Tra ciliegi e robot | I due poli dell’uomo moderno

Ascolto Nicolò Gugliuzza dire i suoi versi da quando – universitario – lo conobbi in una delle molte manifestazioni letterarie in quel di Bologna, 100 Poeti per il cambiamento. Da allora, quando eravamo dei giovani studenti di lettere e di antropologia, molte scorribande si sono succedute, tra diapason suburbani e periodi di intensa attività culturale, sulla Bologna/Torino con biglietti mal timbrati. Lo ritrovo ora felicemente, nel suo Ciliegi e robot, uscito per i tipi di Edizioni del Faro alle soglie di questo 2021 che incalza. Ricevo il libro, che si presenta in un’elegante veste nera, avvolto da una busta gialla cosparsa di francobolli validi nell’UE. Sì, perché il nostro nel frattempo si è definitivamente trasferito a Bruxelles, città feconda di incontri artistici e derive esistenziali che a Nicolò hanno sempre solleticato l’intelletto e lo stomaco. Decido di leggere il suo libro camminando per strada, a voce alta, esattamente come si dovrebbe fare con un poeta orale che – più di ogni altro nella nostra generazione – ha dato vita a una serie di epifanie letterarie per me importantissime, da SALINIKA fino a «Neutopia», decretando un sodalizio artistico e umano che continua ancora oggi. Cammino lungo Corso Giulio in cerca di un ferramenta che fabbrichi ancora targhette per la posta, che in questo tempo di perdita dell’oggetto faticano a sopravvivere. Apro la prima pagina del libro alla fermata del tram 4, nello stesso quartiere dove Nicolò ha lavorato e vissuto con soggettività migranti: in esergo, una citazione di Eliade sottolinea la necessità di ripercorrere i propri passi, di andare a ritroso, per ritrovare il proprio senso e ricongiungersi all’inizio del mondo. La prima parte, Battito, contiene la produzione più sperimentale del poeta parmigiano, con l’aggiunta di qualche testo più recente. I suoi passi e i miei piedi danno il via ad un pentagramma comune di cui la città è lo spartito. In brani come Per favore non scioglierti rivedo le pulsioni oniriche di Nicolò, le sue bambole asfittiche perdersi in scenari sintetici: «Miss Pocahontas illumina il mio scheggiato volto/ piccoli tagli di un rasoio mal funzionante,/ persecuzioni giù in strada e nelle province/l’uomo alla croce ammutolisce/ nei silenzi di panchine/ adolescenti si passano Vodka rubata,/ai margini del purgatorio.»

Collage digitale dell’autore via UTSANGA

Arriva il 4, salgo e mi faccio posto tra vite decomposte e facce sbucciate ed è come se mi trovassi catapultato a mia volta nella prosodia bop di questo menestrello del XXI secolo, questo cantore di vite annebbiate prestato alla poesia che ha ammaestrato il suo dire poetico in tutte le direzioni, visibili e sonore. Viviamo i tempi che scriviamo: così mi rendo conto che in Ciliegi e robot coesistono i due poli della vita dell’uomo moderno: da una parte la natura e dall’altra – non contrapposta ma innestata, partecipe – la tecnologia, nella sua inevitabile prospettiva futurista che si consuma in «sorbetti nebulosi». Scorre veloce il paesaggio periferico dal finestrino e l’autore e amico mi ricorda, nel limpido sole di un mattino di gennaio, che «non cadranno petali di pace/ tra le scorie male illuminate/ di fiabe sordide e strazianti.» È la mia fermata. Attraverso una traversa di corso Vercelli e riprendo la lettura del libro, che proseguo a de-cantare zigzagando – i passanti cominciano a squadrarmi in modo strano: sono queste le contrade del furore, e noi quella stirpe della cassa distorta che non chiede tregua in tempo di guerra, chiamata a risolvere la crisi esplosa a causa del debito «contratto dai padri». Suda e strepita nel vuoto lasciato dall’Onda, Nicolò, riporta in auge il suono di antiche battaglie (forse) perdute, per ricordarci chi siamo stati nel sogno e chi siamo nella vita.

