Niente di ufficiale | Intervista ai LaPlomb

Ciao Antonio,
Tu sei la voce e la penna del duo La Plomb, composto appunto da te e da Mirko Berkana. “Niente di Ufficiale” è un album che stupisce per il suo essere poliedrico, ma sicuramente una cosa che emerge e che unisce tutti i brani è la spinta all’azione, al mettersi in gioco.

Esatto. Abbiamo fondato il gruppo nel 2016. Definirei Niente di ufficiale, più che un album, una sorta di raccolta, perché in sostanza noi abbiamo iniziato postando qua e là singoli sparsi – niente di ufficiale, come dice poi il titolo – che sono confluiti nell’album solo in una seconda fase di riordino.
L’essere poliedrico dell’album possiamo considerarlo un po’ un contro, perché alla fine se segui delle regole più precise, se presenti un lavoro coerente, il mercato discografico si mostra più accogliente, ma noi ce ne siamo abbastanza fregati.

Raccontami un po’ come vi siete messi in gioco voi e come è nato questo progetto, cosa vi ha guidati nella creazione dei brani

Io e Mirko facevamo musica insieme già da prima, collaborando a progetti e approfondendo generi che con i La Plomb non c’entravano assolutamente nulla; inizialmente facevamo più elettronica, a un certo punto poi è venuto spontaneo cambiare rotta e iniziare a sperimentare su diverse sonorità ed è così che è nato questo progetto. Non c’è stata dunque un’idea precisa alla base, ma tanta voglia di esplorare le svariate possibilità creative che ci si paravano davanti.

I tuoi brani, dovessimo ricollegarli a uno stile letterario, potremmo definirli dei veri e propri flussi di coscienza con apparizioni poetiche. Così come succede nei flussi di coscienza, non sono mai simili tra loro e si accostano quindi anche a sonorità differenti. Come avviene il processo compositivo?

Abbiamo attraversato più fasi, quindi le modalità compositive sono cambiate nel tempo. Alle volte i brani nascevano dall’incontro e da quindi una creazione condivisa sin dalla partenza, in altre occasioni – ed è una modalità che tuttora utilizzo – partivo da alcuni beat trovati online, li modulavo e modificavo affinché rispondessero alle mie esigenze e scrivevo la prima bozza del testo lasciandomi ispirare dal giro melodico. Dopodiché lavoravamo insieme alla reinterpretazione del pezzo nell’home studio di Mirko, lui stravolgeva la base musicale fino a creare qualcosa di pienamente nostro e del tutto nuovo.

Il nome che avete scelto è davvero perfetto, ricorda il rumore del piombo attaccato agli ami delle canne da pesca, quando precipita rompendo la superficie liscia dell’acqua. Questa rottura violenta della quiete si sente anche in alcuni tuoi versi, penso ad esempio al finale di “Schiavi”

Mi piace molto inserire, quando posso, questi suoni onomatopeici e costruire i testi a partire da delle immagini più che da concetti. La mia è una scrittura libera dalle strutture classiche, cerco sempre di non dare dei precetti, di non spiegare tutto. Voglio che sia l’ascoltatore a interpretare e vivere le immagini che sente, non vorrei mai dare una lezioncina.

Spesso il tema principale nella musica indipendente di oggi è l’amore. Voi lo avete abbondantemente esplorato, ma nel vostro lavoro c’è anche tanto altro e un forte contenuto politico e sociale.

Sì, il contenuto politico e sociale c’è. Se poi consideri che come già detto utilizzo il flusso di coscienza come modalità di scrittura, è inevitabile che certi argomenti affiorino, perché fanno parte di ciò che uno inevitabilmente vive sulla propria pelle. A volte cerco di mandare un messaggio senza necessariamente che questo messaggio sia urlato a chi lo ascolta, col rischio che magari venga frainteso…

E qui potremmo citare il testo di Scimmie Urlatrici:Sentite quell’uomo che urla, sembra che dica delle cose sensate/ Se lo ascolto più piano mi turba, gioca soltanto e rigira frittate

Proprio così. Quel brano è nato nel momento in cui stava emergendo la scena Trap, nello specifico la sua componente più aggressiva. Avevo la sensazione che si stesse facendo a gara a chi più urlava, a chi più era esplicitamente violento nelle parole, anche magari in maniera fintamente forte. Perciò mi era venuta quest’idea delle scimmie urlatrici, per chiarire che non sempre chi urla di più è colui che comunica meglio un messaggio, anzi.

