«Ma adesso mi ascolti!»: si apre così, in un impeto di petrarchesca memoria, l’esordio di Julian Zhara, classe 1986, poeta e performer veneziano originario di Durazzo. Come per il Canzoniere, la raccolta, uscita per la collana Lyra Giovani a cura di Franco Buffoni, affronta la difficile dicotomia del verso nato per la voce alla prova della pagina scritta e lo fa prediligendo uno stile lirico, mettendo in campo il genere della poesia lirica per antonomasia: l’amore impossibile.
Vera deve morire, che trae il titolo da uno dei Racconti crudeli di Villiers de L’Isle-Adam, narra in ventotto componimenti la fine di una relazione, l’impossibilità di riconciliarsi, nello strappo cinematografico tra due corpi e tra due lingue – l’italiano e l’albanese, che ricorre Nella lingua dei tuoi antenati – nell’antica battaglia tra Amore e Morte.
Zhara supera la sua «fobia dell’endecasillabo», che non si presta, per ammissione dello stesso autore, alla sua lingua madre, puntando sulla frizione tra le sue origini e sull’enjambement. L’effetto che ne deriva, a volte straniante, è efficace per riassumere il percorso del poeta il quale, seppur cresciuto in contesti orali e performativi, dimostra di saper reggere il confronto con la tradizione citando Pascoli e Pavese.
Nel testo già citato, uno dei più riusciti di tutta la raccolta, Zhara ricorda, come insegna Luciano Cecchinell, che nei campi la parola «amore» è letteraria, non esiste, poiché «in mezzo ai campi si fa altro, in amore/ è la patata che si squaglia, un raccolto/ impazzito, è in amore un uomo che sbanda,/ il bestiame che non obbedisce» (p. 16, vv. 1-6).
Laddove la conquista del verso lungo e dell’ottonario fanno la loro comparsa (come nei versi sperimentali di Probation), Zhara poi torna subito prudentemente a riprendere il verso di Gatto e Magrelli. Pur essendo conoscitore dei novissimi, preferisce la strada tracciata dai De Angelis e proprio quando il verso racconta di cose terrene, là è maggiore la trascendenza che però non mira all’universale («Forse la colpa è del tempo, forse siamo solo stanchi/ la guerra più difficile conclude senza far morti;/ continuo disperato ad aggrapparmi ai tuoi fianchi») e ciò che si evince è una rassegnazione alla monotonia della vita («non si ammette il tappeto, la resa/ come conseguenza, e feriti si procede, a morte/ feriti, fino a finire spossati, distanti»).
Frutto del suo studio mediale sulla voce, chiude il libro Bretella rossa, sorta di poesia-manifesto dove dà il meglio di sé: «ha rovinato più la biografia dei grandi la scrittura dei minori/ di quanto la scrittura, la biografia dei grandi autori» (p. 44, vv. 53-54). Per una volta d’accordo, concludiamo coi versi del Petrarca: «Ma ben veggio or sì come al popol tutto/ favola fui gran tempo, onde sovente/ di me medesmo meco mi vergogno;/ e del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,/ e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente/ che quanto piace al mondo è breve sogno».
