Addict Ameba: il sogno di una pangea sonora

Addict Ameba è una balena errante
si oppone alla deriva dei continenti
nuota oceani, capta suoni dalle coste
dalle bande sulle crociere, dalle radio
poi li mixa e li canta di nuovo mentre
vanno a fondo cantano, ballano
amano chi è all’ultima spiaggia
e ci prende il sole.

Pangea: grande massa continentale che alla fine del Paleozoico si estendeva sulla superficie terrestre, alla sua frantumazione si deve l’origine dell’attuale configurazione dei continenti e bacini oceanici. Può esistere una Pangea sonora? Secondo gli Addict Ameba, nome non solo di una band ma di una famiglia sonora nata nel 2017 nel quartiere milanese di Casoretto, questo è possibile, tanto che ne fanno il loro obiettivo a lungo termine.

Poche cose al giorno d’oggi uniscono come la musica: assistendo ad un concerto siamo tutti uguali, la musica da la possibilità di viaggiare senza partire ad ognuno in egual modo. Questo lo sa bene il collettivo Addict Ameba, il quale si serve della musica per superare i confini sonori ma anche geopolitici unendo in una sola realtà diverse anime provenienti da varie parti del mondo. La forza del progetto risiede nelle radici differenti dei dieci componenti, a queste si aggiungono degli arrangiamenti originali ed eclettici. Il primo frutto degli Addict Ameba è l’album Panamor, uscito il 10 luglio per Black Sweat Record, nel quale avviene l’unione profonda esseri viventi e oggetti. Ascoltare il disco equivale a fare un viaggio nel Sud del mondo, ogni strumento disegna la rotta per un luogo differente. La chitarra ci trasporta dal latin rock al funky e ai ritmi tuareg, i fiati profumano di ethio-jazz e salsa cubana nonché di calypso ed essenze sonore caraibiche. L’ascolto di Panamor ti cattura, ti fa ballare e non ti annoia mai. Nel disco c’è spazio anche per la poesia, nel brano Panorama possiamo ascoltare insieme ai ritmi suadenti dei versi che rappresentano il manifesto del progetto. Addict Ameba non è solo musica ma anche coscienza politica, lo si sente in ogni brano del disco ma anche nel nome del gruppo che richiama volutamente la capitale etiope e tutto quello che di tragico e sprezzante si porta dietro “l’esperienza” italiana in quel suolo.

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Per entrare meglio nel mondo del collettivo e conoscere gli sviluppi futuri abbiamo fatto una chiacchierata con Paolo Cerruto, uno dei componenti.

Dalla strada allo studio di registrazione, come è avvenuto questo passaggio?

Dopo i primi concerti autoprodotti abbiamo conosciuto il Lorenz nella sua sala prove e studio, ovvero il magico Guscio, nel quartiere Casoretto di Milano. Con lui abbiamo composto nuovi pezzi e conosciuto il Dome della Black Sweat Records, etichetta che è garanzia di ricerca sonora e sperimentazione. Da questa scintilla è nata il progetto del disco, uscito il 10 luglio in vinile e digitale.

Il vostro disco Panamor, ci porta in viaggio in vari Sud del mondo e lo fa con allegria e ritmi ammalianti. Quale storia vuole raccontarci?

Nessuna in particolare, o forse molte ma insignificanti. Semplicemente quella di un gruppo di amici che ha deciso di suonare al di fuori della gabbia mentale del “genere”. A livello storico invece ci teniamo a contribuire al dibattito sulla necessità di decolonizzare il presente e il passato italiano. Ancora in troppi minimizzano il ruolo colonialista durante il fascismo e il razzismo istituzionale e sociale nostrano, spesso ridimensionato anche da insospettabili pensatori di “sinistra”. Dobbiamo renderci consapevoli del privilegio che contraddistingue chi, ad esempio, è nato in Italia con una cittadinanza e fare di tutto per migliorare le condizioni di chi vive e lavora in questo paese in situazioni di illegalità o discriminazione.

Panorama con una poesia ci descrive la vostra essenza, perché affidate il messaggio allo spoken word?

