Alfredo Zucchi | La memoria dell’uguale

Questi infatti mutando sono quelli,
e quelli di nuovo mutando sono questi.

(Eraclito)

Ho sempre pensato che scrivere e soprattutto leggere siano due azioni che si fanno per una sorta di gusto del trasformismo, come se si potesse uscire fuori da certi canoni auto-imposti, essere qualcosa di diverso, seppur in un tempo limitato. È raro però che un romanzo o una raccolta di racconti ti portino a essere totalmente altro da ciò che è familiare, totalmente altro dalla normale accettazione di certi metodi narrativi. La raccolta di racconti La memoria dell’uguale di Alfredo Zucchi – edita da Alessandro Polidoro Editore – opera uno spostamento netto, uno slittamento del limite del reale, oltre il quale esiste solo il luogo della possibilità. Da qui, mi piacerebbe parlarvi di questi nove racconti e di ciò che per me è la vera origine del fantastico: la sospensione dell’incredulità.

L’incertezza quantistica: l’evento è secondario

Da lettrice de La Bomba Voyeur, opera prima di Zucchi, non ho potuto fare a meno di notare una differenza sostanziale ma speculare tra le due opere.
Mentre il romanzo apriva le porte al lettore su una serie di eventi storici e meta-storici, chiusi e conclusi, questa raccolta di racconti apre le porte di un mondo che si potrebbe definire quantistico.
Ciò che caratterizza questa realtà non è più l’evento in sé, controllabile e accettabile, ma la mera e cruda possibilità che qualcosa accada. Che cosa accada, poi, è un effetto collaterale del tutto secondario, che non interessa all’autore e, forse, non interessa neanche ai personaggi stessi.
La possibilità è il nucleo fondativo della struttura narratologica e, come in ogni sistema quantistico, l’elemento perturbativo è solo ed esclusivamente l’osservatore. L’osservatore mette il punto alla possibilità facendola diventare un evento definitivo, ed è questo il compito dei personaggi. Ma questo è anche il compito del lettore, che leggendo perturba l’equilibrio della raccolta.
Ce lo dimostra bene Diego, protagonista del racconto Il ponte: lui è scrittore, personaggio e lettore contemporaneamente, ed è il grande elemento perturbatore della realtà nella quale viene catapultato. Diego plasma la sua Storia, perché ne è testimone e attore.

Ontologia e ripetizione: il mondo del possibile come unico campo semantico

I mondi proposti da Zucchi in questi nove racconti portano a una conseguenza metafisica fondamentale: l’imperfezione del caso e il possibile sono gli elementi che fanno da perno fondante del fantastico e tutto il resto è semplice fisica newtoniana. L’incertezza quantistica è il campo dove il fantastico vive.
Dove scompare il limite dato dalla certezza e dalla consequenzialità, tutto ciò che rimane è un infinito spazio aperto, che proprio nella sua perpetua possibilità non può che ripiegarsi su sé stesso, per ripetersi all’infinito. Questo non solo perché il tempo è qualcosa che, come tutto il resto, può piegarsi alle perturbazioni, ma anzitutto perché – se la possibilità è l’unico elemento che abbia vero spessore ontologico – chi percorre la mera possibilità è destinato a “dimenticare”. Non è un caso che Zucchi citi Nietzsche sul suo racconto più temporale della raccolta (Sul bordo di un evento, titolo che è esso stesso una citazione a Nietzsche): “Solo ciò che non ha storia si può definire”. Chi ha letto La Bomba Voyeur riconoscerà questa come interpolazione iniziale del romanzo.
Il punto è che la ripetizione e la possibilità sono i due elementi fondativi di una realtà fantastica, un reale entro il quale l’unica azione che abbia un senso – e da lettore e da personaggio – è quella di dire “Sì”, accettare il fantastico come legge fisica e lasciarsi pervadere. Questa è, per me, la vera sospensione di incredulità: dire di sì.

