Sono gli ultimi giorni dell’avanguardia.
La sua morte è imminente, ne parlano tutti – giornali, radio, siti internet, e naturalmente la televisione. Gli opinionisti bofonchiano allibiti nei salotti, asciugandosi le fronti, mentre conduttori mefistofelici moderano i dibattiti. Tutti corrono ai ripari, si riciclano, ritrattano le loro idee. Incravattati intellettuali abiurano sommessamente, sillogizzano nei microfoni, alzano i sopraccigli: l’avanguardia ha fallito – ammettono – e non poteva andare altrimenti. È stata una bella avventura, ma ora è finita, e dobbiamo ricomporci. È stato un bel sogno, ma ora dobbiamo svegliarci.
Nelle case palpitano televisori a tubo catodico. Vedo scorci di periferia immersi nella sera, fughe di lampioni sfocati, signori dall’aria compìta che portano fuori il cane. So – ed è una specie di consapevolezza ovvia – che il World Trade Center non è mai stato ricostruito, che le rovine dell’attentato campeggiano ancora a Manhattan, e in qualche modo assomigliano all’abbazia di San Galgano, solo ipermoderna: sono diventate l’importantissima sede di una religione della finanza – un dio Dollaro, che persino la Santa Sede ha dovuto riconoscere, convocando appositamente il Concilio Vaticano III. Il nostro presidente del consiglio è indagato per associazione a delinquere, il cambiamento climatico è una priorità costante – ignorata dai potenti – e il mondo globalizzato si sta frammentando in blocchi, ma in modo quasi indolore, dolce, e nessuno se ne accorge.
Tutto questo mi viene confermato dalla televisione, che guardo tantissimo, ora che è in corso la morte dell’avanguardia, e la cosa mi tocca da vicino. Ma, tralasciando il mio interesse, è l’opinione pubblica nel suo insieme ad essere scioccata: niente sarà più come prima, non solo nel mondo culturale, ma anche nelle istituzioni, e nella condotta generale delle masse. Vedo croniste con pettinature anni Ottanta che parlano nel microfono, cercando di vincere un vento aspro, mentre sullo sfondo palpita il traffico di un est Europa grigio, percorso da vecchie Trabant, e sento frasi concitate riguardo a “ultime riunioni”, “scioglimento dei comitati”, tutte faccende che probabilmente avvengono in un palazzo signorile, pietroburghese, dalle cui finestre illuminate si intravedono ombre di persone, e che la cronista ogni tanto invita a zoomare, mentre tiene tutti noi col fiato sospeso riguardo agli sviluppi. A quanto pare, anche i mercati finanziari risentiranno di questa morte dell’avanguardia, e infatti, ogni tanto, appaiono economisti compassati, vestiti in doppio petto, impegnati a commentare grafici. Comunque, questa svolta secolare la stiamo toccando tutti con mano. Le defezioni, nei vari movimenti artistici, sono continue e implacabili. I collettivi abbandonano gli stanzoni occupati illegalmente, senza nemmeno resistere troppo alla polizia. Su tutti gli spazi culturali si spande una patina privatizzante, le facoltà installano tornelli per limitare gli accessi, le portinerie montano nuovissimi vetri antiproiettile. I laboratori creativi, ricavati dai capannoni dismessi, si fanno vuoti e stillanti: era qui che artisti e scrittori si ritrovavano per ciclostilare, impaginare, discutere.
I cosiddetti “piani di recupero” prevedono di trasformarli in discoteche, o in coworking space dal tocco postindustriale, dove studenti di moda e design potranno ubriacarsi con angelico garbo. Tutto, insomma, è sul punto di essere stravolto, e l’atmosfera assomiglia a quella che precede una dichiarazione di guerra, o il crollo di un governo.
C’è soltanto un uomo che non ha alcuna intenzione di cambiare rotta, e quello sono io.