Ho deciso di inserire un testo “parlato” perché spesso durante i concerti inizio a fare freestyle. Ho iniziato con un gruppo di amici, i Masterfreesta, quasi per gioco. Dopo un po’ mi sono reso conto che improvvisare è un esercizio notevole, sia per l’elasticità mentale che poi per la scrittura, perché permette di andare oltre le strutture di frasi e linguaggio. Stavolta ho voluto scrivere una sorta di manifesto che possa orientare l’ascoltatore all’interno di un progetto così eterogeneo. Nulla più della parola con musica è in grado di lanciare un messaggio di cambiamento.

Giungla urbana, afrolatinbeat e città amara. Quale futuro per questi tre “soggetti”?

La giungla è in città, e purtroppo le città stanno distruggendo le giungle. Occorre un nuovo equilibrio tra uomo e natura. L’afrolatinbeat è un genere che abbiamo coniato per questo primo lavoro, non è detto che sopravviva al secondo disco. “Quel che non cambia è la voglia di cambiare”. Quanto alla città amara, Milano, nonostante resti la capitale mondiale della ‘ndrangheta, sembra in un momento di passaggio cruciale. Finalmente è crollata la narrazione tossica che la rendeva una città vetrina, ostaggio di turisti frettolosi e di speculatori immobiliari, sorretti da un ufficio stampa diffuso che conta anche numerosi milanesi, oltre a Beppe Sola. Speriamo in una presa di consapevolezza dei milanesi, che possano difendere luoghi storici sotto sgombero, come cascina Torchiera o il Lambretta, e chiedano un vero cambio di rotta in termini di mobilità, aree verdi e mercato immobiliare. “Non puoi cambiare il mondo ma in fondo, cambi tu e cambia un pezzo di mondo”, canta Baco Krisi, amico e rapper di Milano. L’invito è a resistere, come urlava Alberto Dubito.

(Federica Monello)

Panorama

Addict Ameba nuova scena
un raggio di luce distruggerà questa commedia
questa inedia, il va tutto bene,
nema problema

suona l’ameba dipendente
nella città amara
la nostra giungla urbana, con la groove armada
trovare nel cemento pachamama

ma il senso non si stana
la storia è sempre vana
strofe per catastrofi e per la razza umana

vagabondi siamo andiamo per il mondo
suonando strumenti anziché il clacson
balliamo l’ultimo tango
come marlon

passa l’alcool e l’accendino
vieni vicino
apri il cuore fino a farlo scoppiare in cielo

nessuno è come nessuno
ogni amore è una sberla

duemilaventi e siamo ancora in guerra
il sole brucia insieme al pianeta terra
cerca la pace dopo la tempesta

il panamor è nella tua testa
non credere al loro paradiso
il panorama è per chi resta e diserta

 

 

Musica: Addict Ameba
Testo e voce: Paolo Cerruto
Tratto da Panamor © Black Sweet Records, 2020

Vedei | Noemi De Lisi

La nostra casa è fatta di polvere.
La tua vita antica, il parto di tua madre nella camera da letto, tuo padre moribondo nella camera da letto, i nostri orgasmi nella camera da letto. Mi hai costretto nel perimetro dei tuoi detriti, a scavare nella polvere per tracciarci, a imparare il nostro linguaggio vivo, qui dove abitano i morti.
Da bambino, nella casa vecchia, aveva indicato davanti a sé, oltre la ruggine del balcone. La punta dell’unghia gli era cresciuta tutta assieme, aveva bucato l’afa squagliata del pomeriggio fino a raschiare la sagoma in lontananza: – Che cos’è? – Suo padre si era girato sulla sedia rossa di plastica attratto dal sentiero invisibile dell’unghia: – Una gru –  e aveva buttato il fumo dalla bocca appannando l’aria. 
– E che fa la gru?
– Niente fa, la vedi, per ora sta ferma, poi vola.
– E dove va? 
– Si fa i tragitti su e giù con le ali, così, ma però sempre qua torna.
Suo padre si era messo a ridere, aveva spolverato la cenere della sigaretta sulla coscia nuda: – Dai, aspettiamo quando si muove – lo aveva afferrato da sotto le ascelle e lo aveva poggiato sul ginocchio. Rosi stava scomodo in bilico sull’osso pungente e gli davano fastidio i peli, gli facevano sudare lo slip del costume,  – Stai qui con me.  – Dove abitano ora non vanno più in giro per casa in costume, perché tanto, nella città nuova, non c’è mai lo stesso vento bollente e impolverato di Palermo.

