E nondimeno la tenerezza

Stai tranquilla, non credo a una
sola parola che dici, ma a tutte insieme.

Ingeborg Bachmann

Ci sono di quelli che provano e riprovano un brano musicale, restando ligi alle indicazioni dello spartito, finché non sono contenti della propria fine esecuzione. Io, all’opposto, perseguo il fragore deragliante di un destino contro il quale lotto ogni giorno per il puro gusto di non darla vinta all’idea di morte che vien legittimata dagli spiriti servili.
Però non mi si fraintenda. Mi occupo meno dei presunti umani e molto più di quel movimento che potrebbe riconsegnarmi, anche mio malgrado, e in ogni momento, al bacino comune della materia vivente.

Io sono qui, nel mio dolce divieto della banalità, insieme all’oblio che ci abbandona tutti sulla nuda terra, e mi tengo in uno spazio aperto che è fatto sempre più di non sapere, tappeti di trifoglio e movimenti eterni.
Detesto profondamente la gente che insegue il bello stile, la cialtroneria democratica della letteratura, i premi, i lettori, la critica cazzinculo, come pure la poesia senz’orgasmi, senza fica, senza pompini, vale a dire tutta quella poesia da decerebrati che strizza l’occhio al potere, e che si vuole senza fottisterio, senza la santa frociaggine dell’universo – quella poesia, insomma, che fa la muffa, la ruggine, e che proprio per questo avrebbe bisogno di una bella passata di minio (non di arminio).

Contro la boria poetica di “paesologhi” e recuperatori della ruralità, io sono per lo spopolamento dell’interno, di qualsiasi interno (anche del mio, anche del vostro).

Contro la boria poetica di “paesologhi” e recuperatori della ruralità, io sono per lo spopolamento dell’interno, di qualsiasi interno (anche del mio, anche del vostro).
Abbiate quindi cura di lasciare la gratuità ai faggi, agli ontani, ai lupi, alle martore, al gatto selvatico. Accettate il consiglio del proletariato animale o dei lumpen vegetali: morite in guerra dentro le vostre città di merda e non state a preoccuparvi della materia vivente che vi seppellirà.
Allungare le mani e fare una carezza ad ogni possibile del mondo. Non è difficile. Non è gravoso. Basta solo staccarsi dalle proprie certezze senza farsi schiacciare dalla necessità. L’affetto non può diventare una necessità. I piccoli di cinciallegra spiccano il volo e non torneranno mai più al nido. Occorre scrollarsi di dosso i limiti del padre e della madre, uscire dai loro puerili ricatti sentimentali e disconoscerne ogni potere sui nostri migliori accanimenti.

Via Jesse Draxler

Ho costruito il mio pensiero e le mie visioni dell’esistente a partire da una massa di informazioni, schemi, abitudini ed errori che mi è stata consegnata dai Padri e dalle Madri dell’umanità. Non diversamente da chiunque altro, ho dovuto assecondare questo passaggio, questo affido, almeno finché non si è andata sviluppando in me una personale capacità critica.
Le narrazioni storiche del mondo sbozzano l’arredo emozionale e affettivo del singolo. Attraversando idee e luoghi, maturiamo poi un nostro andamento critico lungo lo snodarsi degli eventi. Ed è proprio grazie alla critica – intesa come autonomia di pensiero nel divenire del mondo – che giungiamo alla consapevolezza della nostra unicità.
Il processo critico di costruzione e sviluppo dell’unicità può avere molto di singolare, ma niente di separato. L’unicità è come un taglio nell’infinito srotolamento delle relazioni – l’emergenza di un ritmo jazz delle particelle – la semplicità che diventa l’opposto della parsimonia – uno choc gentile, costruito, irreplicabile, che fa una tacca, ogni volta, lungo il movimento generale del nostro vivere.
Quindi: l’unicità è l’irruzione del senso, l’addensamento migliore e sempre effimero di tutti i possibili in uno spazio riconoscibile, aperto, ma non necessariamente cartografabile.

L’unicità è l’irruzione del senso, l’addensamento migliore e sempre effimero di tutti i possibili in uno spazio riconoscibile, aperto, ma non necessariamente cartografabile.

