Due Soli. E le sfortune di un pianeta con un sole | F. Cane Barca

Anno trecentocinque.
Giorno quarantacinque.
Mese quinto.

   le loro disgrazie! Da quante rovine, non una o due, noi che abbiamo questi due soli che ne sappiamo, da quante, le loro, quelli con un sole, da quante loro disgrazie abbiamo imparato qualcosa? Penso alle fortune di questo pianeta, a quello che non siamo ancora, che trecento anni non sono nulla, penso a quello che erano, che sono (loro): animalicidio; ecocidio; omicidio. Gentame che fa devozione alla distruzione! Polvere di imperi! Pattume morale. Quel che era la terra natia. Fortuna nostra che sia lontana. E che verrà dimenticata. Diventerà una fiaba oscura. Anche ora, fin da bambino, nelle filastrocche, per imparare, le storie brutte sono ambientate tutte lì nel pianeta lontano. Loro che sono il Pianeta Terra. Noi che siamo il Pianeta Mare. Dimenticheremo. O saremo come loro. Fino a distruggerci, così ci hanno raccontato, così che fanno, è brutta gente.

   qui: un sole giovane e anche un sole vecchio, assieme, a fare la nostra faccia di quei colori che vanno verso il blu, verso il nero, a volte il verde, tranne quel 0,001% di persone, sono quelli come me, quella poca gente del Pianeta Mare con la pelle chiara. Noi si nasce con la pelle color neve, e poi… verso i dieci, quindici anni, a volte più tardi mutiamo, io no, spero ancora di diventare scuro, sono ormai vecchio, ne ho ventuno ora, una donna so essere diventata blu a trentadue anni, speriamo! Per quel che importa. A nessuno, nessuna ne fa un problema. Poteva andarmi peggio. Potevo nascere su quel pianeta con un sole, solo e vecchio. E fare mie le loro disgrazie.

   scrivo della mia preoccupazione. Spero non diventeremo anche noi come loro fra una decina di generazioni.

   abbiamo due soli a fare creativa la vita mutandola in modi spesso tutti nuovi, cose che ‘ieri’ non c’erano e che sulla Terra dicono non esserci. Piante gonfie, che colori! Che verde! Vivissima selva! Piante da frutto ricchissime! Pesci enormi e intelligenti. Cani con branchie. Uccelli con mani. Due soli che assieme fanno bollire. Ma siamo abituati. O meglio: io no. Devo stare attento in quei giorni che i soli sono vicini. Tutto questo sole ci dà scorte di vitamina da farci fare ogni cosa con entusiasmo. Due soli, senza guerreggiare tra loro. La canzone che da bambino cantavo: I due soli assieme vengon fuori e noi ridiamo e ci amiamo più che voi. Ci crucciamo meno di quella gente su Terra. Perché noi siamo partiti con un concetto di fondazione: questo mondo non ci appartiene.
c’è più felicità, ecco.

   nessuna utopia (così la chiamerebbero loro), nessuna utopia è perfetta. Non sempre, ma sempre più: quando ci sono le eclissi di sole nel loro pieno c’è più nervosismo, più i due soli sono distanti e più viviamo con serenità. In quei giorni, in questi giorni viene fuori il peggio di noi, tre giorni, cinque volte l’anno. Per dare senso alla mia teoria potrei documentarmi sugli avvenimenti, le notizie, anno per anno, farne una tabella statistica, sottolineare le progressioni.

   ieri, che oggi sono chiuso in casa: caldo che nemmeno l’ombrello a spruzzo funzionava, l’unico pallido in giro, quanti schiaffi che ho preso.

   primo schiaffo: ero in fila al mercato in attesa affamato e… io ero davanti a lei, lei è passata… le due signore hanno iniziato una lite e mi sono preso uno schiaffo da entrambe mentre cercavo di fare da paciere. Poi altri schiaffi di verza a me e tra loro e a chi stava lì, e scivoloni su stracchini, e urla, e qualcuno che cade sul bancone dei formaggi e delle uova. Ho preso da terra qualche verdura e me ne sono andato.