Adesso l’aria sopra le strade è aspra e rinsecchita; non si butta addosso alle cose, non le avvolge, non le copre, non le trasforma più in niente.

– Ciao, sangue mio, com’è andata?
– Mamma…
– Ch’è successo?
Sua madre smette di girare il forchettone nella pentola e guarda Rosi col bianco della pupilla che gli fa impressione; allora lui butta di nuovo la faccia accartocciata sul pavimento, e sussurra che ha preso una nota. Gli occhi di sua madre rientrano nei contorni, seppelliti fra le grinze delle palpebre strizzate; lascia il forchettone nell’acqua bollente, prende l’orlo del grembiule di cotone a quadretti, se lo mette in faccia e sparisce. Di lei rimangono solo i capelli legati in cima con un tuppo e le mani gonfie in una catena di vene: respira forte e poi grida soffocata, come faceva contro il cuscino prima che lasciassero la casa vecchia. Rosi si strappa le pellicine sul labbro col margine dei denti, le dice di smetterla, non è successo niente, non è giusto che si metta a fare così. Il professore gli ha fatto venire i nervi, e i suoi compagni pure, che schifo. Quelli, anziché difenderlo, gli hanno pure riso in faccia, quello glielo poteva solo correggere il tema; mica è stato giusto leggerlo davanti a tutti, se era sbagliato! Mica si ragiona così, qua ragionano tutti alla rovescia in ’sta città.
– Eh, ringrazia a tuo padre, che ci ha fatti trasferire… shhh, zitto, che qua è.
La porta d’ingresso si chiude con un botto. Ogni giorno suo padre torna dall’autofficina per la pausa pranzo, cammina veloce per il corridoio: prima si sente la puzza di motore mischiata alle pestate delle scarpe di ferro e poi spunta lui con la tuta blu macchiata di grasso nero, aloni e croste. Sua madre spegne il fuoco, scola la pasta e sorride: – Ciao, Salvo, è pronto. – butta due cucchiaiate di condimento con broccolo, acciughe, passolina e pinoli nella pentola coi bucatini scolati e squarati, mescola tanto per sporcare, colorare, poi fa i piatti e alla fine mette il resto in cima a ognuno, una quartara di condimento, tre montagne: – Lo sai che non ci ho pensato, di nuovo, a come chiamano qua le cose? Gli faccio al fruttivendolo di darmi un broccolo e quello mi ha preso gli sparacelli. Non mi entra in testa che qua dicono cavolfiore per dire broccolo – si mette a ridere e posa i piatti a tavola. Quando suo padre si siede, la puzza di gas di scarico e grasso di motore fa galleggiare le posate, i bicchieri, smuove tutti i contorni, è afa. Prende il contenitore con la mollica atturrata e la sparge sulla pasta facendo il verso della mitraglietta: – Perciò, e tu che hai con ’sta faccia, com’è andata a scuola? – Rosi è seduto con le mani in mezzo alle cosce, la testa bassa; alza il mento e guarda sua madre: – Niente è successo, Salvo, non t’arrabbiare… gli hanno fatto una nota. – Suo padre continua a mangiare: prende arrotolate sempre più spesse, si squarcia la bocca, si vedono le otturazioni d’oro dei molari in fondo, mastica, si sporca il pizzetto col condimento rappreso di mollica. Lascia cadere la forchetta nel piatto, una campana squillante, strappa un pezzo di busta del pane in mezzo alla tavola e se lo strofina raschiando le labbra: – Ti sei dimenticata a mettere i tovaglioli. – Scusa – sua madre salta dalla sedia e prende il rotolo di carta, glielo posa davanti. – Che minchia hai fatto? – Rosi sfila le mani dalle cosce, afferra il bordo del tavolo e gli guarda la scritta Fiat cucita sul petto della tuta. Gli dice che il professore ha portato i temi corretti, quelli in cui dovevano raccontare un bel ricordo della loro vita. Lui ha scritto di quella volta che hanno visto la gru dal balcone; che l’uccello, di lato, aveva una sola gamba, si intrecciava con l’altra solo a tratti, nei nodi delle ossa, e formava una sagoma merlettata. Da lontano, le piume appiccicate una dietro l’altra formavano dei tubi rigidi, grumi frammentati, sbiaditi, un corpo leggerissimo, vuoto. La gru era rimasta ferma davanti a loro, piegata in avanti col becco appuntito teso a raccogliere qualcosa; aspettavano che volasse. Rosi alza gli occhi sulla fronte rigata di suo padre; si è tagliato da poco i capelli, così si vede di più che ce l’ha alta come la sua. – Ha detto che è pieno di errori, uno peggio dell’altro, non sembra manco scritto in italiano. Poi ne ha letto un pezzo, e tutti si sono messi a ridere, perché c’era scritto: “Quando ero piccolo vedei una gru”.
– E perché che c’è da ridere?
– Si dice vidi.
– Ah e che ci danno i soldi per non fare niente a questo? Mica ci vai già insegnato a scuola. E tu pure che scieccu sei, non lo sai l’italiano?
Sua madre scuote la testa, il tuppo di capelli oscilla, schiocca la punta della lingua, fa come il rubinetto sgocciolante della casa vecchia.