Un oltre-uomo svuotato di sé: anatomia dei personaggi

I personaggi di questa raccolta, che sono sconnessi eppure ritornano sono dipendenti in tutto e per tutto da questo giogo quantistico. Non esistono i personaggi senza il loro mondo, e anzi i personaggi stessi sono il loro mondo. Questa operazione di dipendenza necessita che, in qualche modo, la psicologia dei personaggi venga sacrificata per un fine ultimo più ampio: realizzare le possibilità, far sì che essi dicano di sì.
Come oltreuomini e oltredonne, i personaggi di Zucchi non vogliono esistere se non in funzione della loro storia e della loro realtà, dicono di sì alla possibilità della ripetizione, in un Eterno Ritorno questa volta forse ancora più angosciante e terrificante di quello nietzschiano. Emblematico è in tal senso il racconto Un errore di mira, dove il protagonista (ancora uno scrittore) si immola per un esperimento scientifico, dimenticando sempre più cose ogni volta che l’esperimento viene ripetuto: “Non sembra restargli che un ultimo appiglio, uno strato sottile e automatico, non propriamente verbale, una sorta di memoria di specie”.
Cosa sarebbero i personaggi senza la struttura quantistica della realtà pensata da Zucchi, senza l’angoscia, il grottesco e l’irreale, l’impreciso e la ripetizione? Persone qualunque perse nella Storia: destino peggiore per dei personaggi letterari non esiste.  

Clelia Attanasio

Alfredo Zucchi, La memoria dell’uguale
Alessandro Polidoro Editore, 2020
132 pagine

Whore on acid | La realtà è una guerra in acido

Ciò che è vero e normale è codificato, già stabilito e tradizionalmente accettato, e diventa ben presto indice di scrematura e rimozione di quel superfluo. È questo “superfluo”, spesso tacciato d’essere inutile o improduttivo, che l’indagine compiuta da Valentina Giacuzzo – aka Whore On Acid – tenta di scagionare e di salvare nei lavori oggi presentati da «Neutopia», riscoprendolo squisita esperienza metafisica e transensoriale.

Ervin Goffman ha spesso parlato del concetto di “stigmatizzazione” di un individuo all’interno di un istituto psichiatrico o di una prigione, definiti da lui come “istituzioni totali”[1] per il loro potere di tracciare un limite ben definito tra sanità e malattia mentale e separare dunque lo staff (chi si occupa, attraverso le svariate mansioni, di reintegrare un individuo all’interno della società che lo ha escluso) dal paziente (chi svia da un comportamento socialmente accettabile e produttivo). Lo studio di Goffman, che va ad ampliare il filone aperto già da Michel Foucault con la sua Storia della Follia in Età Classica  (Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique, 1961), descrive un’istituzione più ampia, quella della nostra società liberale e capitalista, come fortemente segnata dalla narrazione – fittizia – della verità e della normalità.

Can You Hear My Heart, pensato per comunicare la realtà di sovraccarico di un sistema psichico disturbato da voci e suoni ripetentesi a intermittenze, è costruito attraverso un interessante stratagemma, essendo il testo una traduzione automatica operata dagli algoritmi traduttivi della piattaforma YouTube. Lungi dal rappresentare un facile escamotage per la composizione di un brano, la tecnica qui messa in atto dall’autrice è in grado di edificare, attraverso un procedimento simile al ready-made, un effetto sensoriale ben specifico, avvicinando l’ascoltatore ai sintomi di paracusia, allucinazione positiva e schizofrenia.

Es Dominion, invece, brano dalla matrice testuale più complessa e organizzata, è un trittico che indaga la reazione di un sistema cognitivo-comportamentale alla realizzazione della psicopatologia, ovvero la reclusione o autoreclusione cui l’individuo stigmatizzato è destinato nella società odierna. In esso viene descritto infatti lo sforzo, impossibile da compiere, di escludere realmente le logiche irrazionali e simboliche della nostra psiche dalle azioni quotidiane. La guarigione e il ritorno ad una regolarità accettata dall’ecosistema umano sono, per questo, tentativi frustrati di assettarsi a un confine impossibile.