Si sente molto l’ambiente cittadino in quello che create, sia nei suoni che nelle parole. Se ci fosse uno scenario in grado di descrivere appieno il lavoro dei La Plomb, quale sarebbe?

Potrebbe essere lo scenario di un film noir con un po’ di sfumature ironiche nel mezzo, perché c’è questo mood che è sempre in bilico tra la cazzata e la roba seria. Mi piace tantissimo il contrasto tra il drammatico e il comico.

Ho scelto di parlare dei brani del duo La Plomb pur sapendo che oramai si tratta di un progetto concluso e ho preso questa decisione perché sono fermamente convinta che l’arte non abbia una data di scadenza e che se un progetto è valido lo resta nel tempo. Tuttavia non posso che chiedermi, alla fine di questa bella chiacchierata, se ci sia qualcosa che bolle in pentola anche nel tempo presente…

A livello di duo non c’è niente in pentola per il momento, abbiamo da parte qualche demo ma per ora le dinamiche della vita ci hanno portato a mettere in pausa il progetto.
Io ho invece iniziato un progetto con l’etichetta Uma records, ed è da poco uscito Excalibur, primo singolo prodotto da solista. Rispetto ai lavori del passato, questo progetto è un po’ più personale – senza essere egoriferito, sennò sarebbe una noia mortale. Parto da sensazioni personali, raccontando però comunque ciò che mi circonda e fondendolo con immagini di fantasia. Sarà uno scontro tra il mio reale e il mio immaginario.

(Chiara de Cillis)

Schiavi

Innanzitutto grazie mille dell’opportunità
mi piacerebbe dimostrarle le mie capacità
mi dica pure se per caso ha qualche necessità
può convocarmi anche la notte e mi precipito qua.
Se ha bisogno di un favore personale mi chiami
a sua disposizione sempre nonostante gli orari
faccia quello che vuole di me, mi dica quello che c’è
ordini quello che vuole, tanto uno schiavo cosa è?

Vorrei provare a parlare e a non stare zitto,
ma dopo come pago l’affitto? Io non esisto
E me lo insegnano che: sono sconfitto
ma è meglio rassegnato che restare senza vitto.
Tanto quando muoriamo diventiamo vermi
anticipo le tappe e vivo come un verme

Il cibo nella bocca è tutto quello che mi serve
e se disubbidisco dopo dimmi chi mi regge?

Schiavo dalla mattina alla sera
chissà se qualcuno di voi mi libererà
ho voglia di fare un giro in mongolfiera
e vedere se lassù mi sento libero

L’erba del vicino è sempre quella più verde
perché la taglio io con il mio pollice verde
peccato che per farlo non mi paga mai niente
tra i due indovinate chi è quello che perde.

Mi piacerebbe molto dire di più
ma io non sono Merlino e tu non sei re Artù
Uno schiavo comune discute col boss
se si vedesse in tivù, si romperebbe un tabù e non si può.

Com’è che faccio, io non ti piaccio
sono di impaccio se non ti annaffio l’orto
se non mi impiccio sono tuo figlio
quando non taccio sono un tipaccio.

E allora dimmi come funziona
indossi in testa la tua corona
la dignità di ogni persona finisce quando arrivi tu
con la pistola.

Schiavo dalla mattina alla sera
chissà se qualcuno di voi mi libererà
ho voglia di fare un giro in mongolfiera
e vedere se lassù mi sento libero

tic tic tic tac tac è tempo di cambiarsi le mutande e di cambiare verso
tic tac tic tic tac tac tic è tempo che la tigre esca dal suo recinto

Parole e voce di Antonio ‘Schiano’ Ponee
Musica di
Mirko Berkana
Foto di Antonio Cancellieri
Video dei
La Plomb

𝙻𝚊𝚗𝚒𝚖𝚊𝚕𝚎 𝚗𝚎𝚕𝚕𝚊 𝚏𝚘𝚜𝚜𝚊

L’animale nella fossa è la recording session di un tuo lavoro inedito, che raccoglie testi anch’essi per lo più inediti. È adatto ad essere performato dal vivo, com’è tra l’altro già avvenuto in anteprima lo scorso anno nel contesto dell’Art Site Fest.
Nei tuoi ultimi versi poetici, ma anche in Manovre Segrete, il legame col teatro diviene via via più evidente e inscindibile. È un processo spontaneo o scrivi già pensando alla possibile performance live?