Sono rimasto solo, in un gigantesco appartamento in stile liberty, pieno di cianfrusaglie d’inizio Novecento, e passo tutto il mio tempo seduto al tavolo, rompendomi la testa sul romanzo che voglio, che devo scrivere. Il tavolo è grande, forse troppo, e a volte mi sembra una specie di seggiolone per neonati. La tovaglia cerata è a fantasie floreali gialle e celesti. Questa casa è piena di tracce dell’avanguardia. In effetti, fino a poco tempo fa, vivevo insieme ad altre persone, uomini e donne che hanno dato vita a un movimento artistico. L’appartamento lo abbiamo scelto proprio per la sua grandezza, ma lo spazio bastava appena per farci lavorare tutti. Adesso risulta incredibilmente – e insopportabilmente, melanconicamente, angosciantemente – vuoto. Io sono stato incaricato di scrivere il romanzo “assoluto”, qualunque cosa significasse tale espressione. Nelle parole del collettivo, doveva trattarsi di ciò che i critici vagheggiano come il Grande Romanzo Italiano – un’epica, credo, che tenesse insieme il sentire di un popolo, che affrontasse a testa bassa la Storia, senza tirarsi indietro, nemmeno davanti alle sfide più estreme.
Sono stato scelto per la mia capacità di osservazione, e perché ho un carattere paziente e disciplinato. Mi hanno valutato un’ottima risorsa per il movimento, e a deciderlo è stata una donna dall’aspetto vagamente cyberpunk. Non che fossi solo, infatti il romanzo – almeno inizialmente – prevedeva un lavoro di squadra tra più scrittori, tutti reclutati con azioni di volantinaggio fuori da Lettere. SI CERCANO NARRATORI! era scritto a caratteri cubitali sul volantino che la donna mi mise tra le mani. Il progetto prevedeva, tra le altre cose, di prendere posizione contro l’uso di intelligenze artificiali nella narrativa, e tante altre iniziative che col tempo andarono affastellandosi. In televisione, si vedevano già i bombardamenti americani. «Quel bubbolìo bianco è Kabul», disse la donna con voce ferma, quasi piatta. Impossibile ricordare il suo nome, forse perché sto sprofondando nella vasca, e sono incredibilmente confuso da sostanze che devo aver preso con leggerezza, dopo averle ritrovate in un cassetto, dato che la redazione era solita spacciare per finanziare la rivista. Iniziava con la I ma doveva essere uno pseudonimo, un nome di battaglia. Ricordo i suoi capelli fucsia, appuntiti, e una tenacia nello sguardo quasi monastica. Una mente divisa tra lo studio rigoroso di lingue morte, e una passione primordiale per l’informatica e le questioni di hardware, che riparava con le sue stesse mani, senza troppi problemi. Nelle notti tiepide, sul finire della primavera, mentre ero disteso a letto e tentavo di scrivere, la sentivo rientrare nella grande casa. I suoi passi leggeri svanivano in direzione della terrazza, la finestra si apriva e un filo di vento correva lungo il corridoio, passando sotto alla mia porta. Una lettera tracciata male segnalava un cambiamento nel mio battito cardiaco, così staccavo la penna dal taccuino e la raggiungevo. Insieme, nell’oscurità della sera, guardavamo il panorama. Firenze sembrava una complessa palpebra malchiusa, da cui filtrava ancora un po’ di luce, palpebra plastica di bambola, sotto le cui ciglia di guglie e tralicci si intuiva la confusionaria, quanto impalpabile, attività del sogno. Lei fumava e mi parlava di questioni teologiche, spiegandomi come Dio fosse emerso dal codice linguistico, da un caos di segni indecifrabili. Diceva che la letteratura non è altro che il tremore dell’uomo inerme, quando in principio era così vulnerabile, soggiogato da forze più grandi, circondato da bestie feroci, dalla grandezza del cielo. «… la sua reazione si vide col tempo, e fu così spontanea, così incredibile e pura: la parola – sopravvivere dentro questa unità, lanciarsi oltre la carne che muore, oltre questo gran dispiacere… ti serve un protagonista, sì, un uomo che entri per te nel nero più nero mai visto, quello dell’anima della nazione, usata e gettata via con noncuranza. Non una marionetta, oh no, non il pupazzo assemblato a tavolino che tutti vogliono, o credono di volere. Ma dove puoi trovarlo?» Io capivo solo a tratti, e la sua domanda restava senza risposta. Altre se ne aggiungevano, ed erano tutte testimonianza della sua strana follia: «… non credi che una biografia possa essere definita