Rosi parla smozzicando tutte le frasi, ingoia la saliva, il professore gli ha detto pure che il tema è sbagliato proprio alla base. Dovevi descrivere un ricordo reale; così, invece, cosa vuoi dimostrare?

Mi stai solo prendendo in giro, mi fai perdere tempo, ti devi rendere conto che qua siamo in prima media, ti devi abituare a pensare al concreto, senza le truffe e le favole che sei abituato a fare dalle tue parti. Le gru in città non si vedono, manco a Palermo, con tutto che sta praticamente in Africa. È inutile che scrivi queste cose; ti consiglio un bel ripasso di geografia oltre che di grammatica. Poi il professore si è messo a ripetere “vedei la cattedra, vedei la lavagna” mentre indicava i mobili della classe. A Rosi sono diventate le orecchie bollenti, gonfiate dalle risate dei suoi compagni che rimbalzavano sulle pareti e gli tornavano dentro. Si è alzato dal banco, si è avvicinato alla cattedra, ha sbattuto le mani sul piano, ha preso il suo tema e lo ha stracciato, ha fatto saltare in aria i brandelli sulle teste dei compagni, poi si è voltato, ha sputato ed è uscito dalla classe.
– Ah e sputi in faccia al professore?
– No, Salvo!
Il grido di sua madre s’intreccia al rumore dello schiaffo, della sedia che cade all’indietro. Suo padre, una creatura mitica: la metà che si sporge su di lui è l’animale; la metà nascosta sotto il tavolo è l’uomo. Le posate tremolano, un bicchiere si rovescia, annega un piatto; lo schiaffo gli storce gli occhi, gli cambia la faccia, distrugge il profilo curvo di Palermo, che lui ancora imita, raddrizza tutte le linee, le fa aguzze, traccia il nuovo percorso della sua vita.

Escono in fretta nel tardo pomeriggio, prima che suo padre ritorni da lavoro. Sua madre ha portato il trolley, quello piccolo, che non se la fida a trascinare troppo peso, però le dà fastidio questo rumore delle rotelle sul marciapiede, tossisce per coprirlo: il ronzio è una scia dietro di loro, come se lui potesse seguirla e trovarli. Rosi invece ha riempito lo zaino della scuola, lo porta come se avesse un altro corpo, uguale al suo, aggrappato alla schiena. Raggiungono la stazione dei pullman, ci staranno un giorno intero per arrivare; sono soli come l’altra volta però col tragitto rovesciato. Suo padre si era trasferito per primo; dopo un mese, gli aveva mandato i soldi e loro erano potuti salire con l’aereo. Al decollo, sua madre aveva paura e gli stringeva la mano forte: – Sangue mio, ti scanti? Ci sono io, ci sono io. – lui rideva, gli sembravano le giostre natalizie di piazzale Giotto  montate dagli zingari, quando saliva su quelle più alte, arrugginite, e vedeva i palazzi capovolti. Il pullman si accende, la città nuova comincia a scorrere dietro di loro, una scia in frantumi che li riporta solo a pezzi, capelli, sudore, unghia, sputo; non è in grado di trattenere niente al loro passaggio, non è fatta di materia, quando si attraversa non si modifica, non si formano le crepe, non si scortica per risanarsi attorno ai loro corpi, non si addensa, evapora nel freddo secco. 

