Gli occhi verdi di Gena fissano lo schienale della poltroncina davanti a lei. Sono acquosi, vivi, dilatati. Sta ancora digerendo di essere atterrata sana e salva. Pensa che ce l’hanno fatta, ma qualcosa continua a turbarla. Le fa male lo stomaco. Sono ore che le fa male. Con la coda dell’occhio percepisce che Mauri la sta filmando con il cellulare. Da quando l’ha comprato, sembra non essere capace di fare altro. Dalla parte opposta, percepisce le persone alzarsi, prendere le loro cose, appiccicarsi l’una all’altra per uscire il prima possibile dall’aereo. Lei, invece, non ha fretta. Sta in un luogo sicuro – così percepisce il ventre metallico dell’aereo adesso che sono atterrati. Nello schermino del cellulare di Mauri, Gena, appare ancora più piccola, smarrita nei suoi ventinove anni, con i capelli pettinati all’indietro col gel; indossa il suo unico vestito elegante, largo, a maniche lunghe. Mauri rimette in tasca il cellulare, si sistema in testa il cappello estivo imitazione di uno Stetson, si infila la giacca e spinge Gena per uscire:
– Forza, che siamo rimasti gli ultimi.
Lei, invece, non ha fretta. Sta in un luogo sicuro – così percepisce il ventre metallico dell’aereo adesso che sono atterrati.
Gena si alza, prendono i bagagli a mano ed escono dall’aereo. Mauri sorride, le appoggia il cazzo contro il culo, le aggiusta i capelli sulla nuca.
– Dopo l’albergo, ti porterò al mare. Ci faremo un bel bagno, fino a diventare vizzi. Voglio bere, gozzovigliare, e fare di nuovo il bagno.
– Sì, ce la spasseremo.
La voce di Gena esce meccanica, mentre cammina saluta le hostess con un cenno della testa. Le fanno tenerezza nelle loro uniformi blu e gialle. In un certo senso, Gena le invidia perché loro volano ogni giorno. Anche se non sempre scendono dall’aereo.
Gena scende le scalette, l’aria fresca del mattino le sbatte in faccia e la distrae dai suoi pensieri. La distrae da quello che tiene dentro. Cammina per la pista diretta verso l’entrata dell’aeroporto. Mauri, accanto a lei, intuisce il nervosismo di Gena, diventa serio, si guarda attorno con sguardo aggressivo. Entrambi camminano a passi lenti, senza fretta. Gli altri passeggeri sono già entrati.
Gena e Mauri camminano verso il nastro su cui scorrono i primi bagagli. Mauri abbraccia Gena, le dà un bacio vicino all’orecchio. Mauri sorride, le dice:
– Sai una cosa? Ho una gran voglia di cacare.
Anche Gena, per un attimo, ride, poi torna seria. Guardano i bagagli circolare sul nastro. Mauri si avvicina a prendere i loro. Gena guarda Mauri, com’è vestito elegante, come sprigiona sicurezza.
Mauri si volta: – Andiamo.
Si dirigono verso la dogana. Quando la porta si apre, appare una guardia di finanza con cane antidroga. Gena si blocca all’istante. Anche la sicurezza di Mauri, per un attimo vacilla.
– Non mi sento bene, devo andare al bagno.
– Ma…
– Forse sono le mestruazioni, dammi un attimo.
Gena cambia direzione in fretta, Mauri la segue, la sua voce è un sibilo:
– Cammina più lenta, cazzo.
Gena rallenta il passo, arrivano nella zona dei bagni. Mauri la spinge dentro il bagno degli invalidi. Gena poggia entrambe le mani al lavandino, riprende fiato. Mauri si avvicina, appare nello specchio accanto a lei.
– Non c’è bisogno di fare la scema, i cani non le fiutano in corpo alla gente.
Gena sa che non è mai piaciuta ai cani.
– Andrà tutto bene, Gena. Se il cane si avvicina, basta che gli dici che hai una femmina in calore in casa, ci cascheranno. Cazzo, siamo insospettabili.
Mauri si indica i vestiti.
– Non siamo mai stati così insospettabili! Guardati allo specchio: sembri uscita da un talk show!
Gena si guarda, ma non ci crede.
– Se non ci sente il cane, ci sentiranno i poliziotti, lo sentono sempre quando uno è nervoso.
Mauri si toglie la giacca e la scaraventa sul pavimento, si toglie il cappello. Adesso non è più il ragazzo elegante: è un ragazzo tatuato in canottiera, con il puzzo di periferia attaccato addosso, che afferra Gena per le guance e gliele stringe forte.
Con la rabbia che gli mozza la voce, le dice:
– Bella, che cazzo hai intenzione di fare?
Gena non dice niente. Mauri continua:
– Questa cosa che c’abbiamo dentro, questa cosa qui, è il nostro grande sogno. E dobbiamo portarlo a termine.
Gena scuote la testa, fa per liberarsi.
– No, dobbiamo buttarla nel cesso, prima che s’insospettiscano e…
Mauri, adesso, non è più il ragazzo elegante: è un ragazzo tatuato in canottiera, con il puzzo di periferia attaccato addosso, che afferra Gena per le guance e gliele stringe forte.