semplicemente Rapporto termodinamico? Come se dovessimo rendere conto di come la nostra energia si sperpera tra le cose… la vita, una complicazione termodinamica.» Poi l’alba toglieva le stelle al cielo con un unico gesto, lo stesso che fa il croupier a fine mano. Il grande casinò era il mondo. Sulle strade deserte, ancora livide, gli ubriachi tornavano a casa – anche per loro la mano si era conclusa. Con coraggio la luce ingravidava il cielo, e noi la contemplavamo sbalorditi. A questo punto rivedo il profilo di I, e la immagino in piena pubertà, in quel momento in cui il corpo inizia a cambiare, nelle forme ancora acerbe si affacciano i tratti di donna, come dalla sinòpia l’affresco. Un piccolo viso indagatore, senz’altro, un sorriso un po’ vampiresco, che emerge raramente dalla sua espressione pensierosa. Poi, crescendo, la sua testa doveva essersi espansa – non tantissimo, ma quanto bastava per conferirle una vaga forma a caramella, e alla fronte la misteriosa bombatura del punto interrogativo. Infine, quasi all’improvviso, si era ritrovata ad essere molto bella. Le sue forme ingrandite si erano portate dietro l’aria corrucciata dell’adolescenza – cosa che ad alcune donne accade – proprio come l’universo, espandendosi, si porta dietro le galassie incastonate nel suo manto. Le sue labbra perennemente lucide, un po’ dischiuse, come per un incantevole difetto, e carnose. La testa piena di pensieri contrastanti, di alfabeti estinti, grovigli di simboli, e soprattutto domande, ed estreme, mentre il fucsia dei suoi capelli dissimulava e accentuava questo tormento.
Non so dire con precisione quanto tempo sia trascorso. Adesso, con la morte dell’avanguardia, il nostro collettivo ha subìto continui ammutinamenti, finché tutto il lavoro non è ricaduto sulle mie fragili spalle.
Ogni tanto ripenso a quando l’avventura è iniziata. Cos’era ad accomunarci? Tutti noi eravamo spinti dall’antagonismo verso le dinamiche commerciali, e volevamo combattere – o perlomeno ostacolare – le oscure forze capitaliste che ormai stanno comprando tutto (forse anche la grande casa liberty, ben presto, sarà trasformata in un bed and breakfast per americani annoiati, e io non potrò farci nulla). I miei compagni sono tutti lontani, hanno accettato posti di lavoro in azienda, si dedicano alla famiglia, sono andati all’estero, riciclandosi nel copywriting, oppure in altre città italiane. L’ultimo che se n’è andato, l’impaginatore della nostra rivista, siede sulla sponda del letto e mi guarda dormire. Ma io sto facendo finta, apro gli occhi e incontro il suo sguardo, che è carico di una straziante dolcezza. Ha la barba di tre giorni e una fossetta sul mento, la mascella forte, i capelli rasati sulle tempie, i dilatatori alle orecchie. Non l’avevo mai visto così, sembra più maturo, persino più grosso, e incombe su di me con la sua rassegnazione, ma senza minaccia – e mi rendo conto, all’improvviso, di assistere al momento esatto in cui transita dalla giovinezza all’età adulta, e non è un salto netto, si tratta di un continuo ondeggiare tra i due stadi, e gli si legge in volto. Mi parla come si parla il mattino dopo una grande festa, quando subentra il senso di colpa, e si vuole solo ordine, pace, tranquillità. Non ricordo le sue parole, a parte la sua ammissione di volermi bene, e una vaga quanto accorata raccomandazione di tirarmi fuori anch’io, e al più presto. Poi il rumore dei suoi stivali sulle piastrelle di cotto, lo scricchiolìo della sua giacca di pelle, la porta blindata che si chiude alle sue spalle. Resto paralizzato tra le coperte, col groppo in gola, consapevole che il mio mondo si sta sgretolando. Ho voglia di piangere, ma non ci riesco, e dalla porta socchiusa vedo il corridoio, la parete chiazzata di luce vitale, ma ancora acerba, come se stesse iniziando l’estate, o la primavera fosse al suo picco. So che c’è un treno in partenza. Forse potrei fermare l’impaginatore, parlargli, convincerlo a restare – in fondo il nostro ultimo numero non è ancora uscito, e io sto lavorando all’editoriale, e senza di lui le mie parole resteranno chiuse tra queste pareti. Ma sono legato nei movimenti, intontito, nella testa mi si confondono gli ordini che cerco di darmi. Mi resta fedele una certa oppressione all’altezza del petto, una malinconica tenerezza verso me stesso. Deglutisco.
