Caratteri: il sogno umanista non è ancora perduto

I poeti, da sempre, sono i non accreditati legislatori del mondo. La poesia ha dunque il potere – o meglio, il potenziale – di rifarlo e migliorarlo. Di costruirlo, così come avrebbe la possibilità di decostruirlo. In questa radicale operazione, l’arte e la poesia anticipano il movimento complessivo dell’umano. Questo tentativo di costruzione, inedito e, vorrei aggiungere, generoso, l’ho visto in Francesco Terzago, poeta spezzino originario di Verbania che con il suo libro Caratteri, opera multimediale che ora ha ritrovato asilo sulla pagina grazie all’editore Vydia con una prefazione di Gian Mario Villalta, è stato insignito del premio Elena Violani Landi all’Università di Bologna.
Scrivo “ritrovato” perché già nel 2016 Caratteri era stato auto-prodotto in forma di plaquette dall’autore in cento esemplari e “multimediale” poiché nasce come libro on-line, corredato da fotografie e individuato nel carattere cinese ren (人), che significa “persona”.
Non a caso, l’umanesimo è al centro di questi ventinove componimenti scritti nel corso di una decade, che Terzago suddivide in quattro momenti: come un ragno tesse la propria tela con minuzia e attenzione, così l’autore toglie i propri personaggi dalla “nebulosa ” che li contiene, e ne delinea momentaneamente i caratteri appunto, in un’overture dove il desiderio si paventa nella centrifuga d’una lavatrice e l’amore è rappresentato dall’intreccio dei calzini:

Ci domandiamo come sia possibile che calzini
e polsini si annodino tra loro nel ricongiungimento
di ogni opposto. Abbiamo fatto pace,
mi domando. Il Mare del Nord sta
per esondare dalla fotografia alle tue spalle
e la mia speranza è che ci trascini lontano.

Da Caratteri, Nebulosa, p. 10

Fin dalla Dedica iniziale, ciò che si evince è un’attenzione estrema per il dettaglio, la materia, l’orizzonte quotidiano che si sposa con l’universale, in un misurarsi costante con il tempo, altro grande tema della raccolta, e con la morte, vista come qualcosa di assolutamente naturale, che fa parte del cosmo.
Poi un largo adagio, Quasi una storia d’amore, che mette in scena la parte più intima del poeta, il suo sguardo sapientemente gozzaniano, distante da registri aulici o ampollosi, che riesce a riempire di senso le cose di ogni giorno e a trasformarle, cambiandone la forma e aggiungendo nuovi concetti.

C’era, davanti al sottopassaggio, un vecchio fusto,
un vecchio fusto di ferro – qualche volta
mi fermavo davanti a lui e ci facevo a botte.
Era un buon avversario, uno di quelli che non
si lamentano e stringono i denti. Ogni fibra
del mio essere riverberava – quasi io stessi percuotendo
il timpano del pianeta. Ero, a quel modo, sollevato
dal mondo – potevo sentire il vento sulla pelle,
il vento che in giornate come questa sgombra il cielo
di ogni fardello. E nella città decide delle
nuove distanze di ghiaccio – oggi, ciò che ci è chiaro
è ciò che ci è lontano. Hai ragione, mi dicevo, non
c’è scampo. Tornavo a casa ripetendomi che sempre
lo inseguiamo. È il lavoro – il lavoro che va
da una parte all’altra, senza dirci niente.

Da Caratteri, Esorcismo, p. 25

C’è in questa parte dell’opera una qualità narrante dei poemetti, una storia tenuta insieme da quella che in un articolo precedente per «Poesia del nostro tempo» ho definito una “poetica delle macchine”, laddove la macchina è vista – in chiave deleuziana – non soltanto come qualcosa di estraneo all’umano, ma come l’elemento desiderante che può modificare ogni nostro linguaggio e paradigma.

Era il suono di una macchina. Di questo
si stava convincendo. Non una macchina qualsiasi,
non la betoniera. Era la macchina della fine dei tempi.
Un setaccio che gira e gira e frantuma le strade,
le palazzine, le automobili parcheggiate,
le barche in rada e i crocieristi. La macchina
rompe ogni involucro, libera le sostanze.