Tra le opere che non sono sprofondate nella palude della letteratura mainstream, mi torna in mente il Bebuquin di Carl Einstein, questo prodigioso antiracconto del 1912, che continua a non dirci alcunché di accomodante e ad insinuare altresì ogni arbitrio possibile dentro il flusso della narrazione, sbattendo in faccia al lettore un intellettualismo sardonico, posticcio, tale da far sembrare l’autore una sorta di Karl Kraus in acido: «Bebuquin, con te i conti non mi sono ancora tornati. Abbiamo dormito insieme, ed ecco che t’arriva la filosofia, e questo è davvero comico. Con te non ci si può prendere sul serio, un contrasto divora l’altro».
E che dire di Je ne mange pas de ce pain-là del sedizioso Benjamin Péret, di questa sua raccolta di veemenze surrealiste (uscita nel 1936) che ha ridotto la poesia a un coacervo di micro-libelli sovversivi anticipando in qualche modo, e di ben quattro decenni, l’astio e la bricconeria anarcoide di certi testi punk? «Allora gli uomini che schiacciano i senatori come cacca di cane / guardandosi negli occhi / rideranno come le montagne / obbligheranno i preti ad ammazzare gli ultimi generali con le loro croci / e a colpi di bandiera / massacreranno i preti in un amen». Ricordo ancora con emozione la pietra tombale del poeta, al cimitero parigino di Batignolles, su cui campeggia il titolo dell’opera in questione. Poteva mai esserci epitaffio migliore per un ingovernabile come Péret?

Via Collateral

Poesia è ciò che albeggia nonostante la morte. Anzi, poesia è proprio ciò che contrasta e accoglie la nostra mortalità creando una promessa di pienezza ed emergendo dal fondale del cosmo come un battito, un ritornello, una sorta di basso continuo che accompagna storicamente la ricerca di un varco attraverso le coltri della necessità.

Poesia è ciò che albeggia nonostante la morte. Anzi, poesia è proprio ciò che contrasta e accoglie la nostra mortalità creando una promessa di pienezza ed emergendo dal fondale del cosmo come un battito, un ritornello.

La poesia contemporanea – la poesia uscita dagli smacchi di Rimbaud e Lautréamont – non narra, non socializza, non indugia sui dati edipici che ci vengono trasmessi col verbo dei padri. Minando i confini del discorso, essa sormonta le rappresentazioni del mondo e fa riaffiorare le voci che son state sommerse storicamente dalle narrazioni sociali – o almeno tenta, viene tentata.
Un altro grande antagonista dell’Edipo – in aperta rivolta contro le narrazioni dei padri, delle madri e contro la sua stessa madrelingua (il romeno, abbandonato ben presto per un francese fantasmagorico, in continua ricombinazione) – è stato senz’altro Ghérasim Luca. Poeta dell’oltranza, Luca ha rifiutato ogni cittadinanza alla propria opera, preferendo annegarsi nella Senna anziché accettare una qualche subordinazione anagrafica, letteraria. I suoi “balbettamenti” – tanto cari a Deleuze – hanno infuso nuova potenza ai significanti e aperto inusitati territori al senso delle parole: «ne dominez pas vos passions rations vos / ne dominez pas vos ne vos ne do do /minez minez vos nations ni mais do / minez ne do ne mi pas pas vos rats / vos passionnantes rations de rats de pas». Il suo, resta un ironico, deliberato farfugliare, che cela un reale attacco sia alla poesia dopolavoristica, sia alle ipostasi burocratiche della cultura: ricerca di una prosodia singolare, attuale, ma, al tempo stesso, riconoscibile e antica come i movimenti tettonici della Terra; costruzione di un ritmo e di una molteplicità del senso che possano rivelarsi all’altezza del cuore feroce e bambino di ogni autentico agitatore poetico. Niente a che vedere, quindi, col nichilismo piccolo-borghese da bar Sport o coi giochini da impiegati zelanti della negazione culturale.

