La discesa

Molti anni fa, un martedì grasso, hanno cacciato dal paese la regina della festa insieme alle ancelle. A causa di uno scandalo, sono state allontanate. Ritorno vietato, pena la morte.
La notizia dell’esilio è rimbalzata veloce per tutta la valle, perciò non potevano scendere. L’unico rifugio era l’alta quota.
Con le guance bagnate e le gole scosse dai singhiozzi si sono arrampicate verso la cattedrale di roccia dolomitica illuminata ma ancora fredda. Si sono accampate.
In tre sono morte nei primi mesi. Due per il veleno di un fungo sbagliato, una si è buttata. È volata davanti alla grotta durante la notte. Si sapeva che l’avrebbe fatto. Piangeva tutto il giorno. Aveva cercato di tornare ma le avevano dato fuoco ai capelli. Si è buttata così: calva e senza sopracciglia. Quando l’hanno trovata, sulla lingua di macerie della vecchia frana, sembrava un piccolo porco. L’hanno cucinata la sera stessa e hanno mangiato in silenzio.
Le restanti si sono adattate. Con serenità e pazienza hanno cresciuto piedi di capra e calli spessi sulle dita. Si sono fatte animali nuovi.
Per tanti anni la comunità ha resistito.
Spingendo sulle cosce raggiungevano i giacigli nelle grotte nascoste lungo le pareti scivolose. Lavoravano sole, ma dormivano strette l’una all’altra.
In due hanno partorito due femmine. Da sole, sotto un abete o appoggiate a una grossa roccia calda. Le piccole sono cresciute adottate dal branco: scure, pelose e agili come scoiattoli. Sapevano che, se si mettevano una tetta in bocca, tutte le selvagge avevano latte da dare.
Erano figlie degli stessi uomini che allontanarono le madri dal paese e dal torrente, fin sotto le pareti ripide nell’ombra densa del bosco. Poche settimane dopo la sentenza, due cacciatori hanno trovato le donne che raccoglievano more, coi piedi nudi in mezzo ai cespugli di rovi. Hanno lanciato delle pietre per farle uscire dai gomitoli di spine e le hanno ingravidate sull’erba.

Aveva cercato di tornare ma le avevano dato fuoco ai capelli. Si è buttata così: calva e senza sopracciglia. Quando l’hanno trovata, sulla lingua di macerie della vecchia frana, sembrava un piccolo porco.

Passavano gli anni e molte invecchiavano. Alcune avevano muschio sotto il seno e lasciavano che i ghiri, nelle notti di primavera, nascondessero i cuccioli tra i loro capelli. Molte dormivano tutto il giorno e tutta la notte, ma non erano morte.
La caccia e la mungitura degli animali erano solo per le due giovani, che si occupavano del gruppo piene di energia e gratitudine. Con il pelo fulvo e luccicante e gli occhi grandi per vedere al buio, sembravano sorelle. Se avessero avuto un nome sarebbe suonato come una canzone sottovoce.

Durante la primavera del ventesimo anno, una serie di nevicate tardive ha messo tutte a dura prova. Si stava accendendo la frenesia per il disgelo, le ragazze si preparavano al risveglio degli alveari e le anziane cominciavano a sorridere, quando hanno iniziato a scendere i fiocchi. Il sole di mezzogiorno sembrava non bastare per scaldare le gambe irrigidite delle vecchie. Ogni stomaco bruciava, ogni selvaggia sognava mirtilli e carne grassa.
La corteccia, gli insetti e le piccole prede appena uscite dal letargo non potevano bastare, così hanno deciso: le due giovani sarebbero scese in paese.
Era la prima volta per entrambe.
Per tutta la valle si diceva che la storia delle donne dei boschi era solo una voce, o una favola per bambini. I pochi cercatori di funghi che le avevano intraviste non venivano creduti. Era un bene, per le selvagge. La leggenda le proteggeva.
Le ragazze hanno preso istruzioni dall’ultima regina della festa: una bestia decrepita dalle orecchie di cerbiatto e le unghie pesanti da orso. Ha detto loro di scendere al villaggio di notte, di camminare erette su due piedi per fare meno rumore, di prendere tutto ciò che fossero state in grado di trasportare. Per quanto riguardava gli animali, avrebbero dovuto ucciderli lontano dalle case. Niente maiali, quando li uccidi gridano.
Alcune vecchie, nelle ore di veglia, hanno costruito cesti e gerle per il cibo rubato. Dopo tanti anni non si erano dimenticate come fare.

Con il pelo fulvo e luccicante e gli occhi grandi per vedere al buio, sembravano sorelle. Se avessero avuto un nome sarebbe suonato come una canzone sottovoce.

Il giorno della discesa era tutto pronto. Aspettavano. Sulla neve compatta non scricchiolavano passi.
Si sono incamminate con la luna alta che brillava sul pendio imbiancato e sul loro manto rosso. Hanno incontrato il primo sentiero all’altezza del lago. Non avevano mai visto uno specchio d’acqua tanto grande. Estasiate dalla scoperta, non si sono accorte che la loro pelliccia si era fatta più rada. Lungo il pendio alle loro spalle, una strada di ciuffi fulvi segnava il percorso.
Poche ore dopo hanno avvistato il lampione della piazza. Sapevano che avrebbero dovuto seguire la luce. Camminavano senza distogliere lo sguardo, mentre gli occhi si disabituavano al buio e le pupille diventavano tonde.
Ai margini del villaggio si sono prese per mano. Ormai erano due donne nude. Si sono sfiorate a vicenda la nuova pelle, liscia e bianca, e i capelli rossi. Sentivano freddo e avevano fame.
Dalle vetrine dei negozi, i cartelli pubblicitari mostravano uomini e donne sorridenti. Le ragazze, belle, osservavano il proprio riflesso, esploravano i cortili, le stalle, i fienili, giravano per il paese con la bocca aperta. Mai avevano visto l’immagine di un uomo, mai si sarebbero aspettate di scoprirsi simili a loro, mai avevano pensato di poter vedere tanto cibo tutto insieme, di indossare dei vestiti, di incontrare animali grassi come le vacche o docili come i gatti domestici.
La luce dell’alba le ha sorprese nel negozio della sarta. Giocavano a coprirsi, i piedi nelle maniche, le camicie in testa, le scarpe al posto dei guanti, quando, avendo notato la porta forzata, è entrato il fornaio.
Nessuno si è chiesto da dove venissero. Qualche vecchio l’ha pensato, ma non l’ha detto. Le belle donne sono un dono del cielo.
Mentre si decideva se dar loro un nome, nelle grotte le selvagge morivano di fame.

Illustrazione di Andrea Uncini