Non compongo per la consegna orale della poesia, non volontariamente almeno. Eppure, c’è un segreto nell’organizzazione sonora e ritmica del testo, nella sua formalizzazione, che non posso ignorare. Il mio lavoro sul piano perfomativo intreccia uno studio sul testo poetico nella sua dimensione orale, e le sue problematicità in relazione ai nuovi dispositivi, a una ricerca sul paesaggio sonoro. Nella fase embrionale del progetto  – ormai tre anni fa – ho sperimentato possibilità e scambiato pratiche con svariat+ musicist+ della scena contemporanea e con artist+ di attitudine e formazione molto eterogenea, finché, nel 2016, con la pubblicazione di Sisifo, si è consolidata la collaborazione con l’artista toscano Alberto Papotto. In quel periodo la ricerca era focalizzata sulla voce come paesaggio, sulla pratica del field recording, e sullo studio dei rumori, sia vocali che concreti. Ancora lontana da una forma ritmica o elettronica, la questione performativa ruotava intorno alla costruzione di paesaggi poetici analogici e impastati.  Questo progetto, da sempre caratterizzato da una fluidità delle forme, da una disponibilità a nuove inclusioni, oggi trova un suo assetto specifico grazie alla collaborazione con il sound designer milanese Riccardo Santalucia, che ho incontrato grazie al Teatro Valdoca e con il quale ho da subito condiviso un campo di sensibilità comune. Siamo riusciti a costruire una drammaturgia sonora complessa e stratificata, a immaginare un habitat fluido e sempre rinnovabile. In questo senso il live-set può essere ripensato e immaginato nell’ottica di un lavoro site-specific.

Foto di Alessandro Trapezio

Musica, suono/rumore e poesia, viaggiano assieme o l’una si piega al volere dell’altra?

Per me i piani si intersecano, ribaltano e sovrappongono. Tutto il lavoro sta in quelle zone liminali in cui la voce è paesaggio: il paesaggio è il testo, e il testo è la voce. La musica c’entra solo relativamente, ho sempre dedicato molta più cura e attenzione ai rumori, alla pratica e alla costruzione di paesaggi. Ora hanno trovato una forma drammaturgica, quindi riescono a non esaurirsi in stanze o ambienti isolati, ma sono tesi alla produzione di un percorso.

“Tutto il lavoro sta in quelle zone liminali in cui la voce è paesaggio: il paesaggio è il testo, e il testo è la voce.”

Questa questione della drammaturgia e della costruzione di paesaggi è molto evidente, infatti, venendo al testo poetico. Un concetto che mi ha particolarmente toccata è la verticalità che ritorna, fragile – dai palazzi alle lacerazioni – e fa pensare a una sorta di teatrino di burattini. Tutti gli abitanti di questi versi sono come appesi a un filo sottile, pronto a staccarsi. Da qui la vita come esercizio di leggerezza; le parole che scegli, che sono sempre delicate se prese singolarmente, e che acquistano la sottigliezza di una lama se messe insieme. Può, secondo te, un’accurata scelta estetica salvare l’animale dalla fossa e costruire un paesaggio migliore?

Secondo me l’animale nella fossa è già un paesaggio. Ho qualche reticenza rispetto all’utilizzo di narrazioni legate al verbo “salvare” o legate alla parola “bellezza”, per me c’è già tutto ed è tutto qui. Non c’è niente da salvare, niente da migliorare. Sono più analitica in questo senso.