Ghérasim Luca in Passionnément

In Italia, fra il dilagare degli scribacchini egotici e la “baciperuginizzazione” della poesia, rimangono sempre più rari gli autori grondanti autenticità, come ad esempio il tenero e boccaccesco Victor Cavallo (al secolo Vittorio Vitolo, morto nel 2000), del quale occorrerà assolutamente salvare almeno il testo apparso nel giugno 1979 sul n. 1 di Guida Poetica Italiana e che si chiude così (con toni quasi artaudiani): «(…) lei apparirà. Bruciando i tampax dell’anima sanguinante. / apparirà con gli occhi verdi e ciglia nere e bocca rossa / anima luminosa come arcobaleno puro / radice che spiega con tutta la chiarezza perché questa merda è merda / e finirò di vivere la vita con la paura di vivere la vita».
Al giorno d’oggi, si tende a confondere la semplicità con l’infantilismo, lo zen con la stitichezza, la bellezza col decoro, e nessuno più è in grado di ridarci l’immediatezza e la gioia di un Rodari o, men che mai, l’apparato delicato e critico della sua Grammatica della fantasia.

Giornata di duro lavoro nell’uliveto, ormai finita. Soddisfatto, mi verso del vino bianco mentre imbrunisce e osservo compiaciuto un piccolo geco che passeggia lungo il soffitto della cucina. Fuochi sulla collina di fronte e un secondo bicchiere di vino tengono compagnia a una deliziosa falce di luna che occhieggia verso Sud-Ovest. Intanto mi ritrovo a pensare: la materia fa miracoli; non Dio, bensì la materia, soltanto la materia che si ricombina portandoci al cuore delle cose senza nome. E penso, anche, che vi sia una tenerezza in tutto questo, una tenerezza che scioglie la mia stanchezza ponendo ogni cosa sullo stesso piano del geco, dei fuochi, della falce di luna. Una tenerezza che non muore e che accoglie, ancora e sempre, la feroce poesia di tutte quelle pietre che si negano alla stoltezza di Sisifo. (Perché il miglior compagno della tenerezza è il rigore dei desideri che sa accogliere l’altro senza asservirlo, senza farsi ritornello della servitù.)

Laureana Cilento, 2019-2020


CARMINE MANGONE è agitatore poetico, traduttore e saggista. Ha scritto di erotismo e dell’oscillazione tra gli estremi per diverse riviste e antologie. È autore, tra gli altri, di Punk Anarchia Rumore (Crac Edizioni), L’insurrezione che è qui (Gwynplaine) e Se questo si chiama amore, io non mi chiamo in alcun modo (Ab imis). Redige «Il pesanervi» e cura per Neutopia «Per una storia del godimento», di cui presto uscirà la seconda puntata.

Collage di Jesse Draxler

S.ee | Umani sognano leoni elettrici?

  1. Per te scrivere è un bisogno, ma di cosa?

Scrivere è come un ritorno alla memoria, ai luoghi, alle persone, alle loro voci, ai loro volti, ai loro odori.
È anche un’osservazione costante delle cose, che richiede la mia presenza assoluta.
Ma scrivere è sempre scrivere nell’assenza e un venire dopo, quindi per necessità diventa anche un altrove al tempo stesso. 
Per me è un atto di spolpamento di vivisezione per guardare nuovamente nelle cose.
Quello che mi interessa è proprio l’apertura che ti da la scrittura in versi, l’aspetto anarcoide che mantiene rispetto alle altre scritture organizzate.
Perché allora il linguaggio può come risvegliarsi.
Poi per me inizia sempre, quando mi dedico a questo, l’eliminazione. Procedo per sottrazione, per trovare l’aderenza tra senso, immagine, suono, biografia.

Scrivere per me è un atto di spolpamento di vivisezione per guardare nuovamente nelle cose.

2. Gli argomenti dei quali preferisci scrivere?

Non credo che ci siano argomenti privilegiati nella scrittura.
La scrittura per me è materica, solida, si crea dal vissuto, è esperita.
Quindi di base credo di non aver mai maturato lo slancio immaginativo che hanno i narratori per esempio o i drammaturghi gli sceneggiatori, nell’inventare personaggi, storie, a partire da sé stessi o dagli altri o comunque non mi ci sono mai del tutto dedicata come autrice.
Per molto tempo, il mio binario poetico era la memoria, nella fissazione della sua perdita e della sua ricostruzione.
Ad oggi quello che mi preme di più è il racconto del corpo, della sua carnalità del suo legame con la parola, il suono e quindi l’indagine performativa su me stessa, sul linguaggio, sul donare oralmente il testo che diventa corpo con me. Ritrovare una carnalità della parola.