Mauri le tira uno schiaffo fortissimo. Gena resta a bocca aperta, la guancia rossa. Mauri gliene tira un altro, ma Gena è veloce a parare il colpo. Sa come vanno le cose e tiene le mani sopra le guance. Un altro schiaffo di Mauri cozza contro le nocche, gli occhi chiusi di Gena. Mauri adesso fa paura. Si ferma. Pensa alla macchina scassata che hanno dovuto vendere, ai soldi che ha rubato al padre, ai cinque pompini che ha fatto fare a Gena.
– E va bene. Se rovini te, non ti farò rovinare me. Se vuoi cacare i nostri soldi, mettiti e caca.
Gena, docile quanto scossa, prende la borsa, rovista dentro fino a trovare le supposte di glicerina. Mauri si volta dall’altra parte, a Gena cadono di mano.
– Spogliati o farai un casino.
Gena si toglie il vestito, rimane in top e mutande. Anche lei è tatuata, anche lei non sembra più la ragazza insospettabile scesa dall’aereo. Puzzano di ansia, di voglia di sparire il prima possibile. In piedi, Gena si abbassa le mutande, prova a infilarsi una supposta, ma con il caldo, le dita sudate, le scivola di mano. Mauri si volta, afferra Gena con violenza. Raccoglie la supposta da terra e gliela ficca dentro.
– Stringi questo cazzo di culo, forza.
Gena stringe gli occhi, le viene da piangere ma ricaccia dentro le lacrime. Mauri la fissa pieno di rabbia, mentre si rimette seduta sul cesso. Mauri aspetta, la umilia con lo sguardo. Bussano al bagno. Le fa segno di stare zitta. Gena è in ansia, fissa la porta. Bussano di nuovo.
Mauri urla: – Occupato!
I passi si allontanano. Mauri torna a guardarla, schifato. Come spinge, come diventa rossa per spingere più forte, come scoreggia facendo solo rumore invece di espellere quello che ha dentro.
Le capsule di droga galleggiano nel cesso. Il loro grande merdoso sogno. Nessuno le aveva mai detto che i sogni avrebbero avuto l’odore della merda. Gena si sta lavando il culo nel lavandino, guarda Mauri ficcarci le mani dentro e tirarle fuori, lavarle. Sono trenta capsule marroni di merda. Mauri è freddo, le lava facendole tornare bianche come la cocaina che contengono.
Gena apre bocca.
– E ora che farai?
Mauri apre una delle capsule, spande la coca sul lavandino, si prepara le strisce, arrotola la banconota. Tira su due strisce a fila. Guarda Gena, freddo, le dice:
– Levati dal cazzo.
Gena lo guarda, nello sguardo la tristezza del cane abbandonato.
– Non puoi metterti anche le mie dentro, lo sai.
– Ti ho detto di levarti dal cazzo. Non posso pensare con te che stai lì a guardarmi come una scema.
Gena esce del bagno, distrutta:
– Fa’ come ti pare, ti aspetto fuori.
Nella zona ritiro bagagli, Gena cammina a testa bassa, attraversa la sala, arriva alla dogana. Non c’è più il cane, né la guardia di finanza. Vorrebbe tornare dentro, rimangiarsele tutte e trenta assieme all’uva e allo yogurt, massaggiarsi il ventre e la gola per farle passare e assestare meglio dentro di sé. Lo avevano preso come un gioco, ieri in albergo, un gioco che brucia e fa male, dopo ogni passaggio di capsula. Un gioco che sarebbe stato letale se una delle capsule fosse esplosa nello stomaco. “Ma chi non rischia non ottiene niente”, dice sempre Mauri. Gena ripensa a lui, alla sua furia di prima, quando l’ha picchiata. Gena si sente come un succo gastrico adesso, pronta a corrodere le pareti dello stomaco senza cibo da aggredire. Passa la dogana, zona degli arrivi. Gena non guarda niente. Attaccato a lei, il senso di colpa per aver buttato via il sogno a un passo dal suo concretarsi. Il puzzo della sconfitta. Gena guarda i cartelli, cerca l’uscita, non vuole stare là. Non vuole stare da nessun’altra parte adesso, non si sente neanche parte di questo mondo. Si sente persa. E senza Mauri. Ogni volto che vede, è un volto inutile.
Gena non guarda niente. Attaccato a lei, il senso di colpa per aver buttato via il sogno a un passo dal suo concretarsi. Il puzzo della sconfitta.
Gena riesce a uscire dall’aeroporto. La luce del sole è calda, il tramonto si avvicina. Si mette seduta là fuori ad aspettare Mauri. Non è cattivo, dice a se stessa: è la vita che l’ha reso così, come lo hanno trattato. Gena tiene la testa appoggiata sulle braccia incrociate sopra le ginocchia, lo sguardo basso. Lei è l’unica che gli vuole bene. Poi, dopo un attimo, pensa che Mauri ha questa vita proprio perché è questa persona di merda. Prova a scacciare subito via il pensiero, ma le resta attaccato. Come qualcosa di vischioso. Fino a quando Mauri esce dall’aeroporto. Di nuovo sicuro di sé, non la considera. Gena fa per seguirlo. Lui non l’aspetta, non si ferma, non la guarda. Mauri cammina come se lei non esistesse. Fino a quando Gena si ferma di nuovo. E lui continua a camminare, via da lei. Gena non capisce. Si ferma, davanti al sole che tramonta, e resta da sola. Gena pensa che questo è il sapore della rottura.
Trenta capsule, questo valeva.