Classifica di qualità dei migliori racconti del 2019

Sappiamo che la stavate aspettando come l’appuntamento dal dentista: ecco a voi

LA CLASSIFICA DI QUALITÀ DEI MIGLIORI RACCONTI DEL 2019 SECONDO NEUTOPIA

1. Graziano Gala, 𝐿𝑎 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑑𝑎𝑛𝑧𝑎 – Minima&moralia
(http://www.minimaetmoralia.it/wp/la-scordanza/)
2. Chiara De Cillis, 𝐿’𝑢𝑙𝑡𝑖𝑚𝑎 𝑛𝑜𝑡𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑇𝑒𝑥𝑎𝑠 𝑃𝑢𝑏 𝑀𝑜𝑡𝑒𝑙 – inutile
(http://rivista.inutile.eu/…/lultima-notte-del-texas-pub-m…/…)
3. Antonio Russo De Vivo, 𝐶𝑜𝑛𝑣𝑒𝑔𝑛𝑜 𝑎𝑛𝑛𝑢𝑎𝑙𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑎𝑛𝑖𝑚𝑎𝑙𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑠𝑡𝑖 – fillide
(https://www.fillide.it/…/489-antonio-russo-de-vivo-convegno…)
4. Roberto Camurri, 𝐿’𝑎𝑢𝑡𝑜𝑒𝑟𝑜𝑡𝑖𝑠𝑚𝑜 𝑑𝑒𝑖 𝑡𝑟𝑖𝑐ℎ𝑒𝑐ℎ𝑖 – Tina
(http://www.matteobb.com/…/uplo…/2018/06/tina31-defAGOSTO.pdf)
5. Federico Armani, 𝑀𝑎𝑠𝑞𝑢𝑒𝑟𝑎𝑑𝑒 – CrapulaClub
(http://www.crapula.it/masquerade/)
6. Carlo Maria Masselli, 𝑃𝑎𝑠𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑜, Neutopia Magazine
(https://neutopiablog.org/2019/05/14/passaggio-di-stato/)
7. Davide Galipò, 𝐸 𝑝𝑜𝑖 𝑐’è 𝑀𝑎𝑡𝑡𝑒𝑜 – Narrandom
(https://narrandom.it/2019/04/19/e-poi-ce-matteo/)
8. Viola Giacalone, 𝐿𝑒 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑐𝑜𝑙𝑜𝑠𝑒 – In_fuga_dalla_bocciofila
(http://www.infugadallabocciofila.it/le-relazioni-pericolos…/)
9. Lucia Perrucci, 𝑊𝑜𝑜𝑑𝑠𝑡𝑜𝑐𝑘 – L’inquieto
(https://www.linquieto.it/woodstock/)
10. Alessio Mosça, 𝐺𝑙𝑖 𝑒𝑠𝑎𝑛𝑡𝑒𝑚𝑖 𝑒 𝑖 𝑙𝑢𝑐𝑢𝑚𝑜𝑛𝑖 – La Nuova Verde
(https://verderivista.wordpress.com/…/gli-esantemi-e-i-lucu…/)

Poscritto: menzione a parte merita Alfredo Zucchi con il suo saggio, 𝐵𝑟𝑒𝑣𝑒 𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑟𝑎𝑐𝑐𝑜𝑛𝑡𝑜, che potete leggere su Cattedrale Magazine
(https://www.osservatoriocattedrale.com/…/breve-elogio-del-r…)

“E l’unico modo in cui può avere luogo questo sequestro momentaneo del lettore è attraverso uno stile basato sull’intensità e sulla tensione, uno stile in cui gli elementi formali e espressivi si adattino, senza la minima concessione, all’indole del tema, che conferiscano al tema la sua forma visiva e auditiva più penetrante e originale, che lo rendano unico, indimenticabile, che lo fissino per sempre nel  suo tempo, nel suo ambiente e nel suo senso più primordiale.”


(J. Cortázar, “Algunos aspectos del cuento” (1962-63), Obra crítica 2, 1994, Alfaguara)