Da Caratteri, terremoto?, p. 34

Se questa poetica potrebbe, ad una lettura superficiale, essere tacciata di troppo ottimismo, nel recitativo che costituisce le Abiure, Terzago smentisce la sua visione accelerazionista per fare posto a una riflessione maggiore in componimenti come L’uomo senza braccia, dove il progresso tecnologico viene visto anche come limite e non soltanto come “porta” verso un futuro radioso.

A quel punto è arrivato l’uomo senza braccia,
l’uomo senza braccia e senza mani. La prima porta scorrevole
si è aperta davanti a lui senza che vi fossero problemi e poi
si è richiusa alle sue spalle La voce registrata, a quel punto,
gli ha detto di fare quelle stesse cose che noi avevamo già fatto:
di mettere un dito sopra il quadrato luminoso ma lui
non aveva un dito da mettere sopra a quel quadrato.
Una delle sportelliste ha guardato in direzione dell’uomo
senza braccia e senza mani e poi ha guardato
la coda di gente che si stava formando. Ha sorriso
all’uomo d’affari che le stava davanti e gli ha chiesto
di scusarla, di darle un momento. La sportellista
si è alzata ed è andata là, dall’uomo chiuso tra una porta
e un’altra porta. Dall’uomo che non poteva obbedire.
Su, dico a lei, è già successo altre volte. Faccia
in fretta che ho da lavorare. Non so lei.
Faccia in fretta. Faccia così. Apra la bocca.

Da Caratteri, L’uomo senza braccia, p. 44

Quando il canto dello sviluppo tecnologico riprende, più avanti, è solo apparente, come nelle arie finali di Bayun, dove il “vuoto d’aria” preposto nel titolo rappresenta giocosamente una metafora dell’esistenza nella quale siamo tutti sospesi, volenti o nolenti. In questa consapevolezza c’è chi riempie “sacchetti di carta” terrorizzato dal vuoto e chi, come Terzago, si gode i fenomeni atmosferici e la struttura dell’ala dal finestrino.

È quasi come se questa nostra esistenza avesse
lasciato la presa, avesse ritratto, delle due,
la sua mano munifica. Il vuoto d’aria. Il vuoto d’aria
è un silenzio che si diffonde lungo tutta la cabina,
che scende come un balsamo bianco e ci segna
la fronte; anche il ragazzino, tre file avanti a me,
ha smesso di parlottare con sua madre e di fare
i capricci per il suo tè. Ognuno dei passeggeri
stipati con me in questa siringa di metallo, nell’aereo
della Shanghai Airlines, meraviglioso esemplare
di Boeing 767, sta pensando che il senso di ogni cosa
stia in quel segreto che risponde al nome di ‘peso’
– mentre cadiamo ci pare di non averne più, sentiamo
qualsiasi cosa dentro il nostro corpo diffondersi
e rivoltarsi. Quando, alcuni secondi più tardi
l’aereo riprende quota, so per certo che ognuno
di noi si è gonfiato d’elettricità. Sono
gonfio di elettricità, sono un rospo elettrico.

Da Caratteri, Vuoto d’aria, p. 52

Ed è questo, per me, il fattore che più d’ogni altro differenzia la raccolta di Terzago dalle altre opere dei suoi contemporanei: la consapevolezza che l’utopia, qualora percorribile, abbia senso solo nel momento in cui venga rinfrancata dalla vita, poiché senza questa, si concretizzerebbe nel suo contrario: la distopia della distruzione e del controllo, la macchina come privazione anziché come alleggerimento.
Proprio perché, come scrive lo stesso autore, “alla vita/non basta il principio – la vita è mutamento.”