A ‘sto giro Venere sta coi teppisti e pullula di mala vida accarezzata e annusata, vissuta con trepidazione per un attimo.

Qui perdo l’orientamento. Il civico che mi hanno dato è sbagliato. Chiedo indicazioni a una passante che porta il cane a spasso – imbottita di sciarpa e mascherina si scuce in un «di là» senza troppe storie. Seguo il suo dito indice e sbrigo la mia commissione. Uscito dal negozio, un DRIN isterico fa percepire il mio abbandono del campo imboccando la via. La seconda parte del libro, Fuga, riporta l’esperienza più mondana e flâneuristica di Nicolò, novello giramondo che à la manière de Jules Verne si muove su paesaggi sempre diversi, da Israele ai Balcani, raccontando in poesia gli aneddoti di incontri casuali, impieghi precari, megalopoli sperdute nel suo consueto stile musicale e sincopato. È questo il caso di Vorrei essere il sassofonista, dove i versi «comprendi dunque perché/ non esistono coralli/ a decorare questi anfratti opachi,/ è la fragilità del vuoto/ a tendere il coraggio alla ricerca di una brace» testimoniano una maturazione nell’orizzonte dell’autore, che dimostra di saper dosare le parole come un musicista farebbe con le note. Se in Last Balkan Express ritornano i temi sociali, sono soprattutto poesie all’amato se stesso quelle che compongono l’impalcatura di questa sezione, fatta eccezione per qualche sparuto verso d’amore, dove ci si abbandona, per una volta, a un romanticismo ai tempi dell’occupazione. Supero Piazza Crispi e attendo che scatti il verde. È ormai giunto il momento di riprendere la via del ritorno. Passato Corso Novara, mi rilancio a capofitto nell’ultima parte della raccolta, quella più prosaica, Respiro, dove la città e le luci al neon lasciano posto a un orizzonte mediterraneo, che rievoca le radici sicane di Nicolò: così, «mentre Notre Dame tace», il sole si fa rosso come nei migliori tramonti, la «bonheur de vivre» lascia spazio a un verso più melanconico, riflessivo, dove l’età degli eroi è finita e i cieli non sono più «sfibrati» come vagoni di un treno. Al contrario, si apprezza il profumo d’acacia, la luna è agrodolce come una fetta d’arancia, fino al momento di rimettersi in viaggio per la prossima stazione, la prossima dogana, celebrando gli ultimi momenti assieme, prima della fine della pagina.


Nicolò Gugliuzza, Tra ciliegi e robot (Edizioni del Faro, 2021)
67 pagine, Collana Sonar
Copertina dell’autore

Tra ciliegi e robot

Saudade degli Oremeta | Il mondo da un tinello

Dalla spoken word al reggae, dalla bossa nova al rap, Saudade degli Oremeta è un disco che parla di una patria più ampia, quella dei viaggiatori: lo sguardo è aperto sia sui generi musicali toccati che sulle risonanze di un mondo multiforme, dalla prospettiva di chi l’ha amato e non vede l’ora di tornare a viverlo.


La saudade non è strettamente riferita ad un luogo, per quanto sia un termine che nasca con quest’intento; la si può provare per un ricordo, una persona, uno stato mentale: e qual è il luogo verso cui tre ragazzi guardano con quel dolce mescolìo di malinconia e desiderio, da un appartamento di Ostia Lido in piena quarantena, loro che sono busker e artisti, viaggiatori, curiosi, amanti della parola propria e dei racconti lontani?

Oremeta – che in dialetto Yoruba significa “tre amici” – è un trio che nasce dalla convivenza forzata di Dario ‘Cangreo’ Gabriele, armonicista nomade e poeta, Chiara Pisa, attrice, performer e insegnante di teatro, e Giulio Gaigher, batterista e produttore che ha composto musica anche per il teatro. Assieme, nei primi mesi di clausura da Covid, hanno maturato i primi brani nelle jam serali, osservando il mare, e accompagnando ad essi piccoli video per presentarli: “Un progetto che nasce in quarantena e morirà in quarantena” era la frase che accompagnava questi piccoli progetti presentati come Radiocantilene & Giulio Gaigher, fino a quando la loro traccia Diario, che si appoggia su un prezioso campione dell’iconica versione live di Almost Blue eseguita da Chet Baker a Tokyo, si classifica terza alla sezione video rap e poesia del Premio Dubito del 2020. Da lì, la volontà di mettere delle fondamenta più solide e lavorare ancora di più ad un progetto che, allora, aveva visto ancora poco l’apporto della voce di Chiara.