🌟 Buone letture e buon 2020 (a denti stretti) 😁

Neutopia – Rivista del Possibile

Per una storia del godimento

Nel pensiero occidentale del XXI secolo, dopo la sbornia ideologica del Novecento, si dà ormai più importanza ai nomi delle cose anziché alle cose, all’inseminazione anziché al seme, giungendo contraddittoriamente a pregare l’assenza di Dio fino a riderne senza più alcuno sprezzo del patetico.
L’albero della conoscenza, assediato da ogni lato dai rampicanti dello scetticismo e della disillusione, ha perso memoria dei concatenamenti indispensabili tra radici e frutti, e se ne sta rachitico, in mezzo a una miriade di saperi frammentari, come risultante di un mondo che gestisce la frammentazione e la perdita di senso inventandosi senza requie un post-qualcosa blandamente terapeutico.
Laddove gli -ismi permettevano la gestione autoritaria dei saperi, oggi abbiamo un mondo che si aggancia ai propri postumi politico-culturali nascondendone le implicazioni dispotiche attraverso la liberalizzazione democratica delle tecnologie.
Per intanto, almeno da Bataille in poi, se mi costringo a pensare alla morte, e soprattutto alla mia stessa morte, giungo a ridere di tutto, anche della morte degli altri, ma senza disgusto, senza disprezzo, calandomi in ogni morte come se mi spogliassi nudo di fronte alla più grande eventualità di vita. Immaginate dunque quanto potrei ancora ridere se uccidessi in me anche l’ombra di Dio!
Proprio il processo storico chiamato Dio si è rivelato l’ultimo termine prima che i nomi esplodessero in un nuovo corpo – e questo corpo novello è il comune, l’assenza di termini, di confini – dove «confine» non è sinonimo di «estremo».
Lestremo non tollera limitazioni. Può insediarsi ovunque. Non è ricerca del vizio, bensì poesia, coltivazione del miglior senso possibile applicata al conseguimento della soddisfazione, della gioia, e che dà un senso al divenire, alla comunità di chi ritrova l’Altro soprattutto – o forse soltanto – attraverso la continuità dei propri smarrimenti, dei propri entusiasmi, senza più asservirsi storicamente ad alcuna speranza.

Lestremo non tollera limitazioni. Può insediarsi ovunque. Non è ricerca del vizio, bensì poesia, coltivazione del miglior senso possibile applicata al conseguimento della soddisfazione, della gioia, e che dà un senso al divenire.

In Madame Edwarda di Georges Bataille – racconto esacerbato, da educanda ormai avvilita (cfr. Oeuvres complètes, tome III, Gallimard, Paris, 1971, pp. 7-31) –, Dio si prostituisce e prende le fattezze di una donna lussuriosa, «malata», febbrile, così da poter avere ancora qualcosa da dirci all’estremo di ogni racconto, di ogni narrazione. Ostentando un sesso beante, e facendosi più nuda della morte, Edwarda si spalanca le grandi labbra e sembra dirci: ho perdonato all’uomo di essere uomo, al maschio di essere maschio e a me stessa di essere femmina; ora posso amare chiunque, anche chi mi porta in dono la sua morte, ma solo se non mi seppellisce sotto la verità economica dell’amore.

Nel racconto di Bataille, Dio è una puttana di bordello, una figura femminile asservita al pòlemos del discorso erotico dominante, agli stilemi della narrazione maschile e maschilista. Ciò nonostante, sfigurata dal vizio della narrazione e dalla narrazione del vizio, ella rimane un tentativo di salvezza, una sorta di salvagente per la ragione che fa acqua da tutte le parti, per cui la sua figura non si sgancia realmente dal dominio del sacro e delle pratiche sacrificali (si tenga a mente che «sacrificare» deriva dalla combinazione di sàcer e fàcere: «rendere sacro», appunto).
Curiosamente, ma non certo casualmente, l’ostensione oscena della Madame Edwarda batailliana ricorda le vicende di una religiosa molisana vissuta nella Napoli del Seicento: suor Giulia di Marco. Condannata dallInquisizione nel 1615, morì in prigione a Castel Sant’Angelo. Del suo caso ci resta una sola cronaca, scritta peraltro da un anonimo avversario, per cui è senz’altro da ritenersi faziosa, se non addirittura calunniosa (Istoria di suor Giulia di Marco e della falsa dottrina insegnata da lei; alcune versioni manoscritte si trovano presso la Biblioteca nazionale di Napoli: posizioni XIV-E-58 e XIV-X-52). Secondo le accuse, la si riteneva tra i fondatori di una setta – detta della «carità carnale» – che prevedeva rituali a sfondo sessuale. Pare infatti che i suoi seguaci partecipassero a riunioni segrete durante le quali s’inginocchiavano di fronte «alle parti impudiche di Suor Giulia baciandole e chiamandole porte aperte del Paradiso, e che li cieli s’aprivano per vederle», rito che poi sfociava in vere e proprie orge.
Madame Edwarda si pone dunque su una soglia critica, dove il discorso teologico viene rovesciato, ma non infranto. La prostituta della narrazione batailliana, a un certo punto, quasi inopinatamente (ma la rivelazione non ha sempre qualcosa di inatteso, di sconcertante? “Vedi, guarda, sono Dio”), si apre le grandi labbra, spalanca il proprio sesso di fronte al protagonista – al lettore – e gli offre così una sorta di sacramento, di ufficio carnale. L’idea di Dio riemerge allora da un sesso tumescente e si rivela agli uomini in un tentativo di rottura con ogni forma di colpa o innocenza statuita storicamente.