Questo, a quanto pare, succedeva qualche tempo fa. Ora mi vedo lì, seduto a quel tavolo, nella cucina-salotto deserta, con lo stesso groppo in gola, e davanti la televisione a tubo catodico, che continua a parlare dell’avanguardia, della sua inevitabile morte, mentre gli opinionisti si chiedono in che modo cambierà il panorama culturale. Dicono: è stato un grave errore pensare di spingerci sempre avanti, sempre oltre. Dicono: adesso sarà tutto revivalismo, intrattenimento, serialità. Dicono: giornalismo, visualizzazioni, bacheche a scorrimento. Dicono: ciascuno avrà finalmente il proprio spazio, è ora di farla finita con gli intellettuali, con l’impegno. Dicono: non si uccideranno più i padri, non si sfideranno più le generazioni, perché ciascuno genererà se stesso. Mi prendo la testa tra le mani, colpito dalla forza imperativa di quegli asserti, consapevole che forse qualcosa è andato storto – solo che non riesco a capire cosa. Senza dubbio, il mio romanzo sconfinerà l’epoca, sarà fuori tempo massimo, e io assomiglierò ai giapponesi che continuavano a combattere dopo che la guerra era finita da decenni. Intorno a me, sul piano della cucina e per terra, elementi di vari collages che erano soliti realizzare gli artisti del collettivo. Ovunque guardi ci sono resti, detriti, quadri non finiti, lasciati a metà – e quindi facce di donna appena abbozzate, con solo metà volto, sequenze cubofuturiste che si interrompono, panorami delineati con la sanguigna, che resteranno per sempre a cavallo tra le epoche, in quanto nati al termine dell’avanguardia.
Ogni tanto esco, ed è sempre sera. Mi muovo intabarrato nel mio cappotto, piegato in due dal vento. Lungo il percorso costeggio insegne agonizzanti, saracinesche abbassate a metà, dietro le quali uomini loschi confabulano – e capisco che stanno per accadere cose violente, perché il crollo dell’avanguardia produce già l’irrigidimento di forze estremiste, pronte a tutto pur di portare avanti la lotta. Forse, dopo un po’, entro in un bar. Sono tutti un po’ alticci e scherzano malinconicamente, come per difendersi da un dolore troppo intenso. Si sentono colpi di stecche da biliardo, una tromba con sordina alla radio a transistor. Mi riconosce una ragazza dalla faccia infantile, una vecchia amica dell’università, e ci prendiamo una birra. Ha modi cortesi ma spicci, la bocca a cuore, uno sguardo in cui lampeggiano ancora i bagliori della militanza. Brindiamo all’avanguardia, come in una specie di perverso conto alla rovescia, mentre la strada nebbiosa, fuori dalla vetrata, ci restituisce la sua desolazione. Poi camminiamo nella notte, quasi a braccetto, e per un po’ si sentono solo i suoi tacchi nel grigiore avvolgente. I rumori della movida sono spettri in avvicinamento. Cupi, sgangherati, entrano nei nostri pensieri minandone irreversibilmente il costrutto. Per un bel pezzo non sappiamo cosa dire, non siamo dell’umore, e il frastuono aumenta. La porta di un discopub si apre a intervalli regolari, rigurgitando in strada un fumatore, e innalzando per un secondo il picco della musica. Il reticolo di strade ci inghiotte, una forza irresistibile tenta di dividerci. Adesso, intorno a noi parlano tutti inglese, ridono di battute stupide, si fanno selfie, esultano. Evitiamo balordi giocatori di football in vacanza, e ragazze dal trucco pesante – tutti ubriachi e molesti – e alla fine arriviamo sul lungofiume, ma solo per scoprire che adesso è un posto molto pericoloso. Tra i lampioni difettosi si aggirano ombre furtive. Una gang spietata ha iniziato a battere la zona in