Nella prima parte del brano, il modello virtuale di una realtà reale e univoca è arso, bruciato dal “blue spectrum of fire” il cui rogo rade al suolo la città, metafora di quell’insieme di norme scritte e agrafe che governano la sopravvivenza del branco all’interno dell’ingranaggio sociale e la produzione ad esso sottesa. La guerra cui fa dunque riferimento il progetto più ampio nel quale Es Dominion è inserito si prefigura così non solo come il netto contrasto tra interiorità ed esteriorità, ma anche come il fagocitare assoluto della prima nei confronti della seconda. La natura di questo conflitto è psichedelica, lisergica, poiché sempre combattuta nel mondo inaspettato e imprevedibile di corrispondenze che a partire dai traumi generano la nostra autocoscienza.

La seconda parte del brano, che richiama più da vicino Can You Hear My Heart, tenta infatti di restituire, attraverso la sovrapposizione e la ripetizione di input verbali tra loro incoerenti e contraddittori, il gomitolo di istanze e impulsi che attanagliano la mente quando è labile e perduta nella dispercezione, che è qui rappresentata non come la devianza da un modello “corretto” di percezione, bensì come la natura ultima e concreta della percezione stessa.

Il risultato a cui si giunge è l’esclusione, che è anche il tema della terza e ultima scena del brano. Un’esclusione serena, quasi stoica, in cui il soggetto si accartoccia su se stesso in un rifugio di “Pink radial ribs”, un ventre costruito da chi lo abita, accettando a braccia aperte lo spazio animalesco e antico di una mente liberatasi dall’imposizione della sanità. Ciò che era stato additato come mostro è in realtà sublime,  enorme, incomprensibile e ricco di segreti come l’abisso, rivelando un giacimento-fiumana di scoperte interiori tali da superare l’esteriorità ed il fenomeno per diventare metafisiche.

A questa riflessione circa il rapporto tra psiche polimorfa e sanità mentale se ne affianca un altro, non meno importante, volto a indagare la relazione tra lingua e realtà. Il linguaggio difetta della capacità di esprimere e comunicare realmente il sé, e i due brani qui presentati, specialmente Can You Hear my Heart, tentano di consacrare la nascita di un nuovo codice insieme linguistico e a-linguisitico, significante e aleatorio, fatto di suggestioni, risposte sensoriali autonome,  sussurri, distorsioni. Su questo comparto tecnico di effetti sonori si installa poi l’utilizzo di un inglese liberato dalla sua caratterizzazione coloniale che vuole sempre contrapposti il “buon inglese” all’inglese degli emigrati. Quello di Valentina Giacuzzo è un inglese di tutti e scevro dai nazionalismi, scelta grazie alla quale l’autrice ha potuto collaborare anche con uno dei progetti cross-linguistici e transcreazionistici più importanti per quanto riguarda la lingua inglese, quello organizzato dal collettivo Mother Tongues, con sede a Londra.

Se la performance recitativa è volutamente offuscata e soffusa, tanto da rendere ostico in alcuni tratti l’ascolto del testo, fortificando ancora di più l’idea di ambiguità, liminalità e polimorfismo, la musica che l’accompagna è costruita ad hoc per trasmettere sensazioni d’ansia e paranoia ed evocare atmosfere peste e soffocanti. A un lieve sgocciolio elettronico sono accostati, infatti, grevi e improvvisi violini, quasi strattoni volti a spezzare la tranquillità dell’ascoltatore inoculando in lui disagio, paura e solitudine e trasportandolo con forza in un mondo di alienazione e incomprensibilità.