3. Cosa del tuo contesto ti influenza maggiormente quando scrivi?

Quello che entra direttamente nei miei testi sono le relazioni, la loro generazione o la loro degenerazione. Le relazioni con i luoghi le persone le loro voci i loro corpi.
Il contesto dove vivo è urbano e questo segna chiaramente i miei scenari che sono contaminati di luci artificiali, di colori artificiali, di odori ferrosi, di suoni concreti, di rumore.
La bellezza sta nell’evasione da tutto questo, plasmandolo in qualche modo. Cercare l’intimità. Credo che i miei testi lo siano molto. Ma dentro poi si insinua tutto, la mia condizione, la condizione delle persone che incontro, quindi emerge un’attenzione politica verso mondo, o sta emergendo in ciò che sto scrivendo oggi, in qualche modo critica.
Comunque ho bisogno di sentire, al di là dello scenario (che comunque mi aiuta se naturale, i boschi, l’acqua, la terra) al di là del luogo è proprio il movimento quello che mi serve. Ho un bisogno fisico di viaggiare di muovermi, anche a piedi. Il passo mi riannette ad un ritmo, una musicalità interna della lingua che diventa la mia lingua e nel tempo lo considero il mio training principale.

Quello che mi preme di più è il racconto del corpo, della sua carnalità del suo legame con la parola, il suono e quindi l’indagine performativa su me stessa, sul linguaggio, sul donare oralmente il testo che diventa corpo con me.

4. Quale cambiamento è stato più potente dal tuo punto di vista per la storia dell’arte poetica… di domani? (mezzi, tecniche, eventi)

Ciò che mi colpisce sempre della scrittura in versi è che conserva la sua antichità rituale nella restituzione orale, solo se questa è autentica, cioè svuotata del narcisismo del mettersi in scena come dei “personaggi”. Cioè io trovo che sia un controsenso il poeta che si crea un personaggio, se no a quel punto si parla di attori. Certo ci si può creare un’immagine, un’estetica comunicativa, ma questo è un punto che conserva ambiguità e secondo me potrebbe essere considerato più come un gioco. Il gioco permette di non prendersi troppo sul serio. Ma se si recita la parte del poeta di un qualche tipo, qualcosa stona, si perde l’empatia, cioè almeno io perdo l’empatia, perché la scrittura poetica contiene questo tacito patto con l’autore, cioè di avere il coraggio di mostrarsi per la persona che si è, per il mistero che si è. Secondo me, almeno per quello che più mi ha toccato artisticamente, più è profondamente personale un atto artistico, poetico, più è potente ed eversivo. Ma per esserlo credo bisogna ricercare e ricercare e divertirsi nel ricercare e liberarsi qualunque cosa voglia dire liberarsi.

Il mio nome progettuale S.ee, che non è altro che la vocale protratta della prima sillaba del mio nome, e mi permette di creare non un distacco, ma più un prolungamento della mia identità, da scrittrice a compositrice performer, quindi è un giocare con la mia immagine certo, ma è anche un definire il mio lavoro la mia ricerca artistica al di la della carta scritta.
La diffusione di pratiche performative in poesia è stata un po’ la diretta conseguenza dei tempi. In passato molti attori-attrici prestavano voce a testi di altri poeti, ora è lo scrittore che si vuole porre in luce. Questo ha creato molti fraintendimenti su quello che è il lavoro effettivo che comporta l’uso della voce. La scrittura è una cosa, l’oralità un’altra e richiede un training, una disponibilità, un’apertura vocale che non si improvvisa. Soprattutto se si costruisce una resa pubblica dei propri testi come performance e non come semplice reading.

In passato molti attori-attrici prestavano voce a testi di altri poeti, ora è lo scrittore che si vuole porre in luce. Questo ha creato molti fraintendimenti su quello che è il lavoro effettivo che comporta l’uso della voce.

Poi ci sono varie etichette che cercano di dividere i fenomeni scenici degli autori: slam (spesso confondibile con la stand-up), spoken word, poesia performativa, performance di poetry music (anche qui ci sono altri sottogeneri ancora) ecc… Ma questo non assimila niente né riduce niente. È forse un tentativo di dividere un macro-fenomeno, che vede al suo interno artisti che spesso in comune hanno molto poco, se non il fatto di essere autori dei loro testi e/o delle musiche e di proporne una resa orale.