cerca di vittime. Il loro marchio: spaccare la bocca ai malcapitati, senza infierire ulteriormente né estorcere denaro. Dobbiamo quindi prendere il ponte, che assomiglia in modo impressionante a Ponte Vecchio, e forse lo è, ma non posso dirlo con certezza perché mancano del tutto le spallette, e ad un certo punto si interrompe. Sotto c’è un Arno gonfio, nero, in piena. Tra le due parti del ponte c’è un piccolo salto, una distanza quasi risibile, che persino un bambino supererebbe, ma sono come rapito da un terrore cosmico, la gravità si fa più catturante, e capisco che l’Arno mi porterà con sé, nelle sue acque luride, tra i resti di refurtive, creature mai studiate, tutta la droga che Firenze sta pisciando, e ovviamente le opere incomplete dell’avanguardia, prese e buttate nel fiume dagli artisti delusi. Forse la mia amica è già dall’altra parte, forse la vedo allontanarsi tra i faretti dei negozi…
Poi eccomi di nuovo al mio tavolo, nel grande appartamento deserto, incapace di quantificare il tempo trascorso – ma sembra molto, come se nel frattempo la mia precarietà avesse raggiunto una sua dimensione ripetitiva, liturgica. So – ed è un’altra consapevolezza quasi ovvia – che il mio tavolo ora è conosciuto a livello planetario, quasi fosse una specie di istituzione. Tutti gli ex membri del movimento sono sparsi per il mondo, eppure, misteriosamente, c’è un filo invisibile che ci unisce. Ogni tanto qualcuno appare sullo schermo, metamorfosato in vesti nuove, e discetta con tranquillità ai talk show. Non so perché, ma ho come l’impressione di essere un re in rovina. Il mio orgoglio è potente, sicuro di sé, e trova risposta nell’opinione che il mondo ha del mio tavolo: uno strano, timoroso rispetto, simile a quello che si ha per chi detiene un sapere antico. Io, però, non credo di detenere alcunché. Parallelamente, – e come in una specie di split screen non lineare ed esploso – vedo ministri, senatori, produttori cinematografici, e vecchie conoscenze, e tutti loro parlano di questo mio tavolo, soprattutto quando sono in crisi e non sanno dove sbattere la testa. Si chiedono se – per le loro questioni irrisolte – non sia il caso di sedersi qui, di parlarne con me, secondo i princìpi della critica e dell’arte. C’è anche una grande festa, da qualche parte in campagna, presso una villa molto facoltosa. Tra gli invitati, alcuni miei vecchi compagni del movimento: scivolano ubriachi nella notte, vengono scortati da un taxi, e quando si chiedono cosa fare per divertirsi, si dicono: «Perché non torniamo al vecchio appartamento?!» E così vengono a farmi visita, apro loro la porta blindata, li scorto dov’eravamo soliti radunarci, e dove io sono rimasto a scrivere. E per un po’ parliamo, filosofiamo, forse scherziamo persino, e poi discutiamo, perché – quasi esaltati – ripetono che l’avanguardia è finita, che io devo pensare a reinventarmi, a salvarmi la pelle, devo essere realista, cambiare rotta, e affermano di dirlo per il mio bene, perché mi vogliono bene. Fanno, con premura estenuante, domande su di me, sul mio stile di vita, sull’andamento del romanzo, invitandomi a considerare l’idea di smembrare il progetto, ridurlo, magari serializzarlo. Si muovono nei ragionamenti come quando ci si confronta con un pazzo, con la stessa indecente delicatezza. «All’inizio è stata durissima, che credi. Molti di noi sono tornati dai genitori. Le stesse camerette di quando si andava a scuola. Sembrava di tornare dal fronte, sconfitti, senza nulla in mano. Solo il cuore a pezzi.» «Non sei l’unico che soffre.» «Non ti daranno