Dopo il matrimonio, i suoi genitori abitavano nel palazzo più antico del quartiere Zisa; in casa, gli infissi delle porte gonfi di umidità non si chiudevamo mai completamente, neanche premendoli con  rabbia, e l’intonaco del soffitto del bagno si sbriciolava a ogni doccia, nevicava. Era la stessa casa dove sua madre è nata, da dove è passata la sua famiglia senza mai comprarla perché il mutuo era un rischio. Suo padre ha continuato a pagare l’affitto tramandato, aspettando un contratto migliore mentre Rosi veniva concepito, partorito e cresciuto mangiando patate, acciughe, carciofi, aglio. L’autofficina poi aveva chiuso, quella centrale e la succursale, e da quando aveva perso il lavoro, suo padre, giorno dopo giorno, era diventato una ragnatela. Quando Rosi passava dal salotto per andare in bagno non si voltava; lo percepiva con l’angolo dell’occhio, un grumo di polvere sfuocato sul divano, una figura trasparente e sottile, un intrico, la bava di un ragno, le lacrime. Prima di trasferirsi su, aveva cominciato a dire che quella casa non era la loro, non lo era mai stata, che si dovevano togliere le foto dei morti, che portavano sfortuna, non era una casa viva. Un giorno, aveva tirato le cornici contro le pareti, i vetri sgretolati sul pavimento, la carta lucida strappata, i capelli di sua madre nel pugno, i denti strizzati, le grida, la sua metà trasformata in un cavallo mitico, gli zoccoli contro la schiena di Rosi, a calci finché non sviene. È ’a casa ri muoitti, sì, a to vita, ’a casa, unnu viri? Puru a me figghiu ci vulissi miettiri ’u nomi ri to patri, brava, r’accussì into ’u sangu c’avi ’u pruvulazzu comu attìa, site tutt’i stissivurricatiMa viri ùora ha cuminciari a parrari italiano, ’u capisti? Chista lingua ri muotti, unnè chiù a lingua mia, minn’agghiri.[1] Siete tutti uguali, sepolti, a stare qua fermo divento una stanza come voi, ma non ci sperare, non diventerò mai questa casa. 

Rosi si era addormentato a tratti con la testa contro il finestrino del pullman, non poteva poggiarsi alla mano perché gli faceva ancora male la guancia, gli era venuto il livido. Apriva e chiudeva gli occhi spesso, vedeva l’autostrada, le luci arancioni diluviare; saltava in aria per le vibrazioni del motore, i sobbalzi delle ruote. – Guarda dove siamo – gli aveva detto sua madre stringendogli il braccio: erano usciti dal traghetto, sotto di loro, il mare d’olio; sopra di loro, i riflessi delle palme sul finestrino.

Sua madre aveva gli occhi infossati, stropicciati agli angoli, ma rideva schiarita dal giorno, fissando la città materiale lacerarsi per farli passare e poi ricucirsi usando i loro corpo come lembi.

Rosi preme le mani aperte sul finestrino: 
– Siamo tornati?
– Sì, sangue, siamo a Palermo.
– Ora andiamo nella casa vecchia?
– No, non possiamo andarci più. Ora ci vive un’altra famiglia, non te lo ricordi?
– È vero…
Il pullman continua a muoversi, ad allontanarsi dal porto, Rosi vede una gru ruotare lenta la sua meccanica e far scendere il carico su una nave, staccarlo, risollevarsi, spalancare le grandi ali curve con le piume nere, seguire lui e sua madre in volo, allungare l’ombra oscillando la punta del becco, superarli, per tracciare la mappa della loro vita.

Illustrazione di Rebecca Mock


[1] È la casa dei morti, sì, la tua vita, la casa, non lo vedi? Pure a mio figlio hai voluto mettere il nome di tuo padre, brava, così nel sangue ha la polvere come te, siete tutti gli stessi, seppelliti. Ma guarda che ora devi cominciare a parlare in italiano, hai capito? Questa lingua dei morti non è più la mia lingua, me ne devo andare.