5. L’arte serve… a chi?

Sul discorso sull’arte, è un discorso enorme. Credo che L’arte sia utile, credo che l’arte sia inutile.
Mi occupo di poesia, composizione, teatro di ricerca, quindi posso dire nel mio piccolo che certo è utile, necessaria per trovare espressione, per creare relazioni, per scavare ricercare, se no non la tenterei. Però è anche inutile materialmente, nel senso che l’arte in quanto tale non può essere confusa con l’intrattenimento o l’edulcorazione dei suoi contenuti per diffonderla meglio.
Se si pensa alla lingua della crudeltà artaudiana si può capire cosa intendo per non edulcorazione, o ai versi di Maria Marchesi, o di Patrizia Vicinelli.
L’arte non dovrebbe mai segnare confini, o essere segnata da confini, semmai il contrario, essere costantemente irrisolta.
L’arte, la poesia serve davvero a tutti se ci si predisponesse per farne parte con una certa criticità e anche un certo studio.
Però quello che si produce con l’arte è inutile, inconsumabile, per dirla con Pasolini, io produco una merce inconsumabile. Allora lui si chiede “come faccio a fare parte del sistema pur criticandolo? Si possono sfruttare le strutture capitalistiche che ci circondano”. Quindi per noi i social, l’immagine, il video, che permettono di esistere in termini di comunicazione artistica imposta come principale forma, a mio avviso vanno bene. Ma è sempre una forma, i contenuti sono altro e possono comunque essere più coraggiosi di molto di quello che gira online. Chiaramente in una società basata sulla comunicazione continua e sulla visibilità, soprattutto se produci arte e non puoi permetterti un ufficio stampa, la cura, la diffusione, la continuità della tua arte spetta solo a te.

Ascolta l’intervista


S.ee è il nome progettuale di SERENA DIBIASE, autrice di poesia nata a Bologna. Ha pubblicato Nelle vene, (Manni edizioni) e Amnesia dei vivi (Italic Pequod).  Performer e compositrice elettronica, i suoi studi teatrali e musicali si sono via via indirizzati verso un più specifico uso della parola e del corpo/voce. Ha collaborato a progetti di Armando Punzo, Andrea Adriatico, Stefano Masotti, Romeo Castellucci, Chiara Guidi, Silvia Gallerano, Motus, Francesca Ballico. Suoi testi compaiono in riviste, antologie e blog online, e sono tradotti in inglese, spagnolo e russo. Fa parte del collettivo di autori raccolti sulla piattaforma online NeutopiaRivista del Possibile. Partecipa a festival di poesia e nuova drammaturgia (RicercaBo, ParcoPoesia, Pordenonelegge, Biennale College Teatro, Langue Festival, PerAspera Drammaturgie Possibili, FLA festival, Here Torino). Nel 2018 arriva in finale al premio Alberto Dubito di poesia con musica, e viene selezionata dal concorso Bologna in Lettere 2019 per la sezione di poesia orale e performativa. Da questa ricerca testuale e sonora nasce il progetto S.ee, che indaga il linguaggio della poesia attraverso supporti più propriamente tecnici quali software e campionatori, per la costruzione concreta della drammaturgia sonora atta ad accompagnare la voce, che live diventa strumento d’interazione corale e al tempo stesso elemento anarcoide, disgregato, onomatopeico, puro respiro e battito. La sua ultima raccolta è La bambina lo sa (Edizioni La Gru), da cui è tratta La b, performance in fieri di vocals, parola e soundscape.