(Lorenzo Lombardo)

Es Dominion

This is Reality is an acid war
The section of the city appears on fire
It burning like a hypnotic forest.
We live in the blue spectrum of fire
While the stake changes the physiognomy of what happens
Let’s rewrite the map
Every day, daily exercise
Setting references, keeeping lucidity
Remain in the logical axis
Expect the Accidental
We crawl along plastic walls
Smell of burning glass
Emerging from dark water

Asphalt segments are fords
Where are we going?
The spectrum burns the perceptual fibers
But we know it: it is the subsoil
Of my body, point two references,
Change of shape/
confidence and intuitions

The obelisks stand out
in the reality illuminated by the sun
But we don’t understand its symbols.
Hot flashes on the metal armor
Our codes here are not valid
The mysteriously changing order
Alienating revolt
Illogical…

Peace is recognizing the shadow.

II:

IO
DO IT DON T DO THAT
DO IT
I’M MAKING AN EFFORT
I’M MAKING AN EFFORT

DON’T THAT
DO IT
DO IT
DO IT

I ‘MAKING AN EFFORT

III:

Imagination organizes the remedy:
a gush that allows you to breathe
like the greatest of sea creatures,
cetaceans etymologically calls them monsters,

they live sunke,
they seek air emerging from the waves
to avoid to fall into complete unconsciousness.

Living in perceptive depth
Resurfacing through restorative images:
the greater the danger
the greater what saves

Clear morning light on the shoreline
center of Metaphysical  force
A belly built by who is inhabit it,
the womb is carved in crystal,
to find shelter in beauty.

Language is distance
Is a vision
here’s
an image


I built my house of pink radial ribs
My essence is inside a shell
between the dunes you imagine of a sandy beach
evoked by the very reality that still wants me present
Lucid

Knees bent towards the chest
The Mother of pearl caresses my forehead
Fatigued by the crystallization of obsessive shadows.
My home , self-centered of illusions was built in a dream
It is a fascination  surfaced by my unconscious
Magical addiction.

***

Questa è la realtà è una guerra in acido
La sezione della città appare in fiamme
Brucia come una foresta ipnotica.
Viviamo nello spettro blu del fuoco
Mentre il rogo cambia la fisionomia di ciò che accade
Riscriviamo la mappa
Ogni giorno, esercizio quotidiano
Settare riferimenti, mantenere lucidità
Rimanere nell’asse logico
Aspettarsi l’Accidentale
Strisciamo contro muri plastici
Odore di combustione di vetro

Emerge dall’acqua scura

Segmenti di asfalto sono guadi
Dove stiamo andando?
Lo spettro brucia le fibre percettive
Ma lo conosciamo: è il sottosuolo
Del mio corpo, punta due riferimenti,
Cambiamento di forma e
Intuizioni

Gli obelischi svettano nella realtà illuminata dal sole
Ma non ne comprendiamo i simboli.
Vampate incandescenti sulle armature metalliche
I nostri codici qui non valgono.
L’ordine misteriosamente mutevole
Rivolta straniante
Smarrimento

Assurdità

La quiete è riconoscere l’ombra.

II:

IO
FALLO NON FARLO
FALLO
STO FACENDO UNO SFORZO
STO FACENDO UNO SFORZO
NON FARE QUELLO
FALLO
FALLO
FALLO
STO FACENDO UNO SFORZO

III:

L’immaginazione organizza il rimedio:
uno zampillo che ti fa respirare
come la più grande delle creature marine,
i cetacei li chiamano etimologicamente mostri,
vivono affondate, cercano l’aria che emerge dalle onde
per evitare di cadere in completa incoscienza.

Vivere in profondità percettiva
Riemergere attraverso immagini restaurative:
maggiore è il pericolo maggiore è ciò che risparmia

Chiara luce mattutina sulla battigia
centro di forza metafisica
Un ventre costruito da chi lo abita,
il grembo è scolpito nel cristallo,
per trovare rifugio nella bellezza.