Foto di Alessandro Trapezio

Mi viene in mente un’immagine da Psicomagia di Jodorowsky, nello specifico il ragazzo con istinti suicidari che si ritrova sepolto vivo in una fossa, la testa in una campana di vetro dalla quale osserva banchettare una schiera di avvoltoi…

Lo conosco bene quel libro. Non ci avevo mai pensato, però effettivamente c’è una segreta connessione; il discorso è legato proprio a questo “buio largo”, che è spaventoso ma che è anche tutto quello che c’è, viene così, solo quando sei davvero quell’animale nella fossa.
Sviluppare giudizi non m’interessa particolarmente; è qualcosa che semplicemente non accade. Sono attraversata da una serie di immagini, che non vengono da lontano, ma sempre dal reale, spesso dall’autobiografico. Queste immagini poi sono tradotte, tradite, universalizzate, diventano un fatto collettivo. In questo senso sempre politico.

Sono attraversata da una serie di immagini, che non vengono da lontano, ma sempre dal reale, dall’autobiografico.

A cosa ti riferisci quando dici che c’è anche un aspetto politico?

Per me la poesia è una pratica politica a tutti gli effetti: una pratica di assoluta resistenza. Il fatto che sia una pratica di lentezza è un fattore assolutamente antieconomico, anticapitalistico. È una pratica problematica per questo sistema – e infatti, non ne viene assorbita – perché prevede un tempo dilatato, un tempo lento e dedicato a un sentire che non è produttivo.

Il fare creativo come fare originario e contrapposto al fare funzionale.

Esatto, è un punto scottante della forza politica della poesia. La possibilità infine di essere performata, di diventare quindi un momento collettivo, un momento esperienziale condiviso. La poesia performata può creare un momento di fortissima intimità tra le persone ed è per questo che sto cercando, per l’ultimo progetto, degli spazi che possano offrire questo momento di raccoglimento, di presa in carico, di attenzione e di messa in campo di una serie di geografie affettive personali. Negli ultimi anni ho performato veramente dappertutto con la poesia, dal circolo Arci al club, dallo spazio occupato alla galleria d’arte; l’ho fatto e lo rifarei perché comunque mi ha formata, dandomi la possibilità di confrontarmi con un pubblico sempre nuovo, sempre diverso. Adesso però ho preso le misure, so che quello che facciamo accadere è un’esperienza sonora. Non è visiva, non è narrativa: è un’esperienza del suono, quindi sto cercando posti che permettano un’emersione puntuale, che permettano la spazializzazione del suono e della voce, una chiamata a raccolta.

La poesia performata può creare un momento di fortissima intimità tra le persone ed è per questo che sto cercando, per l’ultimo progetto, degli spazi che possano offrire questo momento di raccoglimento.

La poesia va ascoltata. Tornando per un attimo ai contenuti politici, a un certo punto dici: da sempre mi consumano/ i maschi. Io li ho portati in grembo/ – nutriti con il mio sangue/ sono stata terra umida e feconda/ e anche tronco, roccia o ala/ a sostenere il volo/ mi restano attaccati dappertutto/ i maschi: accudisco già/ figli maschi che non ho. […] Quello che mi tocca/ è farmi casa per te/ ma se a nascermi fra le gambe/ è una bambina,/ un’altra bambina come me?

Questo è proprio uno di quei testi che custodisce in sé un posizionamento. In realtà intreccia svariati nodi, su più livelli. C’è sempre una denuncia, ma celata, le parole sono piccole chiavi d’accesso.

Ungaretti direbbe: “La poesia è poesia quando porta in sé un segreto”.

Questa poesia è stata scritta un paio di anni fa ed è il frutto di un’immagine che mi ha tormentata a lungo: parlando con Biancamaria Frabotta di “viandanza”, affiorò l’immagine delle bambine che non possono neanche sognare un ritorno a casa. Ho iniziato a pensare al fatto che i bio-uomini possono sviluppare, nello slancio sessuale, l’idea di tornare all’utero. Le bambine invece, intese qui come tutti i corpi culturalmente sessualizzati e genderizzati subalternamente come corpi femminili, sono investit+ dall’idea di farsi casa per gli altri. E in questo senso sono corpi viandanti, corpi migranti, apolidi, senza fissa dimora. Il finale è un po’ ironico, assomiglia a una minaccia, in realtà è un po’ un augurio; se generiamo parentele tra noi bambine, soggettività non-binary, queer, lesbiche, corporeità non conformi, se a nascermi fra le gambe è una bambina insomma, un’altra bambina come me? Cosa potrà succedere? Il finale aperto è un auspicio alla sorellanza transfemminista.