Madame Edwarda si pone su una soglia critica, dove il discorso teologico viene rovesciato, ma non infranto.

Evidentemente, qui non abbiamo però una sospensione del commercio. Anzi, il «commercio carnale» si fa mediazione religiosa, valore, equivalente generale (almeno in potenza) di ogni sacralizzazione dello scambio carnale, materiale. Abbiamo infatti pur sempre la trasmissione del sacro attraverso una comunione che ha bisogno di «ostie», mediazioni religiose, nonché una valorizzazione finanche dell’osceno!
Forse solo alla fine del racconto, quando Madame Edwarda si concede senza contropartita al primo venuto, cioè al tassista che carica lei e il protagonista all’uscita dal bordello, forse solo allora si ha una cesura nella dialettica norma/trasgressione che sottintende il sacro e le sue pratiche riparatrici, espiative, generalmente unitarie. Ma qui il racconto s’inceppa, il filo narrativo si spezza. Scompare anche la soglia, anche la necessità di tenersi in equilibrio su di essa, perché accade che venga sospeso ogni valore, ogni dinamica di valorizzazione, perfino la poesia, l’amore, e si spalanchi d’improvviso un territorio inesauribile, inaudito, spaventevole. Bataille, nella sua estenuata ricerca di senso, giunge alla bestemmia: «Dio, almeno lui, saprebbe? dio, se “sapesse”, sarebbe un porco», e spegne così la propria volontà di narrazione arenandosi sulle rive del non-senso, come un animale impazzito che giri in tondo cercando di mordersi la coda.

Laddove Sade aveva agganciato ideologicamente ogni pratica e ogni tentativo teorico alla potenza della Natura, che ai suoi occhi tutto legittimava e comprendeva, la ricerca di Bataille, invece, toccando la materia estrema dei viventi, perde in sicurezza e ha bisogno di trovare un nuovo equilibrio nel suo stesso vuoto, come pure un metodo per affrontare la sospensione della totalità, di ogni idea storica di totalità, ma così facendo conduce l’esperienza dell’uomo, teoricamente, all’estremo del possibile.
L’impossibile diventa allora la comunanza col vuoto, la comunanza tra coloro che si son chiamati fuori da ogni comunità e che danzano pateticamente (in senso etimologico) al limite dell’esperienza umana. Non viene combattuta la sofferenza, ma la si sussume nell’impianto teorico per mezzo della mediazione «lussuriosa».
Ora, se il bisogno di riparazione giunge fino al punto di spalancare le profondità del corpo per sacralizzarle e renderle quindi partecipi dello scambio, facendone uno strumento avanzato – ancorché ardito, «osceno» – per la ricomposizione, la «rilegatura» delle separazioni sociali, occorre sottolineare che un tale movimento di valorizzazione può reggere solo in un abbandono «sovrano», in un rapporto di subordinazione rispetto all’abbandono stesso. Non appena riemerge la critica, non appena il divenire e il mutamento ci incitano all’oltrepassamento della «notte nera», appare evidente la presunzione di chi voglia spalancare le gambe dell’Altro (o le proprie) facendone un mezzo di ricomposizione astratta del vuoto esistente tra i viventi.

Laddove Sade aveva agganciato ideologicamente ogni pratica e ogni tentativo teorico alla potenza della Natura, la ricerca di Bataille, invece, perde in sicurezza e ha bisogno di trovare un nuovo equilibrio nel suo stesso vuoto.