Caratteri, Francesco Maria Terzago
Collana Nereidi – Poesia
© Vydia Editore, 2019

90 pagine, brossura

Foto dell’autore


𝚘𝚜𝚜𝚎𝚛𝚟𝚊𝚝𝚘𝚛𝚒𝚘 𝚍𝚘𝚖𝚎𝚜𝚝𝚒𝚌𝚘

dalle imposte socchiuse
smagliature d’ombra nella stanza
spigoli di luce e linee azzurre
sulla carne troppo pallida

sento il suo torace gonfiarsi
poi sgonfiarsi lentamente
in un espiro caldo di bestia in letargo
il suo sesso che per tensione
somiglia tanto alla sua mano

io mi attorciglio
come una serpe mi torco
cerco il punto concentrico
di quel disordine atmosferico che io chiamo
‘il pulviscolo di Venere’

– ma ci pensi
a tutte le volte che con la lingua
ti ho portato via il sonno dagli occhi

a terra in pace riposano
sigarette accartocciate sul parquet
camposanto della sera prima
pilastro di una pigrizia che è esserci
assopito ma essenziale

siamo qui da non sappiamo quanto tempo
come le querce gemelle del parco di Villa Reale

eppure non hai anche tu l’impressione
che a nutrirti sia ancora il sale?

Testo e voce: Gaia Ginevra Giorgi
Musica: Aniello Maffettone
Manovre segrete © Interno Poesia 2017

I colloqui

Da tre anni ormai avevano spostato i colloqui ad aprile, così che anche i laureati della sessione straordinaria potessero accedervi. Questo significava minori possibilità, visto che il numero delle posizioni aperte era rimasto lo stesso: il fatto veniva vissuto, dai genitori degli studenti più diligenti, come una vera e propria ingiustizia.
Quell’anno gli scritti si erano tenuti il 16 aprile. Quattro giorni dopo i risultati vennero resi pubblici e due giorni dopo ancora – giusto il tempo di rintracciare i bocciati e condurli oltre l’Arco – si diede inizio agli orali, a cui accedette circa un terzo dei candidati.
Tomas Melow comparve per ultimo dalla strada deserta, seppure in anticipo di qualche minuto rispetto all’orario previsto. Incontrò Riccardo all’ingresso dell’altissimo palazzo di cemento, sudato del nero sporco che traboccava dalle grondaie.
Quando lo vide, Riccardo sgranò gli occhi.
“Sono contento di vederti” disse, e lo abbracciò. “Non potevo pensare che anche tu…”. Restarono stretti l’uno nelle braccia dell’altro, finché le mani di Tomas scivolarono giù dalla schiena dell’amico e dondolarono nel vuoto.
Lungo il corridoio che portava all’ascensore, un ragazzo istruiva due coetanee avvalorando le sue tesi con ampi gesti delle mani.
“Dicono sia tanto bello che ti spinge a entrarci dentro.”
“Chi è che lo dice?”
“Voci.”
Una hostess in tailleur blu li intercettò nella hall e diede loro i depliant plastificati delle aziende convenzionate.
Riccardo la ringraziò, mentre Tomas guardava avanti. Salirono al terzo piano. Nella cabina, Riccardo, guardando fisso i depliant, chiese a Tomas: “Non ti sembra meraviglioso?”. Ed era a metà tra uno scherzo e una richiesta d’aiuto.

Nella cabina, Riccardo, guardando fisso i depliant, chiese a Tomas: “Non ti sembra meraviglioso?”. Ed era a metà tra uno scherzo e una richiesta d’aiuto. 

