
«Un tacito accordo di non legame» ci lega ai versi di Chiara De Cillis, classe ’95, poeta e compositrice di canti muti, anascritture, collage brillanti che proprio su Neutopia hanno trovato spazio per respirare e trovare una direzione nel marasma di internet. La sua prima raccolta di poesie, Cane Magro, trova ora realtà tangibile per i tipi di Italic Pequod prendendo spunto dal blog omonimo. Essa contiene la produzione meno sperimentale dell’autrice di Ostuni naturalizzata torinese, ma comunque emozionante e densa di significati. La potremmo definire una «raccolta adolescente», laddove l’adolescenza è rappresentata dall’urgenza, dalla fame, dalla mancanza di un posto nel mondo e da un vuoto da dover riempire. In apertura della silloge, troviamo una citazione – più tematica che stilistica – da Il flauto di vertebre di Vladimir Majakovskij, a voler sottolineare l’origine corporale, prettamente fisica, delle poesie. Quaranta piccole liriche che hanno nel sesso (più che nell’amore, eufemismo spesso abusato a causa di un cattolicesimo stantio) e nell’ambivalenza del piacere il proprio filo di Arianna.
Secondo la stessa De Cillis, la cui poetica si avvicina molto, in questo senso, a quella di Sandro Penna: «Io mi sento un cane magro, quando scrivo. Come quei cani che girano nei paesi di mare in inverno e incontrano un passante per strada e lo sbranano: scrivere è voler sbranare, saziare la fame». Il parallelismo con Penna qui risulta ancora più evidente se pensiamo alla natura figurativa ed emotiva dei suoi versi.
In una poesia come «[…] tu fa’ che questo mio amore/sia il caldo che asciuga/ le guance dal sale, / – il sale alla lingua dei baci / incapaci a parlare a parole – […] » (poesia n. 9, p. 19), ci rendiamo conto perfettamente come il mare o, in questo caso, l’Oceano, possa essere il ponte ideale fra un tormento interiore e uno scabro paesaggio umano, costellato da desideri e da sentimenti a volte inappagati e, proprio per questo, ancora più forti e bisognosi di cure. Il «marinaio senza approdo» cui si fa riferimento nel passo « […] Per me di fatto non esiste faro / e sempre vago alla ricerca dell’incanto, / semmai qualcuno riuscirà a salvarmi /sarà di certo tra le onde alte […]» (poesia n. 13, p. 23) è chiaramente l’io poetico giovane, che chiede d’esser salvato ma non ha bisogno di porti sicuri, e che al contrario può vivere soltanto nella tempesta, nel tumulto, nella burrasca: «dimenticati i prati in fiore», quello che rimane è un inno al perdersi; come quando Thomas Stearns Eliot cantava della sua Terra desolata, e, parlando di Fleba il Fenicio, raccontava di come egli avesse dimenticato «il grido dei gabbiani, e il flutto profondo del mare, e il guadagno e la perdita» (T. S. Eliot, The Waste Land, Einaudi, 2013, p. 41).
L’ossessione scaturita dal desiderio torna poi compulsivamente, abbandonate le dimore domestiche e i focolai di provincia, in versi che ricordano molto da vicino le liriche di Amelia Rosselli in Serie ospedaliera: «Mille quei boschi/ in cui rendemmo/ grazie a Dioniso. Molti di più / gli amplessi/ in cui io resi/ onore a te» (C. De Cillis, Cane Magro, poesia n. 16, p. 27).
Quando l’identità queer è già più consapevole, non si teme invece di affermare la predilezione per il femminile in una molteplicità di forme e di volti: «Amo le donne: / le ammiro: / nello specchio vastissimo/ delle possibili me […]» (poesia n. 12, p. 22).
È nella seconda metà della raccolta che troviamo infine la qualità più epica (una su tutti, la bella Antigone) e autenticamente libertaria dei componimenti della De Cillis, penna anarchica e speranza per la poesia contemporanea, il cui poetare oggi più che mai si ricongiunge alla sua etimologia artigianale, laddove il «fare», «poiein», sfoggia l’interpunto e l’enjembement, avvicinandola al modus operandi del Sanguineti di Novissimum Testamentum: «Tra questi pascoli urbani/ di troppo umana allegrezza/ io tram senza filo deraglio /alla ricerca costante, perenne/ di un capolinea che sia quello:/ che mi accolga come una cosa/ che ha compiuto il suo senso» (poesia n. 37, p. 49).
Ed è così che Torino e l’elettricità entrano di prepotenza a far parte del tempio profanato, straziando la nostalgia oscurantista dei paesaggi naturali, delle strade di campagna, della polvere, dei furbi riferimenti montaliani e pessoani per lasciare posto all’essenziale. Saffo morì sull’isola di Leucade e dalle spiagge di un’altra isola, stavolta quella di Nasso, una Saffo moderna si auto-condanna al silenzio, domandandosi cosa resterà del proprio dire una volta che non ci sarà più: una serie di «lettere senza risposta» e «destinatari ammutoliti» (Epitaffio, p. 53), in un finto-amore che non vuole più essere chiamato tale ed ha nel rimbombo della ribellione il suo attracco più sicuro per non perdersi nel vento.
Chiara De Cillis, Cane Magro, pp. 53, Italic Pequod, Brossura
Prefazione di Francesca Puopolo, Copertina di Elisa Camurati