L’immagine della «notte nera» deriva da un passo di Marguerite Duras, preso da un testo del 1982, La Maladie de la mort, nel quale torna lo spalancamento osceno del sesso femminile: «Voi chiedete come potrebbe nascere il sentimento d’amore. Lei vi risponde: Forse da una frattura improvvisa nella logica dell’universo. Dice: per esempio da un errore. Dice: mai da un volere. Voi chiedete: Il sentimento d’amore potrebbe arrivare anche da altro? La supplicate di rispondere. Lei dice: Da tutto, da un volo d’uccello notturno, da un sonno, dal sognare di dormire, dall’avvicinarsi della morte, da una parola, da un crimine, da sé, da se stessi, improvvisamente, senza sapere come. Dice: Guardate. Apre le gambe e, nell’incavo delle gambe aperte, voi vedete infine la notte nera. Dite: Eccola, la notte nera, è qui» (M. Duras, La Maladie de la mort, Les Éditions de Minuit, Paris, 1982, pp. 52-53).
I protagonisti del racconto durassiano sono un uomo – etero od omosessuale, poco importa – e una donna che egli paga per alcune notti, ma che non è dichiaratamente una prostituta. Lungo tutto lo snodarsi della narrazione, rimane preminente l’interrogarsi dell’uomo. Anzi, le questioni che egli pone rappresentano i nodi stessi della narrazione e riguardano la sua (presunta) impossibilità ad amare, a desiderare, a realizzare l’amore. La donna definisce questa impossibilità usando una definizione folgorante e lapidaria: «malattia della morte». Morte intesa come inabilità a creare un territorio comune, come seppellimento del sé nell’Io interrogante, come ricerca pretestuosa di un metodo, di un progetto che sopravviva ai corpi senza metterli in gioco compiutamente. Lei però non contrasta la malattia della morte, non si ritiene la cura, né si pone il problema di esserlo; nell’economia della narrazione, si limita a impiegare il proprio corpo insieme a pochissime parole. La sua comunicazione è un tentativo di salvaguardia dell’essenziale. Non dice molto. Risponde con semplicità, affermando senza violenza la sostanziale incapacità dell’uomo a privarsi dell’interrogazione. Si fa pagare, rispetta il contratto e infine sparisce, ma non resta succube dello scambio, non si preoccupa di creare un’intesa a partire dalla valorizzazione del suo corpo. Sparisce e basta, dopo aver riempito la stanza e le notti con il suo corpo, con l’eventualità di un amore neanche tentato. In tutto questo, lui si accontenta di perderla senza perdersi, volendo forse, fin dall’inizio, mantenersi alla superficie di uno smacco annunciato – e proprio qui sta il suo vero limite: mancare di coraggio e averlo sempre saputo; sentirsi l’amante dell’impossibile – una figura batailliana – per poter restare il depositario di un amore intangibile, ideale.

A questo punto della trattazione, ponendo in una relazione arbitraria, ma nient’affatto abusiva, i succitati racconti di Bataille e Duras, possiamo individuare i due limiti del sacro: da una parte, la sacralizzazione, (il sacrificio) finanche dell’estremo, dell’osceno; dall’altro, lo scontro con l’inconoscibile, con la «notte nera», l’ammissione di uno smacco, di una incapacità nel proseguire la ricerca lungo i crinali scoscesi del senso, del sacro stesso. La costruzione di una macchina mitologica lussuriosa crea e sacralizza il circulus vitiosus del desiderio individuale e tende a collettivizzarlo nel cerchio magico di un processo religioso. In questo movimento, la trasgressione della norma resta funzionale alla ricomposizione astratta – tutta culturale – delle contraddizioni materiali.
Plagiando Feuerbach, si potrebbe allora dire che la fica, in Bataille, diventa attributo del divino – almeno per il maschio etero – e che la femmina dell’uomo (anzi, un suo dettaglio, un suo movimento di dettaglio) scalza Dio facendosi strumento della rivelazione, ierofania destinata a eludere o a tentare la «notte nera», costruendo così un moderno e curioso punto di contatto fra teologia e pornografia.

Plagiando Feuerbach, si potrebbe allora dire che la fica, in Bataille, diventa attributo del divino.

Risulta però evidente come venga ancora a mancare lo scarto decisivo, il culmine del carnale, che potrebbe affermarsi soltanto attraverso una critica consapevole, autonoma – non teologica, né pornografica – capace di esaltare l’unicità del singolo e l’insieme delle sue relazioni senza ridurli all’uno, senza subordinarli a una reductio ad unum, a una rilegatura sacrale, sacrificale.
Nel ribaltamento antropologico e osceno dell’essenza divina, Bataille opera un’insurrezione a metà, una theologische Insurrektionen: la formula – ironica – è di Max Stirner. In altre parole, se l’estremizzazione «oscena» dei corpi non annienta il sacro, se il sacro sopravvive e si rafforza addirittura attraverso il «vizio», il singolo resterà subordinato a dei dettagli teologico-pornografici, a uno spettro del godimento, della «redenzione», e non potrà mai godere compiutamente della propria unicità psico-fisica e relazionale.

Se il sacro sopravvive e si rafforza addirittura attraverso il «vizio», il singolo resterà subordinato a dei dettagli teologico-pornografici, a uno spettro della «redenzione», e non potrà mai godere compiutamente della propria unicità psico-fisica e relazionale.