Gli Oremeta

Con soluzioni che toccano molti generi, dalla nuda spoken word al reggae, dalla bossa nova al rap, il disco si articola in dieci brani dove ai contributi vocali di Dario si uniscono quelli dai gusti sudamericani della Pisa. Assieme, il percorso che tentano di fare è diametralmente opposto all’immagine che ci si può aspettare dalla frase “un disco rap nato in quarantena”: se la quarantena la si associa a spazi ristretti e il rap ad una voce egoriferita, i racconti del disco dipingono storie lontane, corali (sensazione ancora più amplificata dalle intro di più brani, in cui le voci si moltiplicano con brevi sprazzi di telefonate in più lingue), in cui l’intimità dello sguardo di chi scrive va a ripescare un canto più largo. Storie di migrazioni, di lingue che si intrecciano, di difficoltà a convivere in un ambiente pieno di pregiudizi: nel loro album i tre ragazzi fanno confluire appunti di viaggio e racconti altrui, toccando Brasile e Spagna, Congo ed Italia.

È anche in questo approccio al viaggio che si legge il loro stile, che è una voce che porta in sè più influenze riconoscibili, non snaturate, rispettate e fatte fiorire con originalità: è nella piena delle strumentali, che scorrono come acqua fresca, che si raccolgono armoniche lontane, piattini trap, chitarre acustiche suonate come chi si accompagna per il canto e soluzioni sorprendentemente pop, ma è anche nella penna di Dario, che si concede di avvicinare al proprio rap il racconto, la poesia, il flusso di coscienza, spezzando le misure e inserendo in un quadro di narrazione più ampio una musicalità che è vivida e diretta, efficace e veloce come un’informazione di viaggio. I testi hanno la sorprendente capacità di suonare, così, accessibili al primo impatto, digeribili al punto da motivare l’ascoltatore ad un ritorno su quelle tracce per portarlo poi a scoprire la complessità di fondo, i legami tra immagini, il loro sentire profondo.

Questa è la vera sorpresa dell’album, esordio nato in condizioni improbabili: il poter elaborare con grande energia la nostalgia del viaggio, usando le parole e la musica come tramite. La fanno pulsare ad ogni battito, solare, conservandola dietro lo sguardo tra i ricordi ed i desideri e così facendo fondono la malinconia, come in un processo alchemico, ad un’altra componente essenziale: la speranza.  È questa luce, un po’ romantica, che illumina anche i quadri più scuri del disco – così abituati a muoversi, sembra che i tre di Oremeta vogliano ricordare che i momenti di fermo accadono, ma che l’avventura non si ferma e ripartirà.

(Isidoro Concas)

INTERLUDIO

ad abitare il pueblo ora sono
uomini senza pelle
che affidano le ossa a cartilagini chimiche

spogliati
scuoiati
non sopportano il dolore, ogni
punto del corpo è un’iride

penso ad una carezza, su di un’iride
pensi che sia rimasto amore?

non vi son più le strade in terra rossa
e non credo la terra possa respirare
da sotto il catrame che hanno
steso sulle strade
dopo averlo raschiato dalle ali dei gabbiani
che dalla grande città, al pueblo

ci vengono a morire apposta.

l’acqua costa
il sale costa
comprare il pane costa
guardare il mare, costa

hanno fatto anche il treno
si viaggia da fermi
da qualche tempo il paesaggio offre
consigli per gli acquisti
prova a pensare
quando i finestrini sono schermi

il vecchio non è ancora morto
eppure non gli manca molto
sotto le ali dell’aquila americana
lui respira da sepolto, lui
parte di un caro racconto

sulle frequenze del mondo
la voce umana
ha avuto un calo d’ascolto

le matite mangiate
dalla carta vetrata sulla quale provano
ancora e ancora e ancora
a scrivere

carta
goccia
lembo di coscia

non v’è fiore di carne
che osi schiudersi

ma io piango nella luce di una luna donna
mi lascio partorire nuovamente
e ha la pancia da madre o la falce da boia
è in un dolce nero dell’eclissi che mi ingoia
e solamente soffiando sulla pelle
mi scuoia

ad abitare il pueblo sono gli uomini senza pelle

Parole e voce di Dario Gabriele
Musica degli Oremeta

L’indicibile | Nicola Sacco

1.