Richiami legami familiari e più in generale amorosi, ma è inevitabile non avvertire una certa pesantezza da un lato, e paura, dall’altro, connessa a queste relazioni. È nel silenzio, quasi, più che nella parola, che tali legami trovano uno spazio protetto.

La dimensione del silenzio è molto forte. Nei miei versi il silenzio è sempre stato presente, come un presagio. La costruzione del non detto, del venuto meno, è messa in atto attraverso giochi di sospensione e frasi che si arrestano sempre troppo presto, attraverso l’evidente assenza di punteggiatura. Ci sono molti modi di studiare la possibilità di stare in silenzio e di fare del silenzio un’occasione. I versi ci danno la possibilità di cedere il passo, di svuotare, di sottrarre, che non è mai una negazione ma è sempre un dire qualcosa. Cerco di lavorare molto su questo inciampo, su questo sibilo.

Nei miei versi il silenzio è sempre stato presente, come un presagio. La costruzione del non detto, del venuto meno, è messa in atto attraverso giochi di sospensione e frasi che si arrestano sempre troppo presto.

Del resto, è proprio nell’interrompersi del verso, della parola, nel non detto, che si crea la poesia.

Anche sonoramente questo fenomeno ci offre la possibilità di esplorare lo svuotamento come qualcosa che esiste, che c’è. Il vuoto non è mai vuoto, ha sempre una sua fisicità. Attraverso il suono c’è davvero modo di approfondire questo aspetto e la poesia per me è molto più vicina ai rumori che alla musica. Mi capita a volte di registrare degli ambienti sonori che lì per lì sembrano insignificanti. A volte sembra di registrare il vuoto, lo zero, e invece tra i fili di quel vuoto si muovono un sacco di possibilità e relazioni spaziali. Fa paura, noi non siamo veramente abituati a stare in relazione con il vuoto e con il niente, siamo abituati a fare costantemente qualcosa, a riempire. Attraverso il teatro ho potuto studiare alcune pratiche fisiche che mi spingono a riflettere moltissimo sul non fare nulla, stare lì e basta, con quello che c’è, e riscontro in tantissime persone una totale difficoltà anche solo nel non gesticolare, non sbattere gli occhi, non grattarsi, non avere una serie di nevrosi che sono tutti questi slanci a riempire. A riempire, perché è terribilmente spaventoso essere lì con quello che c’è. Per questo c’è una corsa disperata al riempimento, è per il boicottaggio di questa corsa che la poesia è necessaria, lavorare con i rumori che ci sono e con lo svuotamento è necessario. La poesia è sovversiva, sempre.

(Intervista di Chiara De Cillis)


L’animale nella fossa è una recording-session di GAIA GINEVRA GIORGI, poetessa, attrice e performer. Il testo, di cui vi presentiamo la registrazione dal vivo, è stato performato in occasione dell’Art Site Fest, nel catalogo di Artissima 2019. Il brano è stato anche selezionato per la piattaforma di ascolto di Helicotrema Recorded Audio Festival. L’autrice ha pubblicato le raccolte Sisifo (Alter Ego, 2016) e Manovre Segrete (Interno Poesia, 2017), che di recente è stato tradotto in spagnolo da María Martínez Bautista per La Bella Varsovia.

Un’anatra al buio che becca le briciole

Il ponte di piazza Vitto, alla sera, fa come tante mezze lune sul pelo dell’acqua. Dei fari sotto le arcate illuminano la pietra di luce calda, luce che muta forma e riflesso a seconda del punto d’osservazione. Dal club dei canottieri, che sporge sul fiume oltre la boscaglia della sponda bene, s’affacciano sagome scure a guardare la gente di qua: la cascata di brilli ciaparat del venerdì sera e del sabato, della domenica e di tutti i giorni della settimana, perché tanto di lavorare – sulla riva del Gianca e del Doctor Sax – mica se ne parla.
«To’, accendila».
Ce ne stiamo seduti, io e il mio amico Berto, su due scalini viscidi di alghe e scommettiamo a distanza sul sesso delle anatre in avvicinamento. Col buio non è facile, gli spiego che i maschi sono quelli con la testa verde smeraldo e che le femmine sono quelle marroni. Gli racconto dei pavoni, del fatto che nel mondo animale sia molto più frequente osservare la bellezza come un obbligo genetico maschile: «È una questione di dimensioni» gli dico «e di numero: un grande ovulo sta a miliardi di minuscoli spermatozoi».
Berto ridacchia, si leva la coppola da picciotto emigrato e la posa sulla mia testa.
«Stando a questa teoria, noi donne dovremmo poterci permettere di avere i peli sulle gambe.»