Ancora in Stirner troviamo abbozzate la volontà e la brama di un deciso mutamento di prospettiva: in quanto vivente consapevole della propria unicità, io cerco di prendere ciò di cui ho bisogno, tento di non farmi diminuire nella mia potenza e mi voglio come «l’inizio e il materiale da usare per una nuova storia, una storia del godimento dopo la storia del sacrificio [einer Geschichte des Genusses nach der Geschichte der Aufopferungen], una storia non dell’uomo o dell’umanità, ma – mia» (Max Stirner, Der Einzige und sein Eigentum, Reclam, Stuttgart, 1972, p. 198).
La storia del godimento propugnata da Max Stirner si pone dunque contro il godimento della storia fissato astrattamente dalle dinamiche sociali. In una tale prospettiva, la «notte nera» lascia il posto all’aurora, all’affetto, a un tentativo di continuità tra i viventi, le cose, le parole. Nell’affermazione del desiderio, ci sono svelamenti che denunciano immediatamente le mancanze della poesia, soprattutto quando tali mancanze tendono a neutralizzare la potenza del vivente. La vera regola del comune è la gioia condivisa. L’affetto non può essere un assedio, una sentenza di vita o di morte. Le porte del corpo possono solo essere un transito per l’affetto, non un tabernacolo, non una «moneta vivente». Nel pensiero e nelle narrazioni di Bataille, non vi è luce per i viventi, né gaiezza per coloro che si relazionano materialmente, carnalmente. All’interno della sua opera, la gioia è la grande assente. Per scongiurare la «notte nera», occorre dunque leggere Bataille anzitutto contro le sue stesse idee fisse, e allargare il territorio, abbattere gli steccati del discorso erotico, ambire finalmente a una transessualità dilagante del pensiero.

(1 – Continua)

CARMINE MANGONE è agitatore poetico, traduttore e saggista. Ha scritto di erotismo e dell’oscillazione tra gli estremi per diverse riviste e antologie. È autore, tra gli altri, di Punk Anarchia Rumore (Crac Edizioni), L’insurrezione che è qui (Gwynplaine) e Se questo si chiama amore, io non mi chiamo in alcun modo (Ab imis).

Copertina di Wojtek Siudmak

La pacchia è finita

La pacchia è finita, andate in pace.
Qui giace la vecchia empatia
che tutte le feste si portava via;
è facile essere buoni
con i gommoni degli altri
lo sanno i tanti falsi santi
lo sai anche tu che
l’acqua del vicino è sempre più blu
e il cielo è sempre più bucato.
Remiamo, fratelli,
via dalla terra che non ci ha mai amato
verso la terra che ci odia ma può dirlo di meno
almeno,
fratelli e sorelle,
in tutto questo nero
si vedono le stelle.

Ma la mia pelle così chiara
non ha diritto di parola,
può solo ascoltare e chiedere scusa
e poi ascoltare ancora
e scriverlo nelle avvertenze
che lei non c’entra niente,
poi guardarsi dentro
e capire che mente:
che è figlia del suo mondo
e non capirà mai fino in fondo;
e allora chiedere scusa
e ascoltare ancora.

Ma il nero della morte è uno
e lo conosciamo tutti bene abbastanza
da capire che nessuno
merita un’intera esistenza guardandolo in faccia
nessuno può rinfacciare a qualcuno
l’aver provato a cambiare traccia
quando l’unica canzone che gli suona in testa
da che si ricorda
è il rumore del suo corpo sotto una cinghia,
quando l’unico peso che gli impedisce di essere così leggero
da prendere il volo
è quello dei cadaveri che tiene tra le braccia.
È vero, se guardi bene lo vedi
dietro il suo corpo canuto:
la strada di casa è segnata non da briciole ma da
corpi caduti
come prede di caccia;
ma cacciamoli dal nostro Paese,
che non si sappia che abbiamo paura di guardarli in faccia
che non si dica che siamo razzisti ma
mangiano a nostre spese
che si sappia che neanche noi arriviamo a fine mese.
Gridiamolo a tutti che la minaccia arriva in barca
che non si sappia
che spesso arriva a piedi o in taxi o in giacca e cravatta
sono loro i colpevoli
colpevoli di non essere
esattamente entusiasti nel patire la fame
colpevoli di non essere
morti in mare
ma con quale cuore possiamo pensare
che il nostro dolore
abbia un colore
diverso
con quale cuore
ci pensiamo al centro dell’universo
e il resto scenografia
che già che ci siamo, si potrebbe fare un pochetto più chiara?
Non siamo razzisti,
ma tutto quel nero ricorda la morte
non siamo razzisti,
ma vien prima la NOSTRA morte
prima gli Italiani, come un cazzo di gioco di ruolo
– la parte dell’essere umano decente era finita
e quella dell’oppressore ci viene così bene, anni di esperienza –
non siamo razzisti,
ma stiamo meglio senza
e non siamo razzisti,
è propaganda:
i figli non erano davvero in gabbia.

Da dove viene tutta questa rabbia?
Da dove lo prendete tutto quell’odio?
E chi vi ha convinto che fosse per loro?
Chi è che lo vende, dall’alto di Monte Citorio
con etichette con scritto “capro espiatorio”?
Non vedete che mente?
Non sapete più leggere altro se non il vostro nome
e siccome
non vedete oltre i confini dei vostri corpi
chiudiamo gli occhi, chiudiamo le porte, chiudiamo i porti
e che importa fuori chi lasci
se non saprai mai il suo nome
se non vedrai di notte quali lacrime piange
quali nomi chiama,
quali volti accarezza nella mente un’ultima volta
mentre sta morendo.
Concludo dicendo
complimenti ai voi del passato
che con fatica e sudore – e ciò vi fa onore –
prima di nascere, ancora embrioni,
vi siete scelti il lato giusto del mare.
Coglioni.

