desiderante dell’individuo?

Un’odissea verso l’impersonalità del macchinario. Un’impersonalità talmente pervasiva da entrare nell’esperienza collettiva. È nell’esercizio totalizzante del desiderio che le nostre individualità sono messe al mondo per la prima volta. Una macchina liquida, non duale, senza organi, dentro la quale macchine minori sviluppano desideri e di questi si nutrono, arricchendo la nave madre con sogni e speranze che da essa vengono arricchite a loro volta. Allora la macchina mischia le voci e i traumi preesistenti, li abbraccia, li mescola in sé e li ripartorisce in una nuova, inaspettata forma.

La chiave di lettura di Madrigale è infatti molteplice: come gli antichi madrigali, non solo rappresenta un’elaborazione a più voci – in questo caso tre – che si alternano sugli arrangiamenti della chitarrista Ilaria Lemmo, realizzando coinvolgenti polifonie; ma è anche idealmente prodotto di una macchina, e da essa riorganizzato e generato. All’ascolto, nel suo sferragliare dolce, distorto come un’overdriven eppure malinconico, emotivo, amaro, il disco ci conduce attraverso una grande burrasca di sensazioni, ricordi, luoghi del trauma legati indissolubilmente all’archetipo della madre.

Nelle prime due tracce, la società è messa in discussione dalle orde di figli non voluti che ad essa tentano di tornare disperatamente.
In Ventimiglia, testo di Elena Cappai Bonanni a più voci, il tema del disagio sociale è affrontato liricamente e “a denti stretti”. Anche se la casa, un tempo luogo di protezione, adesso non ha più il tetto e lascia i suoi abitanti all’addiaccio, si delinea un più potente rifugio nella lotta e nel continuo rimando ad essa, segno che custodisce la possibilità di un cambio di paradigma. Lotta di classe, dunque, e istanza di liberazione, come vedremo in seguito, dalle categorie sessuali verso una nuova idea di genere, che superi il maschile e il femminile.

Anna al Mercato Centrale, il cui testo è un cut-up dei tre autori con voce di Chiara De Cillis, presentata anche da un arguto videoclip, affronta il tema della gentrification quale mammona borghese che tenta di rimuovere una più selvaggia, povera e verace madre originaria. Qui è il latte che proviene dal seno cattivo, per citare Melanie Klein, nella fiera opulenta e bulimica di cibo, ad essere rigettato dai conati dei poveri. La luce è indirizzata a quella zona d’ombra sempre calpestabile, evidenza della lotta mai terminata e simbolizzata nella “bomba al mercato centrale”, quello di Porta Palazzo, a Torino, storico punto di snodo delle classi meno abbienti ma sempre più teso, messo alla prova dalla violenza delle politiche private, dalla carenza di welfare.

Questo primo momento del disco, più ribelle e socialmente attivo, è seguito da una ritorsione emotiva delle voci liriche. La madre non è più il mondo sociale dalle cui braccia di cemento grezzo si è caduti. La madre adesso è la lacaniana madre del segno, la figura dal cui viso bimbe e bimbi suggono un’identità, una sicurezza, una forza o – più probabilmente – un trauma, un’incomprensione, un dubbio, un dramma. Negli ultimi tre momenti del disco questa madre è affrontata, digerita nell’abbandono e infine ricostruita nella riconciliazione e nel superamento della dialettica madre/figli.

In Certificati d’Esistenza per Animi Incendiari, testo e voce di Davide Galipò, traduzione e seconda voce di Elena Cappai Bonanni, si mette in luce un tenace conflitto con la figura materna, che rende il seme confuso e il sesso vagabondo. Il piacere si fraintende con il dolore, generando un “perenne, farabutto coito erosionale interrotto”. In questa difficile “uccisione” della madre, che permane tra le righe, l’erede non è più degno, il suo coito non è più piacevole. Nemmeno l’arte costituisce, in quest’ottica, un’impalcatura dove creazione, contestazione e invocazione riescono ancora a coesistere: “L’arte è un cadavere e noi celebriamo il suo funerale.” È così che la rivolta di quest’animo incendiario, forte di una ferita tale da riportarci all’ustione della vita, ricompone in sé perdita e perdizione con la sua primigenia volontà di bruciare e il suo rifiuto del mondo classista, cristiano e borghese. Se cade la coroncina, e con essa la capacità di preservare la specie, è perché il nuovo alfa è tutt’altro che auspicabile. Rassegnati al cattivo seme dei lasciati indietro, ci si porta nel cuore il canto delle sirene, il richiamo verso il luogo dove tutto è iniziato e dove tutto finisce, nella totale empatia verso l’altro, raggiunta incenerendo la legge della giungla.