Ce ne stiamo seduti, io e il mio amico Berto, su due scalini viscidi di alghe e scommettiamo a distanza sul sesso delle anatre in avvicinamento. Col buio non è facile, gli spiego che i maschi sono quelli con la testa verde smeraldo e che le femmine sono quelle marroni.

Hanno aperto un bar futuristico, in uno degli ammuffiti magazzini dei murazzi, in cui a preparare Negroni e Spritz è un robot arancione. Si ordina attraverso un computer e un robustissimo paio di braccia shakera l’elisir. Una roba che Marinetti sarebbe fisso lì a sbronzarsi e a fare versi tipo zang e zang e tumb, ma che per noi è ancora troppo avanti e non ce la facciamo a stargli dietro. Ci siamo ubriacati alla vecchia maniera, seduti al bancone del circolo Arci Sud, a botte di vino stappato, brindando alla nostra e al barista. Che bel posto che è l’Arci Sud! Mi mette una nostalgia… Viva i nostalgici, viva!
Da San Salvario ai muri è un attimo ed è tutto in discesa, ma perché siamo qui non saprei dirlo, e non saprei dire neppure dov’è che abbiamo legato la bici.
Io e Berto in mezzo a un mucchio selvaggio di bestie febbricitanti, messi assieme in un ping pong di fumo e dalla comune voglia d’evasione e ancora più vicini per quel mero e condiviso senso d’inappartenenza, passandoci una torcia fatta su in fretta e senza accortezza, col filtro largo e un tiro faticoso. Mentre questi pensieri s’affacciano, subito la voce di Giulia mi sputa addosso sentenze, perché chi si esilia da solo non ha neppure il diritto di lamentarsi.
Non è il nostro paese, fratello mio, ma nessuno ci ha cacciati dal nido: ce ne siamo andati noi, con le nostre gambine, e senza preoccuparci del sentiero e dell’avere una destinazione. Hai ragione, nessuno è venuto a rincorrerci, ma non possiamo continuare a fuggire in eterno con la speranza che prima o poi qualcuno ci venga a recuperare. Lo sguardo di Berto si posa sul molo abbandonato vicino a noi.
«Ci sei salito, sì?»
Berto mi fa di no con la testa: «Mzé. Ho una foto là sopra, ma non mi ricordo quando l’ho fatta».
Mi piace tanto quando fa quel verso, mzé, che è un esercizio complesso d’espressione affidato a lingua, denti e labbra e dice più di una parola. Può essere un e un no contemporaneamente, nel dubbio un non lo so. Penso al verso come a un colpo di marranzano che risuona nella bocca, la cui eco si perde dentro chi scocca il suono e non fuori. Berto scocca suoni per se stesso e nessun altro e questi suoni gli rimbombano nei nodi delle viscere e si stringono, fischiando, tra le costole. Vorrebbe poterne fornire una versione tradotta, ma si sistema gli occhiali, per adesso, con un gesto nervoso, e mi racconta di quando la sua compagna di banco s’era abbassata le mutande e gli aveva concesso una visione diversa del mondo.
C’è qualcosa di clandestino, nel comprendersi, così quando accade non occorre dirselo, o meglio, non si deve affatto.
Dal monte dei Cappuccini, che non somiglia neppure lontanamente a una montagna, la città fa meno spavento. Le si può dare un contorno, che è fatto di alture a corona e finestre triangolari tra le cime. Si vedono i due grattacieli lampeggiare di rosso e la lancia stellata della Mole trafiggere la cappa di smog; sullo sfondo sale piano, ogni tanto, il pallone incatenato del Balon.

Non è il nostro paese, fratello mio, ma nessuno ci ha cacciati dal nido: ce ne siamo andati noi, con le nostre gambine, e senza preoccuparci del sentiero e dell’avere una destinazione.

