Socchiudo gli occhi, trattengo il fiato, le braccia come ali distese ad assorbire le particelle di equilibrio diluite in uno spazio chiuso che trasuda piscio, ruggine e candeggina. L’acido lattico impregna le fibre e coagula nei muscoli delle gambe che tremano per sforzo e paura, ginocchia flesse in un inchino svogliato. Il cuore batte lento e i polmoni gonfiano i propri alveoli trasformandosi in vesciche natatorie nel tentativo inutile di farmi tornare in posizione eretta. Alzo lo sguardo al cielo, vedo il battente della finestra sfiorare un soffitto di nuvole gonfie di pioggia che pulsano come una giugulare recisa e osservo le goccioline d’acqua lottare con la forza di gravità per riuscire a galleggiare nel silenzio di un temporale.
Partivamo dall’edicola accanto al Bar Savoia in sella a biciclette cigolanti; ogni mattina le stesse strade prima di fermarci nel giardino del castello a raccogliere mozziconi di sigarette.
Bandamianto. Ci chiamavamo così fin da quelle estati senza scuola grondanti di una noia che incollava le magliette alla pelle, giornate perse dentro lo scheletro spolpato dello stabilimento Eternit, un relitto incagliato nel panorama monodimensionale delle risaie.
Partivamo dall’edicola accanto al Bar Savoia in sella a biciclette cigolanti; ogni mattina le stesse strade prima di fermarci nel giardino del castello a raccogliere mozziconi di sigarette. Poi in discesa lungo il viale alberato verso la vecchia fabbrica, dove una recinzione sbocconcellata dalle fauci degli anni fungeva da blando deterrente per un gruppo di ragazzini di provincia con le gambe da insetto stecco e gli zaini pieni di sogni sulle spalle. All’interno delle mura la carcassa del blocco uffici, invasa da piante infestanti intente a ricamare inesorabili lichenificazioni geometriche, marciva sotto il sole tra cataste di macerie e immondizia. Entravamo da una finestra, incurvavamo le schiene e ricordo che poi dovevamo camminare su di un’asse sospesa nel vuoto, in silenzio, un passo dopo l’altro, mentre il cuore martellava la gabbia toracica ogni volta che lo sguardo si perdeva nel buio della voragine sotto di noi. Raggiungevamo in fila indiana il locale mensa, l’unico rimasto intatto, anomala reliquia di un passato effimero perso nella memoria. Esuli detenuti in una prigione dorata, fumavamo tabacco bevendo birre da pochi spiccioli, immersi in luci polverose, credendo di poter sconfiggere chiunque e diventare degli eroi anche solo per un giorno, come nella canzone di Bowie.
E qualcosa in quello spazio fuori dal tempo s’impossessava dei nostri corpi, imputridiva le nostre anime ancora candide e aggrediva le speranze dell’adolescenza ossificandole in una sorta di silente brumazione.
Esuli detenuti in una prigione dorata, fumavamo tabacco bevendo birre da pochi spiccioli, immersi in luci polverose, credendo di poter sconfiggere chiunque e diventare degli eroi anche solo per un giorno, come nella canzone di Bowie.
Riemergevamo da lì mutati fin nelle molecole, col desiderio di avere ogni cosa. Subito. Cominciammo con piccoli furti, poi rapine imbevute di sangue, adrenalina pura che ci avvelenava. Ogni volta rientravamo nelle viscere pulsanti della fabbrica, cani randagi che tornano da chi li nutre sapendo di essere loro stessi un pasto e lasciavamo sempre qualcosa di noi, come l’esuviazione di un serpente che restringe invece di accrescere.
Quando è arrivata Bianca pensavo di poter cambiare vita perché le risate di una figlia sono come il soffio di una valanga, la parte intangibile di ciò che è destinato a sconvolgere tutto.
Sbagliavo.
Bianca era nata una sera d’autunno e aveva ricevuto in dote il coraggio delle foglie accartocciate che resistono sui rami e la silenziosa malinconia delle giornate nebbiose.
Inginocchiato in lacrime davanti al suo lettino, ricordo di averle mentito, promettendole che non sarei più andato laggiù, mentre lei mi stringeva il volto, in cerca di una briciola di verità. Alla fine, sorrideva e annuiva, forse trovando un flebile chiarore disperso nel profondo. Un giorno, però, quel qualcosa ha sussurrato alle nostre orecchie, ha insinuato il dubbio che Bianca fosse un pericolo per Bandamianto, una spina conficcata nelle carni che ne rallentava il passo e la fine della sua esistenza sarebbe stata un sacrificio necessario per spingersi oltre. Un istante che ha destabilizzato la tensione superficiale di una vita e ha scosso il mio cuore di padre, una mioclonia sovversiva che ha reindirizzato un destino forse già scritto.
Alla fine, Bianca sorrideva e annuiva, forse trovando un flebile chiarore disperso nel profondo.
Ora, nascosto nel bagno di un Autogrill, i ricordi diventano reali e la realtà offusca il ricordo. Ascolto la pioggia sull’asfalto del parcheggio e sento le tenebre farsi vicine. Vorrei avere nella tasca della giacca una cimosa magica che cancelli parte del passato e sovrascriva memoria con altra memoria, così da morire senza rimpianti, ma le mie lacrime annacquano quest’ultimo desiderio. Non posso dimenticare i cadaveri dei compagni che ho ucciso a uno a uno e ho abbandonato al loro solitario destino di putrefazione. E non posso dimenticare che per salvare Bianca, i suoi capelli fini, la pelle che profuma di sogni, devo essere certo che nessuno possa farle del male. Me compreso. Non ho più tempo, non posso indugiare oltre, sento che qualcosa sta già invadendo l’amigdala del mio cervello per controllare la paura. Un lampo rischiara la notte e riluce sulla mia pelle sudata e pallida. Poi ritorna il buio. Sento il bisbiglio delle ombre, recido i polsi in profondità, abbandono il corpo, fotogramma immobile che precede una mortifera dissolvenza in nero.