una medaglia per questo.» «Prima farai i conti con la cosa, meglio è.» La missione non è stata ancora portata a compimento, rispondo, ed è mio dovere concludere l’opera, a costo di dover naufragare insieme a quest’epoca. Sospirano. Provo sentimenti contrastanti nei loro confronti, perché gli voglio bene, ma non condivido nessuna delle loro scelte. Ripenso a I, alla sua caparbietà nel portare scrittori dentro il movimento, e mi chiedo dove sia finito quel grande slancio. (Sul piano della cucina, mi accorgo, è pieno di pietanze elaborate e marce, ma che in qualche modo sembrano ancora succulente.) Infine se ne vanno, contriti e sbilenchi, lasciandosi alle spalle il clangore gelido della porta blindata, e il loro nuovo odore di persone rigenerate.
Queste situazioni si ripetono con sempre maggiore frequenza. Anche gli sconosciuti capitano qui, mentre io lavoro, osservo, ascolto me stesso. «Sei tu quello dell’avanguardia…», borbottano, stupiti. Raramente colgo i loro volti, anche perché siedono in poltrona, là dove si addensa la penombra. Scrivo e piango, senza emettere un singhiozzo, e tutto a mano libera. Il mio sforzo è sovrumano, le lacrime scendono più per il dolore fisico che per la tristezza – vorrei che tutto finisse, ma non posso impormi su questo istinto. Forme sintattiche mostruose attraversano le mie arborescenze mentali, le stroncano lasciandole lì, ciondolanti e incendiate. Sono orribili grida senza struttura, vaneggiamenti da folle, pensieri destinati a regredire a forme più semplici. Eppure, quando guardo le righe, la prosa risplende di una sua forza tragica, e non assomiglia a nessun’altra cosa che io abbia scritto in precedenza. Ho fatto il salto. Le pagine sono confuse, forse piene di caratteri in lingue morte, mai decifrate nemmeno dagli archeologi, come la lineare A o l’etrusco. A tratti le righe prendono forma di simboli matematici, integrali, sommatorie, si piegano e trasformano in formule di struttura, diventano pittogrammi, rune, caratteri in cirillico, e infine un italiano sommesso e composto. Ecco cosa si ottiene a sfidare l’assoluto, mi dico. Un rantolo cosmico, uno spasmo isterico. Qualcosa che nessuno capirà mai, io per primo. Eppure, il mondo accademico è in estasi. Tutta la comunità scientifica mi sprona a continuare, ritiene questa lingua una grande conquista, e ogni tanto qualche professore viene qui a complimentarsi. Mi chiuderanno in una bella gabbietta.
Scrivo in questa semioscurità, bagnato dai riflessi della televisione muta, e persino lo scricchiolìo della penna risuona nell’enorme casa vuota, dialoga con la goccia che stilla nella vasca da bagno – una vasca dai piedini d’oro. Mi chiedo quand’è che ne sono uscito, se ne sono uscito: forse, in realtà, sono ancora immerso fino alle spalle nella schiuma, coi pensieri ottenebrati dalle sostanze. Ma all’improvviso sullo schermo compare una festa in corso: in uno studio di talk show, donne bellissime si abbracciano a grassi magnati, lingue di Menelik si srotolano in continuazione, uomini vestiti da pupazzi danzano e caracollano per terra. Capisco che l’avanguardia è morta, ma ciononostante la mia mano continua a guidare la penna. Mi sento, tutto sommato, abbastanza freddo. È una certezza sconvolgente: mi vedo conficcato dentro l’epoca come un detrito, un frammento, e ciò mi infonde una certa pace. Non tanto perché, in un modo o nell’altro, un corpo estraneo può comunque provocare l’infezione, ma perché ormai sto guardando il mio destino in faccia: se continuerò a scrivere, mi dico, io sarò avanguardia, e per sempre.