La pacchia è finita, andate in pace.

Testo e voce di Martina Cappai Bonanni
Montaggio e sottotitoli di Davide Galipò

Fuori servizio

Compongo il numero, dall’altro lato il cellulare squilla cinque o sei volte.
– Pronto.
– Dino, sono Gabriele.
– Dimmi.
– Sì… la chiamo per…
Conversare è impossibile. Il sottofondo è un frastuono di piatti e bicchieri scaraventati per terra. Immagino quei cocci che si frantumano e si ricompongono, tornando di nuovo al posto loro. Tac, tac, tac.
– Con chi parli? –  gli chiede qualcuno al suo fianco.
– Non lo conosci – risponde.
– Passamelo! – riferendosi a me.
– Mirko, per favore… – sbuffa.
– Dammi qua, cazzo! – gli strappa il cellulare di mano e si rivolge a me: – Ti pare giusto che torno a casa e papo non mi fa trovare il pranzo?
Il mio orecchio destro è in preda a un ronzio metallico del tipo zing zing zing. Non so rispondere. Resto lì fermo a mordermi il labbro di giù. Lo sguardo inchiodato al cactus sul balcone.
– Mirko, basta! – grida, riprendendosi il cellulare.
– Devi scusarmi. Sai, mio figlio ha carattere – mi dice.
La parola carattere di colpo assume un’accezione indecifrabile. “Non si preoccupi” è l’unica frase che riesco a pronunciare.

Circumvallazione esterna.
Ventidue ore prima la sua Hyundai Matrix aveva colpito frontalmente la mia Polo di terza mano. Il paraurti diventò concavo, mentre nubi dello stesso colore del piombo erano pronte a gettare acqua su di noi. Col cuore impaurito scesi dalla macchina. Lui avanzò verso di me rabbioso; gli mancava il pollice. I clacson strombazzavano e i guidatori mandavano bestemmie.
Dino, alla vista del danno, sparò un “porca puttana!” Seguì un dialogo confuso su chi avesse torto o ragione e, dopo qualche affronto malcelato da parte sua, ci scambiammo i numeri di telefono.
– Dopo Natale ripago il danno! Hai la mia parola d’onore.
– Ma…
– Niente ma! –  fa lui.
– La sua macchina non è assicurata! – gli dico.
– Parola di maestro di techendò. Perciò, stai tranquillo – replica lui.
– Ah, è maestro di techendò?
– Mi trovi alla palestra Il Cigno bianco dal lunedì al venerdì.
– Come?!
– Quella in via Artiaco. Non l’ha mai sentita? È famosissima… Ora devo attaccare, Mirko ha bisogno di me.
“Il cigno bianco… Gesù!”

La parola carattere di colpo assume un’accezione indecifrabile. «Non si preoccupi» è l’unica frase che riesco a pronunciare.

Di piante grasse ne è pieno l’appartamento, una passione della mia compagna, Arianna. È convinta che diano un tocco esotico all’ambiente, eppure su di me fanno un effetto diverso. Cactus e Tacitus bellus e Crassula, mostri affamati con denti aguzzi pronti a staccarti un braccio. Quando rientra provo a raccontarle dell’incidente, ma mi risponde con modi distratti: – Ne parliamo a cena amorino… –  fa con la gomma tra i denti. E va in questo modo: decine e decine di selfie, lei e la nuova pianta tutte spine, minuscola creatura d’autentica e rara bruttezza.
Fatico a restare qui. Esco.

Ritorno che fuori è notte.
– Ciao.
– Ciao.
Arianna è seduta sul divano con le gambe incrociate a fare da piano d’appoggio al Mac.
Scorre lenta la home di Facebook finché si concentra su una notizia: trattiene un sorriso tra la meraviglia e l’inquietudine.
Lancio un’occhiata allo schermo e accade l’inverosimile. In tuta da techendò, attorniato da un gruppo di allievi, si destreggia – in movenze che non sarei capace di descrivere nei dettagli – un uomo di statura media, alquanto rotondo. Ha l’aria del pesce palla. Cerco di intravedergli il pollice. Non c’è. Sobbalzo. È proprio lui, Dino.
– Che storia… –  dice sottovoce Arianna.
– Lo conosco!
– Chi?
– Quel tizio nella foto.
– Seee…
– È il tipo dell’incidente!
– A cosa ti riferisci?
– Stamattina. Ricordi? Tentavo di spiegarti… –  mi affanno.
Cerco una via di fuga. Inquadro l’ingresso del balcone e quel maledetto cactus esclude il mio sguardo dal quartiere.
“Perché devo sempre ripetermi, perché?!”
– Ti senti bene?
– Ari, parlami dell’articolo.
– Non capisco… quale incidente?
– Ti spiego dopo.
– Sei pallido.
– Che dice quel cavolo di articolo?
– Stai diventando ostile. Non mi piace.
– Va bene – tiro un sospiro profondo.
– La vuoi una tazza di latte e cioccolato?
– Chi sono? Tuo figlio?!
Non mi rivolgerà la parola per il resto della serata.
Vado in camera da letto.