Il gioco del bioma

È buffo pensare come sia un fatto indiscutibile che la Terra sulla quale viviamo sia così com’è, ma potrebbe essere anche completamente diversa. Le spiegazioni che ci diamo del mondo non sono che le scelte che compiamo nel tentativo di decifrarlo sulla base degli elementi visibili e invisibili di cui disponiamo.
Il fatto che per molti anni la Terra sia stata considerata piatta, ci fa intuire che il modo in cui l’uomo guarda al pianeta non è stato sempre univoco nella storia. Dimostrando che la sua rappresentazione è mutevole tanto quanto gli uomini che la guardano.
Molte delle nostre convinzioni e costruzioni riguardo la realtà sono date da come guardiamo il mondo, e possono cambiare ed evolvere a seconda di dove poniamo il nostro punto di vista.

Molte delle nostre convinzioni e costruzioni riguardo la realtà sono date da come guardiamo il mondo, e possono cambiare ed evolvere a seconda di dove poniamo il nostro punto di vista.

Nel suo scritto The Planetary Garden, Gilles Cléments, paesaggista ed ecologo francese, si diverte a giocare con quest’ultimo, stimolando la riflessione attorno a un Continente Speculativo, ovvero una possibile realtà biologica organizzata in base alle maggiori zone climatiche con la loro vegetazione, a prescindere dai continenti nella loro concezione attuale.

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Gilles Cléments, Mappa del Continente speculativo

Questo continente si presenta come una continuità biologica tra ambienti affini, a prescindere dalle grandi distanze che li separano o dall’immensità degli oceani.
Il Continente Speculativo gioca a smontare e ad assemblare la realtà, spostando il punto di vista dal nostro bioma “classico” a quello delle affinità climatiche.
Un bioma è una collezione di forme di vita compatibili. Dentro ogni bioma si possono trovare una moltitudine di biotopi, assemblage naturali – che l’uomo organizza in territori – assemblage culturali.

Il Continente Speculativo gioca a smontare e ad assemblare la realtà, spostando il punto di vista dal nostro bioma “classico” a quello delle affinità climatiche.

Guardando il Continente Speculativo, capiamo che se il pianeta vivente fosse davvero organizzato in questo modo, dovremmo cambiare completamente non solo la nostra cartografia, ma anche il nostro modo di spiegare il mondo, la sua economia e la sua politica.
Cambia tutto: da ora in poi considereremo come Continenti le singole unità biologiche che condividono zone climatiche compatibili.
Invece di riferirci al continente degli Stati Uniti d’America – dove c’è un misto di zone fredde e calde, aride e umide – dovremmo parlare del continente biocompatibile degli Stati Uniti d’America, che comprenderebbe anche metà del Brasile e la maggior parte del Gabon, tutta la Nuova Guinea e una manciata di pensioni asiatiche – cioè il bioma umido – tropicale.

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E l’Italia? Il bioma mediterraneo che definirebbe il nostro continente biocompatibile comprenderebbe, oltre allo stivale, anche il sud e l’est della Spagna, la costa mediterranea della Francia e quella della penisola balcanica. Ma anche la Grecia, la costa sud-occidentale turca e il Vicino Oriente. E ancora, le coste del Maghreb e la regione del Capo, la zona costiera californiana, il Cile centrale e la costa sud-occidentale australiana.

Cambia tutto: da ora in poi considereremo come Continenti le singole unità biologiche che condividono zone climatiche compatibili.

Guardando la carta, una domanda sorge spontanea: dov’è l’acqua? A questo punto Cléments fa calare dal cielo un grande oceano, che si poggia in forma di risaie sul nostro Continente Speculativo. Riconosciamo dunque il Continente Speculativo come possibile, o per lo meno come una delle possibilità racchiuse in potenza dalla nostra Terra.

Viene quindi naturale chiedersi come l’uomo si muoverebbe in questa nuova organizzazione climatica. Nel momento in cui vediamo stravolgere i confini conosciuti in questa nuova configurazione dei continenti, ci è impossibile non pensare a come di conseguenza cambieremmo noi, aprendo così il gioco a fantasiose speculazioni morali. Quello del bioma è infatti un gioco di possibilità, che si diverte a farci riprogrammare soluzioni con gli elementi che già abbiamo per approcciare quelli ancora sconosciuti.

Innanzitutto, la nuova configurazione delle acque ci dovrebbe far necessariamente ripensare a come gestiremmo le risorse. Se tutta l’acqua di cui disponiamo per far sopravvivere il pianeta (e noi stessi) esistesse soltanto sotto forma di riserva, come ci comporteremmo? La nostra idea di cura cambierebbe se sul suo esercizio si fondasse l’intero equilibrio della sopravvivenza?