secondo schiaffo: peggiore giorno per un appuntamento non potevo sceglierlo, lei ha insistito, lei di quel blu tendente al verde tipico del mare sotto al cielo nuvoloso e le colline verdi che si riflettono, sapevo sarebbe finita male, ci siamo lasciati, ha iniziato con: Sei in ritardo. Le ho detto: Veramente sono in anticipo. Mi ha chiesto: Che facciamo oggi? Sono stato sincero, puntando il dito al cielo: Ci sono due soli, non posso fare molto, andiamo da me? Dopo quattro secondi di silenzio: Pensi solo al sesso. Ho provato a ribattere: No, veramente, lo sai che brucio, che poi c’è nervosismo in questi giorni. Niente da fare o dire: Scuse, mi stai dando della nervosa? Pensi sia come tutti e tutte? Oramai spiegarsi era inutile: No, dico che i due soli… Si stava innervosendo a ogni mia parola, ogni movimento: Smettila, oggi non ti sopporto, pensi di avere sempre ragione, smetti di grattarti il naso. Ci sono rimasto male: Non me l’avevi mai detto, hai detto due giorni fa di amarmi… La fine: Ho cambiato idea, mi sono svegliata con le idee chiare. Volevo solo andarmene: Parliamone quando si allontanano i soli, voi…E ho preso uno schiaffo all’urlo: COSA? Voi chi? Perché non vai sulla terra, mi sembra il luogo perfetto per te.

terzo schiaffo, che mi sarebbe bastato prenderne due, invece: lungo la via del ritorno ho visto gente litigare, cani ringhiare abbaiare, da una locanda hanno cacciato un uomo, cascato male, di faccia, ho provato ad aiutarlo, l’ho tirato su e come risposta ho ricevuto uno spintone, ho risposto con un’altra spinta, mi ha dato uno schiaffo, l’ho preso per il collo, e in quel momento sono usciti i suoi amici, e lì ne ho prese.
quarto schiaffo.
quinto e sesto schiaffo.

 settimo schiaffo: mi hanno allontanato a sberle e calci in culo: corso via. Fino a casa. Fino a chiudermi qua. Aspetterò che i soli siano distanti. Ho deciso di non accendere il Verse, per questi giorni lascerò perdere il mondo virtuale, social e notizie, niente, l’ho fatto ieri, per qualche minuto.

   ottavo schiaffo (mentale, almeno!): due amici hanno pescato un Skyrat, quelle bestie di mare con la pelliccia blu e quel muso grande adorabile… l’hanno pescato e hanno messo online la foto, loro con lo Skyrat in braccio, morente, si vedeva boccheggiare, bramare un respiro, poi l’hanno rimesso in acqua, quelli sono animali sacri, qui noi rispettiamo gli altri esseri viventi, abbiamo smesso di mangiarli dopo pochi mesi, più di trecento anni fa! Miserabili! Di certo non li torturiamo! Si beccheranno una bella denuncia. Giusto!

   e infine, che non sono schiaffi ma ugualmente cose poco piacevoli: prendo il sapone invece del dentifricio, forbici invece dello spazzolino, dimentico le luci accese, scivolo, inciampo, dormo male, vengono dolori alla testa, mi è venuto anche il raffreddore.

   sembra niente. Sembra niente se si è della Terra, forse. A me sembra troppo. E fra cento anni? Inizieremo a uccidere gli altri animali per mostrarsi sul Verse trionfanti con le carcasse in braccio e proponendo modi sfiziosi per mangiarli? Esponendoli persino nei negozi, a brandelli? Butteremo le sostanze, che solitamente smaltiamo perfettamente, le butteremo per pigrizia nelle acque e nella terra? Butteremo giù gli alberi per farci più spazio di quel che ci serve? Uccideremo le cose in cielo? Ci daremo al fuoco? Cosa succederebbe se facessimo l’irreparabile, uccidersi per esempio? Ci faremo delle guerre? Risse tra bande nei quartieri solo e unicamente in quei giorni? Ci discrimineremo per il colore della pelle? Avremo dei serial killer in attesa delle eclissi di soli? Faide famigliari? Non rispetteremo più la fila al mercato?

   il Pianeta Mare con le sue auto che non toccano terra e la sostenibilità ambientale, le nanotecnologie in grado di non farci mai morire di malattia, di rinforzarci le ossa, e questi due soli che ci danno entusiasmo, voglia di amare, creare, e gli adorabili teletrasporti a breve distanza, e quella grande nave spaziale che ci portò qui, lì ferma come un museo e che forse un giorno ci servirà ancora, e i nostri centocinquanta anni di vita in salute e forze, e le nostri morti serene nel sonno… Che ne sarà fra trecento anni della nostra felicità?