Mi collego a Facebook alla ricerca della notizia.
“Due dodicenni tengono in ostaggio il Despar di via Trencia. Uno dei baby banditi, Mirko Gallucci, ha fatto irruzione armato di fucile subacqueo, trapano a batteria legato sulla schiena e, attorno alla vita, petardi Cobra 11.”
– Il figlio di Dino?! – penso a voce alta.
“La complice, Ginevra Taddeo, sua compagna di banco, trascina una piccola bombola del gas collegata a cannello lanciafiamme su un carretto Ikea.” “Lei, costume da principessa e scarpe bianche con zeppa. Lui, tuta mimetica e smiley cucito sul berretto.”
“Piuttosto stravaganti” li definisce il giornalista.
Chiudo Facebook.

Il silenzio del quartiere entra in camera. È l’inizio dell’inverno. Esco sul balcone stando attento al cactus; su via Terracina non c’è essere umano, le saracinesche abbassate, le panchine vuote.
Arianna si è rinchiusa nello studio, ci dormirà. Fa così quando litighiamo. Quella stanza piena di libri diventa il suo rifugio. Il letto a due piazze senza di lei sconfina nei meandri della periferia. Una paura leggera s’arrampica fino al diaframma, il respiro retrocede.
“Vuole un figlio da me. Per quale motivo? Farei pena come padre.”
“Perché ti ostini Arianna? Non te l’ho mai chiesto. La tua è presunzione di riuscire a cambiarmi. Ecco cos’è. Devo smetterla con questi pensieri.”

“Uno dei baby banditi, Mirko Gallucci, ha fatto irruzione armato di fucile subacqueo, trapano a batteria legato sulla schiena e, attorno alla vita, petardi Cobra 11.”

Non riesco a dormire. Ritorno su Facebook alla ricerca di aggiornamenti in diretta. Nuove foto compaiono sulla pagina del quotidiano online, perlopiù macchine di carabinieri, mezzi dei vigili del fuoco, un’ambulanza.
“Guardia giurata ferita gravemente.” “L’uomo si trovava al supermercato per comprare delle uova. Ha provato ad affrontare il baby bandito e lui ha reagito con il fucile da sub: l’arpione si è conficcato nella spalla trapassandola. Sulla fronte della giovane guardia, a macchiare uno smack verde fluo stampato sulla guancia probabilmente da Ginevra, è il sangue che scorre da un’incisione: la scritta FUORI SERVIZIO che i due baby banditi hanno procurato all’uomo con un semplice taglierino, prima di spingerlo giù per le scale fino all’entrata del supermercato.”

Mi alzo in piedi, infilo jeans, camicia e giacca, le scarpe sull’uscio della porta. Bevo qualche goccia d’acqua. Ho l’atteggiamento di chi è diretto a un appuntamento senza invito. Non so che fare, ma la smania mi spinge ad andare.
L’auto di Arianna è parcheggiata dopo il campo da basket. Trecento metri verso est. Accelero il passo alla vista di un personaggio poco rassicurante appoggiato al palo della luce. Lancia un’occhiata così terribile che un brrr mi sale lungo tutta la schiena. Col polso della giacca asciugo il parabrezza umido.
Sarò di ritorno prima che Arianna si svegli, il supermercato non dista molto. Lascio le case bianche rettangolari dietro di me, riflesse negli specchietti della Peugeot. Imbocco il tunnel illuminato da luci arancioni, ai suoi lati cumuli di immondizia e chiazze di fango si perdono nella notte. Sbuco su via Trencia, il rettilineo ai piedi di Monte Sant’Angelo. Da queste parti ci venne a vivere mio padre dopo che la mamma lo cacciò di casa. Lei ripeteva sempre “Laggiù le puttane vanno a buon prezzo”; l’aveva trovato a letto con la nipote. Non ebbe il coraggio di chiedere il divorzio. Prese le sue cose e andò via.