Nella sala d’attesa le luci al neon erano accese, benché fuori splendesse un gran sole e le tende fossero raggruppate in drappi agli angoli delle finestre. Tomas e Riccardo rimasero in piedi. Gli altri: chini, ricurvi sui libri o a fissare le macchie marroni nella porzione di pavimento tra le scarpe nuove. Poggiati al muro, i due amici si guardavano intorno. Riccardo si tolse lo zaino dalle spalle, vi ripose i depliant e prese un libro che aprì a caso. Tomas, che non aveva uno zaino, ripiegò i depliant e li infilò nella tasca del completo.
“Scusa, scusami…”
Tomas si accorse della voce insicura che cercava Riccardo e lo avvertì con un colpo di gomito. Riccardo alzò lo sguardo e Tomas gli indirizzò gli occhi verso chi li richiedeva.
“Scusami, posso vedere?” domandò il ragazzo seduto davanti a loro, alzando un poco il libro che teneva tra le ginocchia. Riccardo disse: “Certo” e gli mostrò la copertina del suo Vincent Van Gogh, Lettere al fratello Theo.
“Pare che Van Gogh scrivesse con la luce, o qualcosa del genere. L’ho sentito in un documentario. Pare che l’arte sia tutta una cosa sola, non importa se dipingi o, che ne so, suoni il pianoforte. E lui dipingeva, ma in fondo era come se scrivesse. Almeno così ho capito.”
Riccardo annuì lievemente.
“Qual è la tua categoria?”
“Gestione museale. Vorrei… organizzare mostre e…”
“Rischioso, non credo ci siano molti posti.”
Riccardo riabbassò lo sguardo sul libro. “Meglio provarci” disse. E poi, quasi cambiando voce: “Se scendi a compromessi con te stesso, non ne uscirai vivo comunque.”
“Io ho fatto richiesta per revisore contabile, è più sicuro.”
“Conoscevo persone che…”
“Mi è andata bene, per ora” lo interruppe il ragazzo, accennando un sorriso.
“Buona fortuna, allora.”
“Anche a te” disse. “E tu invece?”
Tomas capì che ce l’aveva con lui adesso.
Riccardo rispose al suo posto: “Altre posizioni.”
Il ragazzo dilatò l’iride: “Altre posizioni?”
“Sì” disse Tomas, e subito rifugiò i pensieri altrove.
“Caspita” disse il ragazzo con stupore. “Ho sentito dire che c’è soltanto un posto, uno soltanto ogni anno.”
Tomas annuì, senza guardarlo.
“È in gamba. Ha un bel nome da ricordare” disse Riccardo, cingendo con un braccio le spalle dell’amico.
Un tizio pallido con gli occhiali e i capelli ricci si voltò di scatto e disse “Silenzio!”, come se stesse urlando ma a voce bassa. Insieme a lui, decine di studenti si voltarono all’unisono per partecipare alla protesta.
Tomas si girò a guardarlo. Il tizio grondava sudore e gli tremavano le mani. Si guardarono negli occhi a vicenda, finché Tomas arrivò a vedergli l’anima e il tizio percepì un fastidio profondo che non sapeva spiegare. Si asciugò la fronte col dorso della mano e rigettò lo sguardo sui post-it fluorescenti che si era attaccato ai pantaloni.
Intanto Riccardo guardava Tomas. Nessuno dei due si era accorto che il ragazzo/revisore contabile si era alzato ed era a meno di un metro da loro.
“Sei il primo che conosco, che ha scelto Altre posizioni.”
“Non ce ne sono tanti” disse Tomas.
“Lo credo bene; sarai l’unico, in questa stanza. Un posto solo tra tutti i dipartimenti! Che poi, non ho mai capito quali lavori comprende.”
Tomas si decise a guardarlo davvero per la prima volta. Era basso e grassoccio. Il bordo di una maglietta bianca spuntava dal collo sbottonato della camicia.
“Pittori, scrittori, musicisti. Poeti” rispose, e mentre lo diceva si sforzava, per educazione, di mantenergli lo sguardo addosso; senza riuscirci. I suoi occhi si posavano brevemente su quelli neri di lui, per poi rimbalzare altrove, come magneti avvicinati a poli concordi.
“E a te cosa interessa?”
“È un poeta” intervenne Riccardo. “Un grande poeta.”
“Un grande poeta… e come fai a saperlo?”
“A volte anch’io butto giù dei versi, e percepisco la differenza.”
“Allora perché non hai provato anche tu? A fare il poeta intendo.”
“Non so. Non credo che mi spetti” disse Riccardo, e allargò gli angoli della bocca.
“Ci vuole tanta ispirazione, e cose così.”
“Cose così” disse Tomas, e staccò la schiena dal muro.