   abbiamo creato un mondo migliore, o meglio: abbiamo creato un modo migliore di vivere su di un pianeta che non ci appartiene. Dobbiamo solo ricordarci da dove abbiamo origine, fin quando non sarà più necessario farlo. Se andrà male ripartiremo, ricominceremo, prenderemo la nave spaziale nascosta, o ne costruiremo delle altre, e andremo via da questa palla di mare e terra, lasciandola a sé stessa, che tanto senza di noi starà molto meglio, con due soli a farle compagnia.

   i tre giorni sono passati, ed ecco di nuovo il grande spazio tra i due soli, apro le tende verso sud per vedere, guardo quello più vecchio, sono concentrato, mi arriva un messaggio da lei, una sua foto, il suo bel viso blu, i suoi seni blu, una smorfia simpatica: Scusami, hai ragione, questa volta i due soli mi hanno preso malissimo, non sai che giornate, oggi sono di nuovo me stessa, scusami! Ci vediamo? Sorrido, una piccola goccia di sangue cade sullo schermo sul suo occhio azzurro.

Collage di Mathilde Aubier

Evviva | Parimah Avani

Ismail significa “Dio ascolterà”. Ismail è un ragazzo afghano che sta insieme a Bianca, una ragazza italiana di Santo Stefano Belbo. Si sono conosciuti durante un viaggio verso il campo di Auschwitz. Siamo stati invitati a cena a casa sua. Tutti e quattro ci siamo ammalati e parliamo con voce rauca. La casa è troppo calda e ci sono due grandi tappeti orientali, uno dei quali si trova anche in cucina, come facevano le mie nonne molti anni fa. La tavola è coperta da una tovaglia bianca guarnita di pane, vino e una candela accesa. La casa è buia e dietro la tavola si vede una parete con una finestra aperta attraverso la quale entra la luce della strada.
Cominciamo a bere del vino, una bottiglia di Nebbiolo. Ci sono dei bei piatti sul tavolo e Bianca dice: «Ismail ha cucinato il khoresh, fa bene per il raffreddore!». Io guardo Ismail e gli dico: «Bravo! Gli hai anche insegnato a pronunciarlo bene». «Lei è brava», dice Ismail e ride timidamente.

Bianca conosce molte parole persiane, parla in modo elegante e scandisce ogni lettera quando la pronuncia, come volesse darle il giusto rispetto. Conosce il nome di alcuni insetti, di alcuni elementi della natura, come il fuoco e l’acqua, ma sa soprattutto i nomi delle cose che le permettono di vivere nel suo mondo, come farfalla, lumaca, coccinella. Bianca è un’antropologa che ha lasciato la letteratura per l’antropologia.

Prima di arrivare a cena, avevo letto la notizia di un giovane iraniano[1] che si è suicidato gettandosi nel Rodano a Lione per far sentire la sua voce al mondo occidentale contro un regime dittatoriale. Il ragazzo ha registrato le sue ultime parole sui social in due lingue: in persiano e in francese.
Prendo da Bianca uno Zerinol, dice che fa bene per il raffreddore. Nello stesso giorno avevo letto anche un’altra notizia: in Afghanistan hanno impedito alle donne di andare all’università. Continuiamo a bere lentamente, ma non parliamo di nessuna delle due notizie. Ismail non parla e ha sempre il calice in mano ed assaggia il vino con stanchezza. Invece, parliamo con Bianca di Cesare Pavese, anche lui era delle Langhe.

La cena è pronta, due grandi piatti di khoresht: cena iraniana, cena orientale, cena afghana, cena che mi fa sentire come a casa, cena dell’anima, cena calda e siamo qui insieme e siamo forti. Riso basmati bianco e khoresht di carne.