Al mio arrivo uomini in divisa vagano in modo confuso tra gruppi di persone avvinghiate alle transenne. Mi faccio largo tra quei corpi, quando una vecchia d’improvviso mi tira a sé: – È impazzito, tale e quale alla mamma. Anastazja del quinto piano… manco un mese fa il marito, Dino, l’ha fatta ricoverare. Scriveva dappertutto VI UCCIDO. VI UCCIDO TUTTI!
– E mica solo questo! – aggiunge un ragazzo, secco e cupo – La notte girava nuda, ubriaca, in mezzo alla strada. Quel bastardo di Dino, il maestro di techendò…
– Cosa ha fatto? – chiedo io interrompendo il suo discorso.
– Insieme ad Alfredo gestisce il giro di puttane della zona. Poca roba, sia chiaro, sono due falliti. Tossiche, minorenni, qualche polacca. Alfredo po’ è il papà di Ginevra. Quell’altra che si è rinchiusa lì dentro con Mirko. Ho il binocolo, vuoi guardare?
Mi gira la testa. In bocca ho il sapore della ruggine. Inchiodo i piedi sull’asfalto e…
– Ciao, ciao, ciao! –  Mirko irrompe cattivissimo dagli altoparlanti.
– Eccolo! – dice la vecchia di prima, avvolgendosi nel suo scialle.
Cala il silenzio.
– Ora devi guardare, ora! – suggerisce con tono fermo il ragazzo secco e cupo.
Avvicino il binocolo agli occhi.
Mirko si prepara a eseguire il suo proclama, stando su una cassetta ribaltata. Non avevo mai visto un volto tanto armonioso e diabolico al tempo stesso. Lo sguardo pieno d’odio, dai lineamenti aggraziati, si perde nella luce dell’alba color rosso bruciato.
Riesco a intravedere Ginevra e qualche ostaggio solo all’attivazione di due fari che illuminano l’intera facciata del supermarket. Lei ha il costume da principessa, lunghi capelli le cadono sul viso di cerone bianco, occhiali bui, il viso spigoloso, inclinato di traverso. Seduta sul banco cassa, sorveglia la fila di ostaggi legati con nastri e fiocchi. Tra le mani, ben impugnato, il cannello lanciafiamme.

Non avevo mai visto un volto tanto armonioso e diabolico al tempo stesso.

– Noto con piacere la presenza del sindaco Gegè Colella – osserva Mirko.
Un faro si scaglia sul primo cittadino. Ha le spalle coperte da una mantella per proteggersi dall’umidità, la pancia grassa appoggiata sulle cosce.
– Cos’è che vuoi? – chiede il sindaco.
Alla domanda, Mirko inizia a ridere e a saltellare.
– Quanto sei un lurido e viscido porco bacucco! – Mirko strilla nell’altoparlante.
Si porta le braccia ai fianchi, poi, con calma scartoccia un mini pandoro Bauli, gli dà tre morsi voraci e getta lo scatolino per aria.
– Lo show non è di vostro gradimento? – rivolgendosi alla folla – E come darvi torto! Voi, genti illustri, siete abituati a ben altro… e io, chi sarei? Un matto!
– Mirko! – la voce di Dino echeggia strozzata.
– Papone!
– Figlio mio!
– Maledetto tafano! Dov’è la tua sgualdrina dell’est?
– Che vai dicendo? – esclama Dino a braccia spalancate.
– Falla finita, trippone. Qui sanno chi sei! Vero? – chiede a noi altri.
Scende dalla cassetta capovolta e siede sul banco cassa vicino a Ginevra. Lei gli sorride complice.
Intanto, un vecchio in smoking, accompagnato da una ragazza, si avvicina a Dino.
Mirko riprende il discorso: – Non c’è magnificenza, miei cari. Nessuna meraviglia su questo finale, né una dolce colonna sonora. Non temete, lo show sta per terminare. Sarà la realtà a punirci! Beāti possidentes! Chi è in possesso del bene è in vantaggio!
Ginevra si appoggia a lui. E i boom bam boom delle forze speciali esplodono insieme ai flash accecanti.
Ho un tremore alle gambe. Il binocolo cade a terra. Dino si piega su se stesso aggrappato al braccio di quel vecchio. Tra il panico generale del formicaio impazzito, qual è ora il parcheggio del supermercato, provo ad avanzare. Una guardia mi bracca. Dietro di me ricompare il ragazzo secco e cupo.
– È lui Alfredo – mi dice.
Mi svincolo dal carabiniere e arrivo davanti al vecchio. Ci guardiamo. “Papà” dico in mente.
Prima Mirko, e dopo Ginevra, vengono trascinati fuori dal supermercato in manette. La gente applaude e fischia all’unisono, qualcuno piange. Arretro, ho conati di vomito e sudo freddo.
“Papà”, ma lui non può sentirmi, né mi ha riconosciuto.
– Ginevra… Mirko.
Il cellulare inizia a squillare: è Arianna.

Fotografia di Philip-Lorca diCorcia