“Sei il primo che conosco, che ha scelto Altre posizioni.”

Un uomo in maglione rosso entrò nella sala e calò un silenzioso gelo. L’uomo fece l’appello nello stesso ordine in cui poi si sarebbero tenuti i colloqui. 
Tomas era tra gli ultimi e Riccardo poco prima. Il ragazzo che voleva fare il revisore contabile entrò quasi subito e i due gli augurarono buona fortuna. Quando uscì, si sedette e non disse più nulla. 
Ogni colloquio durava dieci minuti al massimo. Riccardo guardava la faccia di chi usciva, quando vedeva riaprirsi la porta. 
“Non mi sembrano troppo svegli” disse, finendo con una smorfia, e Tomas seppe che stava per mettersi a piangere, così gli pose il palmo della mano dietro la nuca come per sorreggerlo. 
“Chissà come lo fanno” disse Riccardo.
“Saperlo non ti serve” rispose Tomas.
“È orrendo sperare quello che ci costringono a sperare.” Guardò Tomas: “Promettimi che ce la farai” disse.
“Prometto” rispose Tomas.
“Spero chiamino prima il tuo nome, quando sarà. Voglio essere sicuro che tu…”
Il tizio sudato emise un sonoro Sshhhh! e subito dopo fecero il suo nome. Staccò di fretta i post-it dalle gambe e li infilò alla rinfusa nelle tasche. L’uomo col maglione rosso lo accompagnò dentro. Quando uscì, era più pallido di prima e lucido di un sudore che sembrava pesargli addosso.
Toccò a Riccardo. Tomas lo seguì con lo sguardo finché scomparve dietro la porta. Quindi si sedette per terra ed estrasse dalla tasca del completo una vecchia raccolta di poesie, di Fernando Pessoa. Non la aprì: la teneva in mano e accarezzava la copertina consumata. Quando Riccardo uscì gli venne incontro con un primordio di sorriso e Tomas lo ricambiò. Non disse nulla finché non lo chiamarono. Allora diede il libro a Riccardo, che lo prese senza fare domande. 
“Tienilo mentre sono dentro” gli disse. 
Riccardo lo aprì a pagina 37, dov’era la poesia dal titolo Autopsicografia. Il primo verso era sottolineato: Il poeta è un fingitore. Era stato Riccardo stesso a sottolinearlo.

Seduta davanti a Tomas, la commissione si passava alcuni fogli che ispezionava attentamente. Erano in cinque: il presidente al centro e due commissari per lato. Lo invitarono a prendere posto.
“Le sue prove scritte sono notevoli, dottor Melow” disse il presidente.
“Grazie” rispose Tomas.
“E credo che i miei colleghi siano d’accordo.” Scrutò rapidamente a destra e sinistra.
“Sì” disse il primo membro alla sua destra. “In quello che lei scrive c’è qualcosa che – mi passi il termine – mi turba. Come se ciò che dice fosse sorretto dalla pacata rassegnazione al fatto che le cose accadono.”
Tomas lo guardò e inchinò un poco la testa.
Lo interrogarono in grammatica, letteratura, storia dell’arte; poi gli passarono un foglio bianco e una penna nera.
“Componga una poesia. Versi liberi” disse il membro alla destra del presidente, e azionò il cronometro dell’orologio da polso.
Tomas prese il foglio e avvicinò la sedia al bordo del banco. Tolse il tappo alla penna, si chinò sulla carta e scrisse.
Quando ebbe finito adagiò la penna sul foglio, che fece scivolare lungo la superficie del legno.
“Bene Dottor Melow,” disse il presidente, “è tutto.” Tomas fece per alzarsi.
“Un’ultima cosa” riprese il presidente. “Una domanda di prassi. Lei ha paura di morire?”
Tomas disse sì.

“Una domanda di prassi. Lei ha paura di morire?”