Ogni volta che Bianca ripete “khoresh”, Ismail mi guarda e i suoi occhi spenti si illuminano come stelle cadenti. Ora è il turno del Barbaresco. Abbiamo fuoco dentro il cuore. Da adesso in poi impareremo molte cose sulle Langhe, sulle vigne e sui vigneti. Vedo Ismail che ascolta con gli occhi affaticati. Bianca ci racconta con passione che la sua famiglia produce vini pregiati a Santo Stefano Belbo. Arya ascolta con interesse mentre Bianca spiega la differenza tra Nebbiolo e Barbaresco.
Vedo il fiume della città di Lione e sento le ultime parole di Mohammad, che si è suicidato: «So bene che i francesi sono gentili, le persone di Lione sono più ragionevoli. È giusto che la polizia rispetti la gente qui, ma fa schifo questa umiliazione della vita.»
Bianca spiega: «Il Barbaresco è prodotto con uve Nebbiolo coltivate esclusivamente nella zona del comune di Barbaresco. Il processo di vinificazione del Barbaresco richiede almeno due anni di invecchiamento, di cui uno in botti di rovere».
Nel video, dietro a Mohammad, c’è il fiume; il suo ultimo discorso comincia così: «Quando guarderete questo filmato, sarò morto, annegato in questo fiume che vedete dietro di me», e poi lo mostra con la mano.
Bianca spiega: «Il risultato finale è un vino complesso e strutturato, con un sapore intenso e tannico».
Mohammad ci guarda dal video e dice: «Questo non è un suicidio per problemi personali, è un gesto per attirare l’attenzione degli occidentali su ciò che sta accadendo in Iran».

Ismail riempie nuovamente il mio calice, e Bianca mi chiede se noti la differenza.
Poi, senza aspettare la mia risposta, continua: «Il Nebbiolo è un vino secco, tannico e di medio corpo, con sentori di frutta scura, fiori e spezie».

L’acqua è morbida e vellutata. Mohammad non trattiene la testa sopra la superficie dell’acqua, sapeva dire no, no all’umiliazione dell’uomo, no alla superficialità della vita, no alla superficie dell’acqua.
Bianca assaggia il vino e lo trattiene in bocca, poi dice: «Si fa così». Ci sono correnti forti.
Anche Mohammad ha la bocca piena, di acqua. Il Barbaresco è buono! Sono sicura che a Mohammad piacevano i vini francesi, simili alle sue parole, sobrie, amare e tanniche allo stesso tempo, allappanti per quella sensazione che ti lasciavano addosso e che non andava più via: «Non accetto questa umiliazione della vita».
Bianca continua a spiegare con delicatezza il mondo dei vitigni. Vedo il rosso di khoresh e il rosso di Barbaresco.
Quello che mangi ha un legame con quello che pensi, affermava Orwell. Khoresh è un piatto mediorientale nostro, è un piatto, è un patto; Ismail tossisce. Bianca continua, parlando di Barbaresco e Nebbiolo e del sole sulle colline. Siamo tutti sulla stessa barca, navigando sulla stessa rotta, rinchiusi dentro le bottiglie, ci muoviamo tra le onde rosse, il rosso del vino e il rosso del sangue, sulle colline, sulle strade dell’Afghanistan e dell’Iran.
È un po’ acido, un po’ amaro, ma per sentirlo devi berne un po’ e aspettare. È più un sentimento interiore. Le barche salgono sulle colline e noi spaesati saltiamo fuori dalla bottiglia, dall’incubo e gridiamo: «Evviva khoresh! Evviva la rivoluzione! Evviva la febbre e Evviva lo Zerinol!». Ismail tossisce forte, ma nessuno gli dà acqua; l’acqua è fredda.
Mohammad lo sente; è dicembre. Bianca continua a camminare sulle vette delle colline. Arya con una mano sotto il mento ascolta, fisso come una statua della Madonna. Ismail tossisce, sforzandosi di dire «Khoresh, khoresh! Non mangiate khoresh?» Ma Bianca non ripete, non lo pronuncia di nuovo. Diventa lei stessa un vitigno sulle colline.
Evviva l’amicizia! Ismail tossisce ancora e la bottiglia cade sul tavolo, versando vino rosso come il sangue delle strade. Evviva vivere in mondi diversi, strappati dal mondo, sputati fuori sanguinanti. Evviva la lumaca, evviva Pavese, evviva il deserto dei Tartari! E la pazienza!
Cade il calice di Ismail e si rompe come un cuore di cristallo. Ismail tossisce. Evviva l’ultimo aereo che sale nel cielo dell’Afghanistan e l’uomo che lo segue, corre e corre e rimane appesa alle ali. Siamo nella stessa barca che annega. Siamo a Torino che annega, che nega, che nega l’annegamento. Evviva Torino! Evviva il fiume! Evviva la fluidità!
Bianca sale in piedi sulla sedia e grida: «Evviva il Barbaresco!».
Ismail tossisce forte, senza pausa. Evviva il khoresh, evviva chi pronuncia khoresh correttamente, evviva la stella cadente, e la nostalgia, evviva essere al proprio posto, evviva la libertà, evviva la patria che ti abbraccia e piange con te come il fiume di Lione che ha pianto quando Mohammad ci è sprofondato dentro, annegato. Evviva Virginia Woolf, Evviva Samad Behrangi, evviva chi muore nell’acqua, nel sangue, nel vino, nel rosso, nella pura trasparenza dell’acqua, evviva Lampedusa, viva la lontananza per sentirsi vicini!