Sonnecchia sulla sdraio in cucina, al buio, cullata dai lunghi fragori che rotolano sopra il tetto, nell’aria carica di elettricità. Fuori è rinforzato il vento.
Gli occhi le hanno ceduto mentre assistevano, attraverso la finestra, alle mutazioni di scena nel cielo notturno visibile nella porzione lasciata libera dalla torre anni settanta che sale dall’altro lato della strada. Le immagini impresse sulla retina transitano nel torpore, che le reinventa:

la luna è un motivo nascosto dietro masse di nubi color pulpite cronica che si sovrappongono una all’altra, si stracciano, si ridispongono a mucchi di carie e formano enormi, necrotiche zanne del giudizio pendenti dalla volta celeste.

Cambia tutto.
I nuvoloni compongono un ovale nero, femminile. Compongono una mano che si avvicina all’ovale, lo tocca, ne afferra la chioma corvina.
Poi l’arto si stacca dalla testa di donna portandosi via una gigantesca manciata di capelli.
No, è lo scalpo.
La nuvola teschio di donna si sfrangia al centro. Una bocca si spalanca, al centro della nuvola teschio di donna, per lanciare un urlo.
Tuona forte.

2.

Innocenza galleggia ancora in un sonno leggero quando percepisce dietro le palpebre un infittirsi dell’oscurità. Devono essersi spenti i lampioni sulla strada. Perfetto. Nel black-out, quando dalle finestre dell’abitato ammiccano i lumi delle torce, dei display, delle candele, la sua casa finisce per incavernarsi del tutto.
Un’improvvisa diffusione di luce la richiama alla realtà. Apre gli occhi: nella ramificazione del fulmine la sua dimora, ogni suo contorno, sono illuminati a giorno.
Cristomoi.
Resta immobile con gli occhi sbarrati, in allarme.
Da quando quella demente di Vita le ha strappato tutte le tende è la stronza luce il suo problema, non quell’esplosione tremenda che arriva ora a squassare muri, pavimento, vetri. Anche un secondo, un solo puttano secondo di luce inattesa, mentre è lì al buio in casa, a riposarsi beandosi d’aver perfezionato la mimesi del suo regno con le tenebre, può compromettere tutto.
Perché il ragazzaccio che fa il palo sulla strada fingendo di godersi una fumata notturna potrebbe scorgere, nel bagliore improvviso, torme di ratti impazziti e ben nutriti su per i pini del suo viale. O perché l’inquilina impicciona del quarto piano della palazzina anni settanta i cui balconi più alti guardano sul fianco della sua casa, e che ha fatto del suo appartamento proprio la postazione di una cecchina,  magari sta fissando proprio la finestra della sua cucina e domani si sciacquerà la bocca con il vicinato, ricamando che è stato un attimo ma l’ha sorpresa, Innocenza Sblendorio, stravaccata sulla sedia a sdraio con una smorfia di piacere sotto quei suoi occhiali da calabrone.
Non va bene. Non deve trapelare mai più nulla prima che lei abbia completato l’opera.
Tempo al tempo e tutto sarà oggetto di una sua volontaria ostensione: rovina, crollo, creature ripugnanti a motore. Altro che ecosistema dei miei coglioni, Corra’, biodiversità e biribìm biribàm, vatt’a còreche, Corra’, tu e lo straordinario patrimonio arboreo e le cinque nuove specie di invertebrati che ci hai contato, nel nostro canalone, ci hai cinquant’anni, ciuccione grande d’un figlio, stai sempre lì a contare i minuicchi e manco una responsabilità sopra alla schiena. Continua pure così, tanto sta già scritto. Sta scritto che qui ci atterrerà la asl. Sì proprio quella asl che nulla ha mai avuto da dire sulla vergogna del campo ter. Ci atterrerà magari in compagnia di altre autorità. E quello sarà il momento. Sarà un brutto momento, di paragoni e di rinfacci, sarà tutto quello che volete, la casa che cade a pezzi, i figli che stanno come stanno, cristemadonne. E ma grazie al cazzo. Avete permesso che il camposanto diventasse un fognone che non si può vedere, mio marito seppellito in una discarica, e mo’ venite a sfruconare qua dentro? Con che faccia? E sta bene, venite, venite pure a vedere cosa cazzo avete combinato, avanti, prego, eccellenze, avanti. Verificatevi ‘stammerda mo’.
Li scorticherà di rimproveri.