In copertina, ritratto dell’autrice

Quasi Noir a Tiburtina

I say that I’m not interested anymore
In feeling bad

(Any Other – Something)

ERA BRILLOSTO, E I TOSPI AGÍLUTI FACEAN GIRELLI NELLA CIVA; TUTTI I PAPRUSSI ERANO MÈLACRI, ED IL TRUGÓN STRINIVA, come al solito.
Carmelo mi ha invitato a bere una birra che c’erano anche Angelo e Giorgio, che non ci si vede mai in questa vita qui che ti costringe a correre in giro da un punto a un altro della città in quaranta minuti, che io ci metto quaranta minuti almeno a decidere se devo andare da una parte, così prendo la metro e poi se decido scendo, se no no; così è più semplice, dico io. Angelo dice: – No, ma che stai a dì.
Allora siamo lì alla birreria che beviamo birre. Una, due, tre, forse un’altra poi però basta, e io ho in mente che è un po’ che voglio scrivere un noir. Ma un noir italiano e Angelo mi dice: – Ma sei matto! L’Italia mica è l’America, ’ste cose le puoi fa’ solo se stai a Miami e ti chiami Willeford.
“Chi cazzo è Willeford poi…?!” Ho detto no, poi ho bevuto un sorso di birra.
Si può fare anche qui un noir. Non esce all’americana, esce all’italiana, lo fai alla Tiburtina, esce bene.

Si può fare anche qui un noir. Non esce all’americana, esce all’italiana, lo fai alla Tiburtina, esce bene.

Fidati. La Tiburtina è un’ottima ambientazione per un noir, dico.
Carmelo annuisce e fa: – Ci sta tutto: i capannoni abbandonati, il fiume, la stazione, il traffico, il caos, le case a casermoni. Tutto.
Giorgio racconta: – Ho visto pure un inseguimento un po’ di tempo fa… la polizia sparava pure.
Si può fare… la location c’è. Gli ambienti pure. Basta che imposti questo personaggio che deve essere un mezzo avanzo di galera.
– Ci sta pure Rebibbia! – rilancia Carmelo.
– E vedi allora che si può fare – mi faccio coraggio. Comincio.
Che io infatti avevo pensato alla storia di questo tipo che in galera non c’era stato, ma aveva fatto degli impicci strani; storie co’ i pezzi di ricambio delle macchine e a un certo punto un amico suo era finito al gabbio, ma non aveva fatto il suo nome e allora Flavio, così si chiama, Flavio – che fa un sacco Tiburtina un nome come Flavio – s’era calmato, altrimenti erano cazzi che ci finiva davvero al fresco e tanti saluti. Però, in qualche modo, il pane te lo devi guadagnare e così era andato a bottega da un barbiere che sta in una di quelle vie laterali della Tiburtina; uno di quei barbieri vecchio stampo che ti fanno la barba per pochi spicci, mica come quelli di adesso che costano un botto e devi prendere pure l’appuntamento, altrimenti niente.
– Come quello di Portonaccio ’ndò vado io – fa Angelo, che adesso mi ascolta.
Però ’sto barbiere, poi, si scopre che non era un barbiere vero.
Proprio per niente.
Faceva il barbiere da quando era un pischello, però s’era rotto il cazzo di lavorare tutto il giorno tutti i giorni per due spicci ed era andato una sera dagli zingari. Cioè lui, il barbiere che si chiama, mettiamo, Mario, era andato dagli zingari per vedere lo Zingaro che era uno di Tagliacozzo che, in realtà, zingaro non era, ma viveva con gli zingari perché gli piaceva un sacco la vita che facevano, ma in realtà – dicevamo – era di Tagliacozzo e si chiamava Macisto.
– Ma che cazzo di nome è Macisto?! – fa Carmelo.
– Si chiamava Macisto perché quando era incinta sua madre guardava tutti quei film di Maciste. – rispondo – Solo che quando il padre era andato a registrarlo col nome di Maciste, non si sa perché era uscito scritto sbagliato: Macisto. E tanto era rimasto.
Ma a Macisto il suo nome piaceva. Era un nome da duro, uno di quei nomi che se solo si accorge che sorridi o stai ridendo ti fa saltare gli incisivi con un gancio. Macisto. E quindi rimani serio, non si scherza.
E a vivere lì a Tiburtina, Macisto si era ingegnato col traffico della droga. La bamba la portavano i corrieri dal Centro e dal Sud America. Arrivavano a Tiburtina col treno per Orte che già si tenevano la pancia e Macisto li prelevava e li portava in un appartamento che aveva alla Città del sole, in via Arduino. Ci portava le puttane e i corrieri in quell’appartamento al terzo piano, panorama stazione Tiburtina, Banca Intesa, i due edifici fusi in uno scontro statico che rifletteva il sole verso il tramonto, accecando quelli che in automobile ritornavano a casa dalla Tiburtina Antica.
Questi corrieri gli portavano la bamba dentro contraccettivi in lattice che ingoiavano per passare i controlli all’aeroporto.