L’ultima volta al monte c’era la neve e faceva un freddo pazzesco, Giulia aveva i capelli lunghissimi.
Una grossa palla di ghiaccio mi era arrivata sul muso, facendomi male, ma non ero riuscita a incazzarmi, non ci riesco nemmeno adesso dopo tutto quello che è successo.
Posso tracciare il contorno della città col dito, posso chiudere gli occhi e disegnare la perfetta topografia di Torino, ma non riesco a definire il confine tra ciò che provo davvero e ciò che mi convinco di provare per sentirmi più normale e adatta a campare sopra alla faccia tosta della Terra.
Tira fuori quello che senti, Giulia mi spronava al dialogo nei momenti peggiori, cercando il mio sguardo, solitamente fermo su un qualche punto della stanza, prova a farmi capire cosa hai in testa, mi diceva, se non parli come faccio, come faccio ad aiutarti. Spalle al muro, attendeva che io esplodessi.
Il più delle volte mi lasciavo andare a un pianto eterno, sragionato, che era la cosa più onesta di cui fossi capace. Altre volte non sgorgavano lacrime e allora toccava recitare. Mi inventavo tragedie inesistenti, ma spiegabilissime e sensate. Forse esistevano sul serio, anzi sicuramente, in qualche angolo del mio inconscio; erano parte della mia vita, ma non mi toccavano così nel profondo come volevo far credere. C’è chi darebbe la colpa allo zodiaco: nata sotto il segno del Cancro. Il primo vagito era già disperazione, un tentativo di raccogliere attenzioni.
«Quello lì non lo sopporto» mi fa Berto, tossendo. «Ogni volta che parla mi sembra di sentire Aldo Moro»
«Sta sul cazzo anche a me.»
Cerco di tagliare corto, non ho voglia di argomentare, ma Berto continua:
«Non si può piacere a tutti, eddai, sempre con questa oratoria, questi paroloni per dare ragione a chiunque, senza mai tirare fuori un’idea che sia una.»
Annuisco, prestando ascolto ai discorsi della comitiva di liceali seduta a pochi mattoni da noi. Parlano di sesso, di inciuci vari tra i membri del gruppo. Loro hanno un branco con cui passeggiare nel bosco.
Ho visto fare a Berto cose indicibili, come rubare il vetro di una cornice larga novanta centimetri e riuscire a condurre, pulito, il bottino fuori dalle barriere elettroniche del negozio. L’ho visto lanciare un bicchiere di gin, intendo il bicchiere intero, in faccia a un ragazzo dopo una battuta di pessimo gusto; l’ho visto fare a cazzotti col suo miglior compagno, minacciare di lanciarsi in un triplo salto mortale, di darsi all’onda triturante della Dora; l’ho visto insultare, elargire opinioni senza l’ombra d’un filtro; l’ho visto fare terra bruciata attorno a sé; l’ho visto perpetrare la sua propria personale rivoluzione e opera di distruzione e tutto questo, dico tutto questo, in nome dell’arte. Non conosco uomo più innamorato di Berto dell’arte.
«Ogni tanto un rospo lo devi ingoiare, ci hai già discusso una volta.»
«Lo so, lo so.»
«Abbiamo bisogno di un appoggio adesso, basta stronzate.»
Io sono sempre stata più codarda di lui, più giudiziosa e sotto sotto infimamente manipolatoria, e non per questo meno monade. Non ho idea di cosa abbia in testa Berto, ma posso leggere tra i suoi gesti un sentire affine al mio e il luccichio residuo di una verità divenuta frottola, una fiamma che Berto continua a mettere alla prova, passandoci sopra il palmo della mano, e che continua a ustionarlo nonostante il suo progressivo rimpicciolirsi. Quante bugie ci siamo raccontati e quante menzogne ci hanno rifilato affinché questa sottile presunzione d’essere speciali potesse farsi largo in noi e dilaniarci dall’interno ogni qualvolta l’enorme aspettativa rispetto al nostro stesso genio si fosse schiantata contro la mediocrità della persona umana che costituiamo.

Quante bugie ci siamo raccontati e quante menzogne ci hanno rifilato affinché questa sottile presunzione d’essere speciali potesse farsi largo in noi e dilaniarci dall’interno ogni qualvolta l’enorme aspettativa rispetto al nostro stesso genio si fosse schiantata contro la mediocrità della persona umana che costituiamo.