La lingua è distanza
È una visione
ecco
un’immagine

Ho costruito la mia casa di costole radiali rosa
La mia essenza è dentro un guscio
tra le dune immagini una spiaggia sabbiosa
evocata dalla stessa realtà che ancora mi vuole
presente
Lucida

Ginocchia piegate verso il petto
La Madreperla mi accarezza la fronte
Affaticato dalla cristallizzazione di ombre ossessive.
La mia casa, egocentrica di illusioni, è stata costruita in un sogno
È un fascino emerso dal mio inconscio
Dipendenza magica.

Testo e musica di Valentina Giacuzzo
Traduzione di Lorenzo Lombardo
Illustrazione di Lulu Lin


[1] Vedi Goffman, Ervin (1961) Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates, trad. Franca Basaglia (1968), Einaudi, Torino.

Subterranean Homesick Human | Davide Ricchiuti

I

Dieci minuti dopo le sette di sera mi sono seduto su una delle due sedie di ferro che avevo in cortile. Ho appoggiato il bicchiere mezzo pieno sul tavolo e ho notato che nel punto di contatto tra la pelle del mio gomito e la sedia c’era della ruggine. Era una venatura cremisi dentro cui si muovevano dei punti luminosi. Ma il gracchiare di un corvo di passaggio mi ha distratto. Ho alzato gli occhi in ritardo sulla traiettoria del suo volo e mi sono reso conto che la luce del tramonto fluttuava ancora nel cortile. Adesso capivo. Ho chiuso gli occhi e ho sorriso. Immaginare che ci fosse qualcosa di poetico nella ruggine che rifletteva la luce di quel tramonto mi faceva sentire stupido. Poi la ragazza del negozio di fiori ha suonato al citofono. Ho riaperto gli occhi.

II

A marzo di quell’anno ero andato in pensione. Trentanove anni, un incidente sul lavoro e l’invalidità al sessantasei percento. Tutto cambiato per sempre. Avevo costruito per anni le case degli altri, ma nella mia – Milano periferia – ero ancora in affitto. Il mio mestiere era sempre stato troppo discontinuo per potermi permettere un mutuo. Aurora mi aveva lasciato poco prima dell’incidente e aveva portato con sé nostro figlio piccolo a Londra. Quando li chiamavo su WhatsApp, lei diceva che non aveva abbastanza giga per una videochiamata. Rispondeva sillabando dei sì e dei no con un ritardo troppo grande rispetto alla nostra reale distanza telefonica. Milano-Londra non era come chiamare Milano-Sydney.

Eppure, sentivo sempre l’eco della mia voce esaurirsi quasi venti secondi prima che arrivassero le sue risposte.

Ero sicuro stesse scorrendo un’app o chattando con qualcuno mentre era al telefono. Coi miei colleghi di lavoro non avevo mai legato. Sembravano attraversati da un fremito di vita solo quando parlavano di calcio. Altre volte passavano ore davanti a una birra, in un locale di sera, a soppesare la quantità di malta che avevano dato nella posa dei mattoni, quel giorno. Dicevano che io ero molto preciso e che non sbagliare quasi mai niente, nemmeno la tracciatura delle linee di posizione per le pareti, mi rendeva quasi antipatico. Qualcuno sosteneva addirittura che avrei dovuto fare il capocantiere, ma che ormai era tardi. C’era sempre una persona più qualificata di me, almeno sulla carta. Anch’io ho sempre pensato che fosse tardi. Ma non per fare il capocantiere. Mi sembrava fosse tardi per quell’altra cosa. Quella che Aurora mi aveva confessato di non provare più, il giorno in cui mi ha lasciato. E invece mi sbagliavo. C’era ancora spazio per la felicità.