E in mezzo a tutto questo teatrino mostrerà con segreto compiacimento le macerie frutto del ventre suo. Il passaggio dalla rovina alla gloria per allora sarà orchestrato in modo magistrale.

Ma non prima del tempo, non questa notte, non ora, luce porca. Ora è prematuro. Un’anticipazione di schifo che aggiungerebbe solo vergogna a vergogna.
A lento rilascio, si ripete Innocenza. A lento rilascio, dev’essere.

3.

Invece l’impicciona del quarto dorme e a vagare ubriaco nell’oscurità c’è solo lo sguardo di Sebastiano Colavecchia, l’inquilino ancora sveglio che occupa da solo l’appartamento al quinto piano della palazzina anni settanta.
Se ne sta alla finestra, completamente scervellato per via di una brutta bronchite che ha preteso di curare con suffumigi a base di sconsiderate dosi di grappa.
Fino a un minuto prima era sul divano letto, dove aveva pensato di disarticolarsi mentre partiva un VHS di Pina Caratore. Con la nebbia nel cervello e l’uccello in mano, mentre scorrevano le immagini del nazierotico, si stava facendo strada un’erezione insperata. Sulla scena d’amore di Pina col nano il cazzo era completamente intostato, il pugno chiuso attorno, dai e dai, lo sburro si smuove nella sua riserva, dai e pim! Il black-out gli ha tolto il giochetto.
Si era alzato scazzatissimo, budella e sentimento incasinati più di prima, e si era messo a guardare fuori. Fuori, dove ora la fulminazione continua strappa al buio fotogrammi di case basse, imbiancate a calce, e piante gigantesche piegate dal vento. Squarci di una realtà più intensa guizzano subito risucchiati da una tenebra onnivora.
Poi succede. Nella luce che si verticalizza fulminea tra cielo e terra, Seba scorge laggiù un volto, dietro il finestrino del bagno, raggelante. Uno spettro, con i capelli che pendono dalla testa a ciuffi sporadici, tutto bianco come un cencio, gli occhi e la bocca spalancati di chi sta assistendo a uno spettacolo spaventoso. E sta guardando lui. Le mani a tappare le orecchie, come a non voler sentire neanche se stessa. Per quanto tenda istintivamente il suo, di orecchio, quello resta per Seba un urlo senza suono.
Si fa di nuovo tutto nero. Tuona forte.
Vita…
Un paio di pipistrelli in volo tracciano i loro ultimi cerchi psicotici davanti al suo naso. Una sostanza cattiva gli paralizza nervi e cervello. Col sudore ghiacciato gli fluisce via tutta la ciucca, ma ora gli sembra di essere rimasto vittima di un’intossicazione più capillare.
Cade qualche gocciolone di pioggia.

Il temporale rumoreggia ancora un poco e passa oltre i caseggiati senza fare altri danni, e come rispondendo a un direttore d’orchestra che abbia ordinato a tutti gli strumenti di silenziarsi all’unisono, anche il vento cessa di colpo.

Infine sale la preghiera che il mondo non sia mai esistito davvero oltre l’abbraccio materno a un nano nudo e deforme.

4.