Poi un giorno mi fermo, sfoglio le pagine e comincio a rimuginare. Dopo tutto questo scrivere, ancora il romanzo non ha un protagonista. Penso a I e alla sua domanda rimasta senza risposta, e mi assale il dubbio di girare a vuoto senza rendermene conto.
Nei giorni seguenti sprofondo in cupe e complesse riflessioni. Il fumo di sigaretta sale dal posacenere, si accartoccia. Vengono al mio tavolo individui di ogni sorta, spesso vestiti bene e dall’aria scafata, mentre io me ne sto qui in vestaglia. Sui loro volti si legge una nota di educato disgusto, provocato, forse, dalla mia situazione di svacco umanistico. Vanno dritti al punto, con quell’atteggiamento aggressivo da venditore statunitense, e guardandomi nelle palle degli occhi rivelano di volermi vendere un protagonista. Credono, in tal modo, di far grande pubblicità a loro stessi, alle loro start up e prodotti, alle loro aziende impegnate nello sviluppo di tecnologie nuove, spesso eticamente discutibili. Io ascolto in silenzio, come farebbe un prete o un boss della malavita. I vantaggi sarebbero enormi per entrambi, dicono. Ci sarebbe l’opportunità di entrar nella filiera, buttar giù una sceneggiatura, dalla parola passare allo schermo, e, trovati gli attori giusti, i produttori si frugherebbero le tasche, e tu avresti un cachet mai visto per un soggettista. Rivolgono occhiate eloquenti al posto in cui vivo, accennano col mento al mio vestiario, giurano con tutto il cuore che mi lascerei ogni cosa alle spalle, perché nel mondo si stanno aprendo continue possibilità di arricchimento. «La nostra pagina sta crescendo.» rincalzano «Abbiamo bisogno di contenuti, di parole e testi che polarizzino le attenzioni.» Mi oppongo: sto progettando una forma nuova, non indicizzabile, in mezzo a tutto questo patimento. E, indicando loro il romanzo, aggiungo che anche la mia pagina sta crescendo. Compìti, e un po’ timorosi, prendono tra le mani il manoscritto, lo sfogliano lanciandomi qualche occhiata, finché non si lasciano andare e dicono: «Non credi che la situazione ti sia sfuggita di mano?» Alla fine li accompagno alla porta, e rimasto solo, provo a riordinare le idee. I miei ragionamenti assomigliano a quelli di un ufficiale incaricato di rompere un accerchiamento. Ma io non possiedo una simile pragmaticità, sono solo uno scrittore che deve vedersela col Millennio, un uomo che ha un sogno, o meglio, incaricato di una missione fuori tempo massimo. Un tizio ben conscio dei propri limiti, e quindi capace soltanto di continuare nel proprio gesto.