III

La ragazza del negozio di fiori era sordomuta. Avevo ordinato alberi di giada, piccole piantine grasse dalle foglie verde smeraldo. Sono foglie che spuntano a coppie dal gambo. Richiedono solo luce, poca acqua, ancora meno terra e possono durare anni. Una settimana prima ero sceso in strada chiedendo aiuto ai miei vicini, una coppia di immigrati albanesi che gestisce una pizzeria al taglio. Fanno i turni sfasati e io mi regolo sui loro orari per uscire di casa. Quella mattina presto lei era al lavoro ed è stato lui a trasportare carrozzella e zaino fino al portone. Quando mi sono seduto, lui si è assicurato che fossi seduto ben saldo e mi ha abbracciato. Lo faceva sempre prima di salutarmi. Se fosse stata lei al suo posto, mi avrebbe dato un bacio sulla fronte. Sembrava che stessi partendo per chissà dove. Invece andavo in centro a Milano, all’hotel Encore. Mirco, l’unico della scuola con cui ero rimasto in contatto, lavorava lì da un anno, e quando aveva saputo dell’incidente mi aveva detto: – Adesso hai un sacco di tempo libero. Vieni a trovarmi al bar dell’hotel qualche volta che ti offro da bere. E così ne ho approfittato per un po’ di mesi, finché quella mattina sono partito molto presto. Di giorno ho fatto un giro per i negozi del centro mentre Mirco dormiva. Poi, verso le sei e mezza di sera, ci siamo incontrati davanti al bar dell’hotel e abbiamo fatto aperitivo un po’ defilati rispetto agli altri clienti. Alle ventidue Mirco ha preso posizione dietro il banco della reception per iniziare il suo turno. Io stavo per chiamare un taxi, ma lui ha detto che quella notte sarei potuto restare, c’era una camera riservata ai dipendenti e non sarebbe stata occupata da nessuno. Così sono salito nella stanza e ho aperto la finestra. Non avevo sonno. Ho svuotato lo zaino e ho disposto sul letto tutti i colori e le piccole tele che avevo comprato di giorno. Poi ho strappato quasi un intero rotolo di carta igienica per proteggere il tavolo su cui avrei appoggiato la tela e ho iniziato a dipingere. Lo facevo da poco, da quando avevo smesso di lavorare. Non ero particolarmente bravo, ma mi rilassava.

Disegnavo fiori, radici, vedute di campi e dettagli di piante. Solo cose vive che non potevano deludermi col passare del tempo.

La mattina dopo, appena Mirco ha finito il suo turno, abbiamo fatto colazione insieme e gli ho mostrato le tele che avevo dipinto durante la notte. Lui è rimasto un po’ interdetto.
Poi ha detto: – Non sono così male – Si è ricordato che proprio nella strada parallela all’Encore si era aperto da poco un negozio di fiori.
– È minuscolo – ha detto.
– Beh, vado a vedere – ho risposto.
– Ho letto su un cartello fuori dal negozio che quelli che vendono i fiori lì non parlano, forse non ci sentono nemmeno. Non so, si vedeva un logo, sembrava un progetto dell’Unione Europea, una roba di inclusione, cose così. Comunque c’era una commessa dentro. Magari devi usare il linguaggio dei segni o scrivere su dei biglietti.
– La commessa non parla e io non cammino. A posto così, no? – ho risposto.

IV

Il sorriso della ragazza del negozio di fiori era luminoso. S’irradiava ben oltre la notte che scendeva nel mio cortile, si muoveva come una brezza leggera tra le foglie degli alberi di giada che mi stava consegnando. Se ha tempo, le va di sedersi un minuto qui?, avevo scritto su un pòst-it che tenevo in mano. Lei ha fatto un passo verso di me, ma è rimasta in piedi. Allora ho lanciato quel foglietto per terra e ho sfoderato il secondo pòst-it. Nel suo bicchiere c’è del tè alla menta, c’era scritto.