Nella strada c’era gente che si chiedeva che diamine fosse quella puzza tutta nuova. Molti si lamentavano che era penetrata nelle loro abitazioni. Un fetore spesso e grasso che irritava le vie respiratorie, faceva uscire gli occhi da fuori, strozzava. Il panico dilagava per le strade. I bambini vomitavano; uomini di mezza età, già preoccupati del proprio cuore, temevano terrorizzati crisi cardiache letali. Nausea e capogiri che una donna incinta quasi abortiva.
C’era in strada pure un ragazzo sceso dalla palazzina ad angolo. Compose il numero della locale compagnia dei carabinieri e, quando i militari arrivarono sul posto, insieme a tutti gli altri si mise a indicar loro il punto da cui proveniva l’alito di gabinetto.
Il ragazzo giurava di aver visto i muri esterni della casa trasudare liquidi fecali. No, seminali. No scusate, fecali, fecali. I due carabinieri corsero lungo il viale, arrivarono sul pianerottolo con le mani a mascherina sul volto e gli occhi lacrimanti. Suonarono. Niente. Suonarono e picchiarono alla porta. Ancora niente. Forzarono la porta e si ritrovarono coi piedi in un pantano scivoloso. Merda. Merda e silenzio. Merda e nessuno. Si lanciarono un’occhiata d’intesa: era successo altre volte di sorprendere intere famiglie in uno stato di degrado simile. Altre volte, uomini e ricchioni, disperati, si erano ridotti a non uscire più dalle loro tane, abbandonandosi completamente, finendo con lo smerdare casa in ogni angolo.
Dentro la casa uno dei due carabinieri aprì una porta. C’era un ragazzo steso a pancia in giù a crogiolarsi nella pleplea. Muoveva a rana le braccia per dipartire i liquami densi e lasciare libera una porzione del pavimento. Lo osservarono un poco per capire. Dopo qualche bracciata quello iniziò poi un lavoro certosino di sistemazione di traversine e regolazione dello scartamento tra rotaie.
Gli uomini in divisa entrarono poi nel cucinino. Una signora tutta ritorta su una sdraio annerita dalla dissenteria, rantolava nel sonno.
Uno le premette due dita su un braccio, come per scrollarla delicatamente.
– Eh, che c’è? – Innocenza riemerge dall’incubo. Si ritrova davanti un giovane carabiniere. Ed eccone un altro subito dietro.
– Signora, cortesemente, ci mostra la camera di sua figlia Vita?
– Ma è presto.
– Sono le undici e un quarto, signora. È presto per lei a quest’ora?
– Voglio dire… non è il momento.
– Signora, per cortesia.
Innocenza squittisce cristomoi cristomoi, rassegnata a fare strada ai militari attraverso la casa ancora immersa nell’oscurità. Lungo il corridoio, verso camera di Vita, il giovane carabiniere si arresta all’improvviso. Qualcosa dalla stanza di Corrado ha catturato la sua attenzione. Torna due passi indietro, si affaccia: il ciuccione grande è in ginocchio, curvo sui suoi trenini senza allacciamento elettrico, che fa tutto concentrato ciuf-ciuf con la bocca. Avvertendo delle presenze inconsuete, Corrado alza la testa e le fissa come da un mondo remoto.
– Beatatté, Corra’ –, dice Innocenza e il gruppo riprende a muoversi verso la stanza di Vita.
Arrivati di fronte all’ultima porta in fondo al corridoio si bloccano raggiunti dalla voce di Corrado modulata su un lungo belato: – Hanno girato la manigliaaaa?
I carabinieri e Innocenza si squadrano, poi è il più anziano che si decide a girare la maniglia e subisce un rinculo che lo lascia pietrificato. È un’onda d’urto di buio e fetore.
– Ma che ca…
– Cristomoi – fa Innocenza alle sue spalle.
Trovato a tentoni l’interruttore, la luce si mette a tremolare. La stanzetta lampeggia davanti agli occhi. A intermittenza si svelano pezzi di vergogna, di una realtà che smania per non farsi riconoscere.
– Ossignore onnipotente – L’anziano scuote il capo.
– È tutto vero quel che dicono – mormora il più giovane.

Illustrazione di Robbie Porter