Nei primi caldi serali, a torso nudo sul divano, penso alla donna che mi scelse. I fari delle auto tigrano il soffitto, la sigaretta si consuma, gli sbandati in strada rompono bottiglie. Mi chiedo dove sia, e la immagino in tailleur e tacchi alti, intenta a salire i gradini d’entrata di una qualche sede centrale, un edificio stile Bauhaus, sovrastato da un cielo metallico. Sulla facciata principale svetta il logo di una famosa piattaforma, magari una N rossa, e basta vederlo perché i neurotrasmettitori del piacere si accendano. Lei passa le porte scorrevoli, i controlli della portineria, striscia il badge al tornello, e infine raggiunge la sala riunioni, dove l’attende una squadra di sceneggiatori assai esperti, assai pagati, tutti pronti a soddisfare l’immensa richiesta di intrattenimento del pianeta. Forse, sul loro tavolo, viene depositata una cartellina trasparente, al cui interno alloggiano sei paginette – lo scarno riassunto del romanzo al quale sto lavorando. E lei, non più cyberpunk, anzi truccata in modo quasi classico, con labbra fiammanti e lunghi boccoli, a quel punto sentirà la gola chiudersi, e si accorgerà che qualcosa è andato storto – ma non capirà bene cosa. Avrà come l’impressione che la ruota del tempo abbia fatto il suo giro, come un grande bastimento che arriva in porto, la chiglia incrostata di alghe e molluschi, i marinai impazziti. No, non mi convince. Anzi, forse è tutto l’opposto. In questo esatto momento I se ne sta distesa a letto, in una delle tante stanze in affitto in cui la gente di solito passa e va via. Lei, invece, disorientata com’è dalla morte dell’epoca, è rimasta incastrata tra quelle quattro mura, il braccio che sporge mollemente oltre il bordo del materasso, quasi stesse facendo naufragio su una zattera. Il cellulare che vibra a vuoto, perché lei non vuole più sentire nessuno, tanto profondo è stato il trauma dell’avanguardia morta. Deve aver subìto anche una drastica trasformazione fisica, e la ripercorro al ritmo violento del timelapse filmico: le punte dei suoi capelli che si afflosciano, il fucsia che sbiadisce, e lascia pian piano riemergere il castano sottostante, persino i lineamenti perdono la spigolosità determinata dalla lotta, quella tensione necessaria a chi persegue un sogno, e nel suo svanire dev’essersi portata via anche gli ultimi residui di adolescenza, lasciandole un viso atono, quasi sperduto, impegnato a rimbalzare qua e là nella folla. Adesso è lì, su quel materasso. Il soffitto che all’improvviso sembra altissimo, e stretto, e una finestra che si affaccia sull’oscurità di una periferia gigantesca, mal collegata al centro e desertica, costituita da tozzi cubetti condominiali, sparpagliati con gesto distratto dalla mano del comune. Come me, anche lei guarderà i fari delle auto di passaggio, su quel soffitto stretto, sempre più lontano, in questo smisurato attacco di panico che ci unisce – scavando la sua scorciatoia nello spaziotempo. Tutto intorno, la notte, che stavolta affronterà da sola. Come del resto farò io. E questo è tutto ciò che può insegnarti un sogno, mentre ti affoga.
Niente è più inaccettabile di questo, penso. Se penso.
Di mattina, cerco di organizzare i miei pensieri, e intanto sfaccendo, vago nella cucina-salotto, scongelo per colazione una mattonella di lasagna, che mangio avidamente davanti alla televisione, mentre scorrono immagini di metropoli cinesi in pieno sviluppo. Il cielo sopra Firenze è smorto, bianco, e lo ammiro con la coda dell’occhio.
Poi sento l’eco non troppo distante di una folla, apro la finestra, e infine scopro un corteo di manifestanti, tutti impegnati in una grande protesta. So che è una non meglio specificata “contestazione del Millennio”. Nei fatti è un fiume in piena, che scorre, nemmeno troppo lento, riempiendo tutta la strada. Agitano le braccia, alzano striscioni e cartelli, i loro cori sono assolutamente indecifrabili. A un certo punto alcuni si accorgono di me, si fermano e mi salutano. Il loro numero aumenta, finché non si forma un pubblico, e io mi sento un po’ come il papa il giorno dell’Angelus. Sono tutti per me, vogliono che io scriva il romanzo, e per questo mi incitano, applaudono, cantano. Io li saluto, imbarazzato, e mi rimetto al lavoro. Gridato dalle loro gole, il mio nome diventa quasi il ritmo martellante di un rito tribale, il cuore batte all’unisono con le parole, chiudo gli occhi, sorrido, sentendomi davvero uno sciocco – mentre i loro incitamenti si fanno sempre più esaltati e trascinanti.