Tiro fuori dallo zaino un maglioncino infeltrito di un celestino chiarissimo. L’afa di fine estate ha lasciato posto alla frescura autunnale, è quel momento dell’anno in cui non si capisce bene come uscire di casa e perciò si tira a indovinare, sperando di azzeccare la combinazione dei tessuti. Berto cerca di nascondere i brividi per non darmi a vedere che ha freddo, trema con le braccia conserte nel tentativo estremo di tenersi stretto il calore corporeo. Sta letteralmente gelando, magro com’è, ma non cede e non accenna a una ritirata. Si è messo addosso una giacchetta verde guerriglia di cotone duro, con tanto di tasche e taschino sul petto, dal quale pende il gancio di una stilografica.
«Chi l’arriccia, l’appiccia e…»
Lascio che il sapore delle ultime note mi culli e conduca all’atarassia. Mi basterebbe essere un’anatra al buio che becca le briciole: un qualcosa di indefinito, dondolante e senza sesso. Un organismo deforme che è in procinto di arrivare e beccare le briciole una ad una, fare un cenno e sparire di nuovo. La testa sott’acqua e giù, giù.
Vorrei addormentarmi qui, in riva al Po, con le nutrie e le pantegane a mordicchiarmi le dita dei piedi, piuttosto che sollevarmi da questo scalino e avviarmi, un passo storto dopo l’altro, alla porta di casa e verso la stanza in affitto dove nessuno mi aspetta, se non una catasta di robaccia da quattro soldi e qualche capello cascato dal letto.
Vorrei che Giulia mi accarezzasse ancora la schiena con la spugna, nella vasca da bagno, che mi facesse sentire in diritto di essere mortale, tale e quale a tutti gli altri. Ché alla fine è questo essere amati: non dover mentire a se stessi sul proprio conto per soddisfare le proiezioni del prossimo. Di Giulia ho amato lo smascheramento. Ci siamo abbassate così tanto, a furia di sberle e colpi di onestà, da arrivare a strisciare come due larve in muta sul pavimento stradale, ridotte a un’ombra, incapaci di trovarsi. Dio, quanto vorrei sollevarmi da questo scalino e schizzare velocissima fuori da questa bolla! Sanguino e provo una fitta costante al basso ventre, ho preso un coltello da macellaio e ho aperto un varco nella carne per accelerare la procedura chirurgica di svisceramento. Tutta aperta e grondante umanità, sono, e persino questo è distante dall’essere sufficiente. Dio! Dove cazzo sei? E soprattutto dove cazzo è Giulia?
«Non lo so, vediamo gli altri quando possono e ci becchiamo in Cavalla o da me» dico a Berto, che nel frattempo è riuscito ad alzarsi e s’appresta ad andarsene. «Vedi che qualcosa la combiniamo.»
«Vabbuò, io adesso cerco di capire a soldi come stiamo messi, fammi sapere poi per il tirocinante che dicono.»
Ci diamo appuntamento alla prossima riunione, pronunciando qualche battuta riciclata sullo sfruttamento del lavoro e sul capitalismo, incerti sul da farsi e sul perché lo si debba fare. Indecisi sul come, sul quando, senza nessuna probabilità evidente e con sulle spalle un bagaglio di fallimenti già troppo pesante.
Di fronte a noi, ogni mattina, la tentazione di mollare ciascuna ambizione e velleità artistica, il desiderio di vomitare in strada ogni rigurgito di creatività e sedersi alla scrivania di un ufficio o alla cassa di un supermercato, dire al massimo Carta o Bancomat, signora e sentirsi rispondere, male che vada, non lo so, faccia lei.
Berto procede, mani in tasca, percorrendo la salita asfaltata che conduce alla piazza. Io resto dietro, a pochi passi da lui, ma non troppo distante da risultarne divisa sul serio. Dev’essere una scena ridicola, vista da fuori: due che si salutano e che poi si inseguono lungo la medesima via.
Siamo abituati così, io e Berto, a far la strada da soli. Ci voltiamo soltanto di rado, velocemente, in modo che non desti sospetto, spinti da una fantasticheria o da un presentimento, a controllare se per caso un’anima non ci stia raggiungendo.

Fotografia di Louis Dazy