In Moloch, testo e voce di Chiara De Cillis, è invece indagato il tema del sacrificio. Se nella traccia precedente è la via del rifiuto, frustrato ma profetico e indovino, ad essere intrapresa, in questa si canta di un profondo abbandono. È l’abbandono del self alla mercé del dio Vita, che qui ha le fattezze del Moloch, divinità cananaica divoratrice di infanti. La Vita divora la vita, Artemide uccide la cerva, la madre è divorata dal padre e da se stessa e in se stessa genera un frutto che si auto-divora. Tuttavia, Moloch supera l’orizzonte nichilista per brillare di luce propria. Nel frutto, ci svela l’epilogo, c’è qualcosa di nuovo. Non si brinda all’olocausto che si attraversa, ma attraverso di esso, come un Lete di fiamma, si è purificati e nuovi. Un seme di redenzione, una parziale salvezza dalla stirpe e dalle sue lame incandescenti, è scivolato dalla casualità alla terra e adesso può fiorire, rendere capaci ad accettare il latte di un essere diverso da sé. Dal colostro di Thanatos si alimenta la luce di un nuovo sole, capace di unirsi con l’altro nella vita e non nel sacrificio, di superare l’ossessione soffocante delle braccia materne nelle braccia fresche e nuove di un altro mondo inesplorato e vivido, di un’altra riva a cui approdare.

Questa riconciliazione con la propria stirpe è narrata dall’ultima traccia, Matria, di Elena Cappai Bonanni. Già il titolo ci dice qualcosa di profondo: non è più la terra dei padri quella a cui fare ritorno, ma la terra delle madri. Madri redivive nel corpo delle figlie, nei segni lasciati dalla malattia, ereditata come un marchio e percorsa a ritroso. Un ritorno alla madre è, infatti, un ritorno alla verità che tutti siamo stati, un ritorno all’origine, al luogo dal quale il tutto, che adesso cammina e soffre, è sbocciato e si è diramato. La decomposizione della madre è qui ribaltata: la morte è un “reato grave e diffuso”, quasi un mito da superare. Ciò con cui ci si riconcilia è la consapevolezza della trasformazione e del mutamento, scorrendo la luce, accettando la spinta dinastica, che è più una caduta, un precipitare attivo in cui si dà forma all’amore e al dolore nel loro sempiterno compenetrarsi.

Questo mondo emotivo e psicologico, tempestoso e a tratti funesto, è guidato dal paradigma postmoderno della destrutturazione del linguaggio su vari aspetti. All’idea infatti dell’alma mater meccanica, anti-edipica di derivazione deleuziana si affianca una destrutturazione del linguaggio tipicamente postmoderna, che frantuma gli stilemi classici del madrigale ma anche della canzone e della recitazione. Il contrappunto di diversi sistemi linguistici in traduzione (l’alternarsi, ad esempio, di strofe in italiano e strofe in spagnolo, nella traccia Certificati d’Esistenza per Animi Incendiari) o di diversi sistemi semiotici (la presenza di messaggi criptati in codice morse in Ventimiglia) è infatti reso ancora più forte dal cibernetico smantellamento del linguaggio nella tecnica del cut-up, che smonta le individualità che hanno lavorato alla composizione dei testi per fonderle in una nuova, androgina figura artistica. Spellbinder è, infatti, una macchina che porta le vestigia dei suoi costruttori, ma che al contempo è viva e generatrice, al di là dei suoi creatori, del superamento della visione patriarcale e della separazione tra femminile e maschile, genitori e figli, auspicando una nuova, e più matura, umanità.

(Lorenzo Lombardo)

Ventimiglia

…- . -. – .. — .. –. .-.. .. .-

¿Qué haces, mi vida?
Ho perso il ritmo nella marcia.
Apri le braccia apri le braccia
apri le braccia apri le braccia
apri le – Aquí está la salida.

Per preservarmi
dal panico dei passi
portavi avanti
dissertazioni brevi

sulla necessità ginnica
di tacere il battito –
nella lotta, ovunque andassi,
portavi giù le maniche
fino all’orlo: dicevi

“agitarsi è tutta
una questione di polso”:
ci vuole la giusta
inclinazione.

Adesso bevi.

A denti stretti – a denti stretti
avviso    a tutti gli aventi
diritto – a tutti gli aventi
avviso    a tutti –
a viso aperto – a denti stretti
a venti-miglia dal confine
finestre sbattono storte: si dice
siano perquisizioni, profezie
in codice morse;

a denti stretti – a denti stretti
i loro vetri sono stelle cadenti.

No tengas miedo, cariño.
A venti miglia dal confine
non ci sono segni
di colluttazione; non ci sono tetti.

Sai, da laggiù si vedono
tutte le volte celesti;
ricordi tutte le volte
che nel sonno
ci siamo rotti
e redenti?

 

Testi e voci: Davide Galipò, Chiara De Cillis, Elena Cappai Bonanni
Musica e arrangiamenti: Ilaria Lemmo
Sound engineering e master: Alex Brattini
Artwork: Olia Svetlanova