Quello del bioma è un gioco di possibilità, che si diverte a farci riprogrammare soluzioni con gli elementi che già abbiamo per approcciare quelli ancora sconosciuti.

Dovremmo quindi mettere in discussione anche il nostro ruolo di abitanti e cittadini del continente biocompatibile. La nostra idea di confine si allargherebbe e confonderebbe, diramandosi verso terre e mari anche molto lontani da quelli che comunemente consideriamo casa. Guardandola, la forma del Continente Speculativo ci appare simile a quella di un corpo. Sembra suggerirci che potrebbero essere le sensazioni corporee che proviamo rispetto un determinato clima, l’embrione di una nuova base culturale.
Quali sarebbero gli elementi di questa unità biologica, capaci di fondare una nuova base per ciò che chiamiamo cultura?

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Mappa che mette in relazione i continenti sulla base delle affinità climatiche

Questo gioco del bioma di Cléments, oltre ad aprire le divagazioni su come saremmo, ci fa mettere in discussione prima di tutto la nostra idea di cartografia, facendoci rendere conto di quanto il modo in cui vediamo il mondo influenzi l’organizzazione che diamo alla realtà.
Quando ci troviamo a leggere una proiezione cartografica del mondo, dobbiamo sempre tenere conto dell’elemento della distorsione. La distorsione è nulla rispetto al punto che posizioniamo al centro, che è anche il punto rispetto al quale determiniamo inconsciamente il sistema di lettura e interpretazione della mappa.

La proiezione classica dalla quale noi italiani siamo abituati a guardare il mondo è quella di Gerardo Mercatore, cartografo e geografo fiammingo che nel 1569 decise di posizionare al centro del suo disegno l’Europa, scampandola dal rischio della distorsione. Non possiamo di certo biasimare Gerardo per aver posizionato al centro della mappa il continente che accoglie le sue fiandre. Da dove è più istintivo partire per leggere il mondo se non dalle terre che pestiamo con i nostri piedi?
È legittimo pensare allora che un australiano non guarderà la mappa dal nostro stesso punto di vista, e che la sua zona distorta si trovi in luoghi che noi invece vediamo con chiarezza.
Pensandoci catapultati nel continente biocompatibile, con i confini sparpagliati per i sette mari, da quale punto dovremmo guardare le mappa? E cosa potrebbero insegnarci sul mondo queste nuove proiezioni?

È legittimo pensare che un australiano non guarderà la mappa dal nostro stesso punto di vista, e che la sua zona distorta si trovi in luoghi che noi invece vediamo con chiarezza.

D’altronde, i navigatori già lo sapevano: la realtà è vastissima, molto più dell’orizzonte, ed è impensabile che una sola carta sia sufficiente per decifrarne la complessità. Per questo quando con goniometri e gessetti si mettevano a tracciare la rotta, combinavano tra loro più proiezioni cartografiche.
Se, come disse Bergson in una conferenza ad Oxford – pubblicata poi nel volume Le pensé et le mouvant – «il disordine è semplicemente un ordine che non si sta cercando», allora esso è la volontà di trovare ciò che ci spinge all’organizzazione delle cose.

Le interpretazioni della carta sono tante quante le direzioni che cercano i suoi lettori, da dove partono e dove stanno andando sono fattori fondamentali affinché la mappa esegua il suo compito. Creare nuova complessità nella mappa è ciò che spinge i buoni navigatori nelle scoperte più ardite.
Con le nostre nuove carte in mano e i confini sparpagliati su diversi frammenti di terra, inizieremmo presumibilmente a guardare il cielo da nuove posizioni. E da dove se non dal cielo abbiamo sempre ricavato le interpretazioni dell’invisibile e tutto l’assemblage culturale che ne consegue?

La Terra potrebbe essere completamente diversa da quello che crediamo sia, e così l’uomo. Anche per questo, se fossimo sempre uguali a noi stessi, guarderemmo la realtà sempre nella stessa direzione, quando lei, invece, ci sta ballando intorno. Chiedersi come saremmo se fossimo completamente diversi è la parte più divertente del gioco del bioma.

Mappa del Cotinente speculativo tratta da Gilles Cléments, The Planetary Garden and other writings, University of Pennsylvania

Fotografie di Pat Perry