Mi sentivo come Bob Dylan nel videoclip di Subterranean Homesick Blues. Ma la ragazza non ha reagito e così ho tirato fuori il terzo pòst-it.

Avevo scritto che le avrei regalato una tela e la busta appoggiata sopra. Dopo averlo letto, la ragazza ha posato le piante sul tavolo e ha smesso di sorridere. Avevo immaginato una reazione del genere al terzo biglietto e così ne avevo già preparato un quarto: So che in negozio ho già pagato anche la consegna. E poi un quinto di emergenza: Nella busta sulla tela c’è solo un omaggio per lei. E se non vuole la tela, ok. Le parole erano così compatte sul fronte e retro del pòst-it che la ragazza del negozio di fiori si è dovuta avvicinare ancora a me per leggere meglio. Quando ha preso in mano il biglietto, le ho indicato la busta. Lei, a quel punto, ha sorriso e poi ha raccolto uno dei pòst-it che avevo lanciato per terra. Ha preso una biro dalla sua borsetta e ha scritto: Se non ci sono soldi, ok per busta. Ma niente tè e niente tela, grazie del pensiero. Quando ho letto quell’ultima frase ho iniziato a sudare. Ho pensato che ero stato uno stupido a immaginare che la ragazza si sarebbe fermata per un tè o per scambiare anche solo un’opinione sul quadro.
Ho capito che avrei dovuto agire all’istante. Così, ho stretto tra le mani il bicchiere che avevo preparato per me sul tavolo e ho bevuto il liquido che conteneva tutto d’un fiato. Poi ho sorriso, cercando gli occhi della ragazza. Era distratta. Stava raccogliendo gli altri pòst-it che avevo lanciato per terra. Io però sentivo già la testa ritrarsi verso la schiena, come se all’improvviso la gravità avesse triplicato il suo effetto sul mio corpo. Non riuscivo più a parlare. Vampate di bianco mi fulminavano gli occhi mentre tentavo di indicare di nuovo la busta alla ragazza fino a che mi è sembrato di essere un mollusco che si comprime sotto il peso di un piede gigante come l’universo. Non avevo quasi più nessun potere su ciò che stava accadendo. Il mio sguardo è scivolato dalla busta alla ruggine della sedia. Quella macchia, anche se adesso si era fatto buio, era diventata ancora più luminosa. Era una venatura tempestata di piccoli bagliori lattei, stellari. L’ultimo squarcio di luce in un vortice di fenomeni chimici che mi stavano spegnendo gli occhi. Sono riuscito solo a intuire quello che è successo dopo. Mi è sembrato che la ragazza del negozio di fiori stesse aprendo la busta perché ho sentito l’accendino cadere. Lo avevo inserito lì, insieme a sette pòst-it, prima che lei arrivasse. Poi, ho perso conoscenza.

1

Grazie per la consegna
fuori orario di lavoro.

2

Non ho mai comunicato davvero
con nessuno,
prima di quel giorno
nel suo negozio.

3

Con lei ho capito che posso essere
terreno fertile per la bellezza.
La bellezza delle sue piante.

4

Gli alberi di giada non parlano,
come lei.
E in questo sono migliori
degli umani.

5

Sul retro dell’ultimo pòst-it di questa busta
capirà cosa fare col mio corpo*.
Sa, ho perso tante cose,
ma soprattutto il tempo.

6

 Adesso lo ritrovo grazie a lei.
Ho capito che
non c’è prima e non c’è dopo.
Tutto è circolare.

7

Se potrò essere concime
per le sue piante,
per me sarà come nascere ancora
Ma più felice.
* Il kerosene si trova
nel cassetto laterale di questo tavolo.
Se non se la sente di darmi fuoco
stanotte, la prego, chiami Mirco
(cell. 342.9753128)
e si assicuri che
le mie ceneri
riposino nella terra
delle piante di giada
che ho comprato.

Ascolta il podcast letto dall’autore

Illustrazione di Dino Caruso Galvagno