Angelo mi guarda un attimo accigliato: – Ma così è di una banalità sconcertante… sa tutto di già visto e sentito!
Vabbè è vero, in linea di massima sì, ma cazzo, seguitemi. Questo Mario va da Macisto e si mette d’accordo per ritirare una grossa partita di droga all’interno di un grosso corriere, più di 370 chilogrammi di peso, che deve arrivare a Fiumicino aeroporto per questo venerdì. E Mario che sì, vuole svoltare, ma in fondo è vigliacco, manda Flavio che invece la cosa gli intriga parecchio perché in fondo in fondo è – come tutti gli eroi dei noir – un bastardo pieno e fatto con la bastardaggine che gli scorre nelle vene bastarde di gran bastardo cresciuto per la strada. Quindi, Flavio prende la sua auto, una Peugeot Talbot bianco sporco dell’84 col finestrino del passeggero bloccato, per prelevare il corriere internazionale.
E qui viene il bello.
Il corriere, questo corriere di trecentosettantachilogrammi, è un portoricano di nome Enriquez che è venuto in Italia con questo viaggio della speranza da corriere della droga per potersi pagare l’operazione.

Il corriere è un portoricano di nome Enriquez che è venuto in Italia con questo viaggio della speranza da corriere della droga per potersi pagare l’operazione.

– Che operazione? – fa Carmelo.
– Sarà tipo quella del dottor Nowzaradan[1] pe’ dimagrì, il bypass gastrico, come si chiama… – fa Giorgio.
– Ennò! – faccio io, altrimenti è troppo facile.
Qui adesso, tocca inserire un colpo di scena, ma prima deve salire la tensione. Nei racconti noir a questo punto il personaggio anziano deve raccontare qualcosa al più giovane; quindi Mario, davanti al suo negozio di barbiere, recita a Flavio un haiku:

Antico stagno!
La rana vi si tuffa
suono dell’acqua. [2]

Ora, un haiku sono diciassette sillabe – si dice more – suddivise in tre strofe: 5-7-5, ma detto così non vale. Questo haiku, poi, è molto famoso, l’ha scritto uno durante il periodo Edo, un tale Bashō che è molto famoso pure lui.
Mario è un appassionato di poesia giapponese, è pure abbonato a una rivista…L’ombra delle parolequalcosa. Mostra a Flavio un articolo di sei pagine su ’sto cazzo di haiku: – Capite! Sei pagine piene, due fotografie di piante al massimo, per spiegare una roba di diciassette sillabe – dico.
E l’articolo spiega la poesia proprio per bene, il suo significato universale, il fatto che la rana non è proprio una rana, lo stagno non è proprio uno stagno e il tempo, il tempo perché in un haiku l’ultima strofa è una coordinata temporale, il tempo è solo un’eco.
– Quindi la poesia parla a ciascuno di noi – dice Mario riferendosi all’articolo – sul fatto che uno deve trovare il suo posto nel mondo.
Ecco! Sta proprio qui il punto di svolta, Enriquez, il corriere, viene in Italia, rischiando la vita per trovare il suo posto nel mondo.
Come la rana.
Come tutti.

L’operazione che deve affrontare, per la quale occorrono tutti questi soldi è quella di cambio sesso, perché Enriquez si sente una donna, una donna imprigionata nel corpo di un uomo di 370 chilogrammi. E allora ha accettato questo rischiosissimo viaggio da corriere, ha ingurgitato 40 chili di bamba conservata in contraccettivi in lattice e con il carico in pancia, occupando due posti del volo di linea Air France diretto da Medellin Jose Marie Cordova (MDE) a Roma Fiumicino (FCO), 14 ore e 25 minuti, solo una breve sosta a Bogotà senza scendere dall’aeroplano.
14 ore e 25 minuti stretto in due posti di un volo di linea in classe economica.
Enriquez scende dall’aereo che si sente morire.
Già durante il volo la sua pancia, già enorme, era gonfia e dura e ogni tanto sentiva dei rumori terribili e inquietanti provenire dal fondo dello stomaco.
“Per mangiare le ‘capsule’ occorre mischiarle con le banane schiacciate” gli aveva detto un suo amico. Ma Enriquez pensa che ha fatto proprio una cazzata. Con la bamba, con le banane, con tutta la sua vita.
Con tutta la sua vita.