La sera, quando i colloqui terminarono, gli studenti tornarono a dormire nelle loro case, avvolti nelle coperte, stretti come mai tra le braccia di madri, padri e fratelli. La luce lasciata accesa per la notte. 
Il giorno dopo furono di nuovo lì, alla stessa ora di quello precedente. 
A pochi metri dal portone del palazzo, Riccardo vacillò e si sedette sul bordo del marciapiede, che proseguiva grigio fino alla fine della strada e della città e così ancora, sotto i cavalcavia, sopra la ruggine dei binari, al fianco del mare. Poggiò i gomiti sulle ginocchia, infossò la fronte nelle mani. Tomas gli si avvicinò lentamente. 
“Secondo te esiste la verità? La verità che può dirti se hai fatto il bene o il male? Vorrei che qualcuno me la dicesse.”
“Credo che la verità sia più un sentimento che qualcosa che si dice” rispose Tomas.
“Mio padre insisteva così tanto perché seguissi i miei sogni. L’unico vecchio bastardo a dire una cosa del genere a suo figlio, di questi tempi. Che poi: che ne so di quali sono i miei sogni? Che ne so che domani mi sveglio… Io mi sarei accontentato. Mi sarei accontentato di fare una cosa qualsiasi, e chi se ne importa. Chi se ne importa, o no?”
Tomas, in piedi davanti a lui, gli si avvicinò ulteriormente e si spostò di lato. Quando la distanza glielo consentì, gli pose una mano sull’orecchio e si spinse l’altro contro la coscia, finché Riccardo non sentì più alcun rumore. 

La via portava alla parete di fondo. 
L’Arco le si apriva nel mezzo. Un grande trionfo, candido e massiccio.

Una volta che tutti gli studenti furono nella sala d’attesa, li condussero in un’aula enorme e fredda, incoerente rispetto a tutto il resto: il pavimento di marmo lucente, il soffitto affrescato con angeli in giubilo che indicavano la via.
La via portava alla parete di fondo.
L’Arco le si apriva nel mezzo. Un grande trionfo, candido e massiccio. L’architrave era sorretto da due triliti, su ciascuno dei quali emergeva una coppia di semicolonne a capitello dorico. Lungo la superficie, campeggiava una scritta a bassorilievo riempita d’oro: IN VERITATE JACET PAX. E si distinse chiaro il vocio di qualcuno che si chiedeva cosa mai significasse.
Oltre la soglia, sotto il fornice, discendeva una scalinata, di cui era possibile contare i primi tre o quattro gradini, a seconda della posizione dalla quale si osservava. La irrorava una luce pulsante e calda, come se portasse a un abisso lucente e irrinunciabile.
Disposero gli studenti in riga.
Tomas e Riccardo si misero vicini. La commissione era davanti a loro, accompagnata da una coppia di uomini enormi in abito scuro, come guardie del corpo.
L’uomo col maglione rosso fece di nuovo l’appello. Alcuni erano assenti e i due amici si accorsero che tra loro c’era il ragazzo che voleva fare il revisore contabile.
“Non importa, li troveremo” disse il presidente, procedendo a passo lento davanti alla fila.
“Abbiamo passato tutta la notte a valutare i vostri colloqui” disse. “Confidiamo di aver fatto il miglior lavoro possibile. Come sapete, il nostro paese si serve dei colloqui per garantirvi il futuro che desiderate. È nostro compito, tanto spiacevole quanto necessario, concedere questa opportunità solo a chi davvero la merita, e sollevare tutti gli altri da un triste destino d’invidia e miseria. A nome mio e di tutta la commissione, vi auguro di accogliere con serenità il verdetto e quanto ne verrà, qualunque cosa sia. Avete fatto del vostro meglio, non rimproveratevi nulla.” Prese una lunga pausa. “Ora: coloro che hanno passato la selezione saranno accompagnati all’uscita. Di là, troveranno un piccolo buffet ad aspettarli. Al contrario, coloro che purtroppo non ce l’hanno fatta saranno accompagnati oltre l’Arco. Questi ultimi avranno del tempo a disposizione per salutare chi hanno specificato nel testamento. Tutto chiaro?”
Nessuno rispose. Tomas chiuse gli occhi. Nel suo testamento non aveva specificato alcun nome. Di fianco, Riccardo, a denti serrati, intonò una nenia che si espanse leggera nel silenzio della stanza, una nenia che Tomas conosceva bene perché l’aveva inventata. Significava: non avere paura.
“Bene, cominciamo” disse il presidente, e pronunciò il primo nome. Gli uomini in abito scuro andarono a prendere una ragazza minuta, vestita di nero. Recitarono la formula: “La candidata ha espresso la volontà di intraprendere una carriera come avvocato e tutore della legge.”
Dopodiché, la sospinsero per i gomiti verso l’uscita e mentre l’attraversava qualcuno trattenne con tutto se stesso un colpo di tosse, come se il fragore potesse far detonare l’intera stanza. La commissione applaudì tiepidamente. Il presidente ripose lo sguardo sul registro e scandì il secondo nome. Subito gli uomini andarono a prendere il tizio sudato, già bianco come un cadavere.
“Il candidato ha espresso la volontà di intraprendere una carriera come tecnico di radiologia negli istituti sanitari.”
Quando questo vide che lo stavano portando verso l’Arco, si mise a urlare e a dimenarsi, a puntare i talloni sul pavimento liscio come il ghiaccio. Varcata la soglia, le grida continuarono a rimbombare nell’antro man mano che le guardie lo trascinavano giù per le scale, poi si quietarono di colpo.
I due uomini tornarono indietro soli.
Ci fu un profondo silenzio. La commissione inclinò all’unisono le teste in segno di lutto, finché il presidente fece il nome di Riccardo, che immediatamente si voltò a guardare Tomas con occhi carichi di lacrime che non sapeva versare.
“Scusa” sussurrò quando lo invitarono ad avanzare di un passo, il salto in un vuoto da cui non avrebbe fatto ritorno.
Lì, distanziato d’un metro dalla schiera compatta dei suoi fratelli, si sentì solo e sguarnito e impiegò quell’istante a ricordare con ogni forza la bontà del passato e a immaginare altre vite possibili. In una di queste faceva il falegname e costruiva i tavoli su cui mangiano le famiglie.

Nulla: un uomo, anch’egli, assemblato in fabbrica, pronto per la vita.

“Il candidato” disse il presidente “ha espresso la volontà di intraprendere una carriera molto difficile e tortuosa, che tutti noi speriamo possa comunque riservargli grandi soddisfazioni personali ed economiche, racchiusa nella categoria denominata: Altre posizioni.”
Quando vide che Riccardo veniva condotto verso l’uscita, Tomas non mosse un muscolo, come se la sua mente si fosse spinta anzitempo oltre le barriere del futuro e già sapesse. Solo sul finire dell’attraversata lo scrutò di sottecchi, sorprendendosi a sperare di scovargli lungo l’arco stretto delle spalle anche il minimo cenno di pentimento. Nulla: un uomo, anch’egli, assemblato in fabbrica, pronto per la vita; un poeta, che aveva pagato caro il prezzo del rimorso che l’avrebbe accompagnato fino alla fine dei giorni. Su cui avrebbe composto i suoi versi e fatto emozionare la gente. 
Tomas considerò la morte, il fatto che forse gli era già capitato, in passato, di morire e che in fondo bastava non pensarci. Pensò così ad altri luoghi e a quanto gli sarebbe piaciuto essere altrove e lo seppe pensare tanto intensamente da trovarcisi davvero e viverci per sempre. Poi fecero il suo nome. 

Illustrazione di Andrea Ucini

Poetrification: urbanesimo e nuova poesia

Dal 3 al 5 maggio 2019 si è svolta a Torino, nel quartiere di Barriera di Milano, la prima edizione del festival su nuova poesia e urbanismo dal titolo Poetrification_Urbanismo inverso. A un mese di distanza dalla sua chiusura, apriamo il dibattito sugli argomenti trattati pubblicando la trascrizione della conferenza di apertura a cura di Davide Galipò e Francesco Terzago.