Intanto che Flavio sta ancora cercando parcheggio, Enriquez si fionda nel bagno della zona ritiro bagagli, dove c’è il calcio balilla e dove dei ragazzi stanno giocando, appunto, al biliardino per ingannare l’attesa. Si fermano quando vedono una specie armadio in corsa, vestito con una tuta acetata dell’Atlético Nacional, che entra nelle porte del bagno.
Enriquez morirà lì, incastrato in uno dei piccoli bagni, la tazza che straborda di feci e “capsule”. Una capsula gli si è aperta nello stomaco provocandogli un collasso cardiaco, un’overdose, direbbe qualcuno con conoscenze mediche.
Flavio, giunto al luogo dell’incontro, non trova nessuno e, nel frattempo, l’aeroporto è nel caos. I ragazzi al biliardino, che avevano riso ascoltando il rumore terribile, come di scolo, proveniente dai bagni, a un certo punto, attirati dal silenzio improvviso e dalla chiamata di uno di loro che era andato a pisciare, entrano e scoprono il cadavere.
Cominciano ad arrivare auto della polizia ovunque. Flavio è terrorizzato, fugge, alla guida della sua Talbot.
Flavio e Mario dovranno spiegare allo Zingaro, a Macisto, che non è colpa loro, che è successo un casino. Macisto li ascolta, pare calmo. In realtà ha pure capito che loro non c’entrano proprio un cazzo con questa storia, ma ha bisogno di sfogarsi, di far uscire tutta questa rabbia che gli è montata dentro.
Gli sgherri dello Zingaro prendono Flavio e Mario e li immergono nella colata di cemento delle fondamenta della spiaggia libera vicino al ponte Marconi, Tiberis, mi pare che si chiami.
Un attimo prima di finire completamente immersi, vediamo Flavio che piange e Mario che gli fa: – Vedi, ecco il significato dell’haiku, trovare il proprio posto nel mondo. Tuffarsi nel lago, che poi è il mondo, il rumore dell’acqua che fa splash, l’eco dell’acqua come una coordinata temporale.

Vedi, ecco il significato dell’haiku, trovare il proprio posto nel mondo. Tuffarsi nel lago, che poi è il mondo, il rumore dell’acqua che fa splash.

– Mavvaffanculo va’! – gli risponde Flavio. E sono le ultime sue parole, poi i due affondano completamente.
Dissolvenza in nero.
– Non lo so – dice Angelo – Non ci ho capito niente.
– Sicuro hai dimenticato qualcosa – fa Giorgio.
Gli chiedo che cosa, ma si è fatto tardi.
Usciamo dalla birreria, ERA BRILLOSTO, E I TOSPI AGÍLUTI FACEAN GIRELLI NELLA CIVA; TUTTI I PAPRUSSI ERANO MÈLACRI, ED IL TRUGÓN STRINIVA[3], come al solito.


[1] Il Dottor Nowzaradan è il medico chirurgo protagonista del reality Vite al limite. La sua clinica è situata al 4009 di Bellaire Boulevard a Houston, Texas; mentre gli interventi chirurgici sono eseguiti presso il St. Joseph Medical Center di Houston.

[2] Questa traduzione è di Fosco Maraini. Il componimento poetico in lingua originale è:

Furuike ya
kawazu tobikomu
mizu no oto

In questo componimento Matsuo Bashō descriveva il balzo d’una rana dentro uno stagno. Matsuo Bashō (1644-1694) è stato un poeta giapponese del periodo Edo. Nome originale Matsuo Munefusa, è uno dei massimi maestri giapponesi della poesia haiku. Probabilmente questo è il suo più celebre componimento.

[3] L’autore si sente in dovere di ringraziare Masolino D’Amico per la traduzione dei primi versi di Jabberwocky, tratto da Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll (Orecchio Acerbo Editore, 2012). I versi sono le parole in maiuscolo nel testo, riscritte dall’autore con alcune variazioni rispetto all’originale.

Fotografia di Kyle Thompson