O khoresht, o carne del sacrificio, o caro vino Barbaresco, mostrami ciò che penso e che non riesco a proferire, mostrami con il sangue, mostrami con le cene prima di Natale e le cene prima di morire. Mostralo, o khoresht! Di questo calice ne faremo nuovo patto e altro non sarà se non il tuo sangue, sangue che è stato versato per noi.


Evviva il popolo di ogni colore, evviva i colori di ogni popolo, viva il sacrificio per un popolo che ti guarda, che ti apre le braccia e ti dice: mangia il khoresh, fa bene, è il cibo della tua casa, è il mio corpo, bevi il mio sangue, la tua patria è la mia carne, ma la carne sta annegando nel fiume. Beata la tua anima Mohammad! Beata la tua carne e il tuo coraggio.

In copertina, The revolution we will, Opera di Parimah Avani


[1] Mohammad Moradi, morto suicida il 26 Dicembre 2022 nel Rodano a Lione.

La morte dell’avanguardia | Umberto Sereni

Sono gli ultimi giorni dell’avanguardia.  
La sua morte è imminente, ne parlano tutti – giornali, radio, siti internet, e naturalmente la televisione. Gli opinionisti bofonchiano allibiti nei salotti, asciugandosi le fronti, mentre conduttori mefistofelici moderano i dibattiti. Tutti corrono ai ripari, si riciclano, ritrattano le loro idee. Incravattati intellettuali abiurano sommessamente, sillogizzano nei microfoni, alzano i sopraccigli: l’avanguardia ha fallito – ammettono – e non poteva andare altrimenti. È stata una bella avventura, ma ora è finita, e dobbiamo ricomporci. È stato un bel sogno, ma ora dobbiamo svegliarci.

Nelle case palpitano televisori a tubo catodico. Vedo scorci di periferia immersi nella sera, fughe di lampioni sfocati, signori dall’aria compìta che portano fuori il cane. So – ed è una specie di consapevolezza ovvia – che il World Trade Center non è mai stato ricostruito, che le rovine dell’attentato campeggiano ancora a Manhattan, e in qualche modo assomigliano all’abbazia di San Galgano, solo ipermoderna: sono diventate l’importantissima sede di una religione della finanza – un dio Dollaro, che persino la Santa Sede ha dovuto riconoscere, convocando appositamente il Concilio Vaticano III. Il nostro presidente del consiglio è indagato per associazione a delinquere, il cambiamento climatico è una priorità costante – ignorata dai potenti – e il mondo globalizzato si sta frammentando in blocchi, ma in modo quasi indolore, dolce, e nessuno se ne accorge.

Tutto questo mi viene confermato dalla televisione, che guardo tantissimo, ora che è in corso la morte dell’avanguardia, e la cosa mi tocca da vicino. Ma, tralasciando il mio interesse, è l’opinione pubblica nel suo insieme ad essere scioccata: niente sarà più come prima, non solo nel mondo culturale, ma anche nelle istituzioni, e nella condotta generale delle masse. Vedo croniste con pettinature anni Ottanta che parlano nel microfono, cercando di vincere un vento aspro, mentre sullo sfondo palpita il traffico di un est Europa grigio, percorso da vecchie Trabant, e sento frasi concitate riguardo a “ultime riunioni”, “scioglimento dei comitati”, tutte faccende che probabilmente avvengono in un palazzo signorile, pietroburghese, dalle cui finestre illuminate si intravedono ombre di persone, e che la cronista ogni tanto invita a zoomare, mentre tiene tutti noi col fiato sospeso riguardo agli sviluppi. A quanto pare, anche i mercati finanziari risentiranno di questa morte dell’avanguardia, e infatti, ogni tanto, appaiono economisti compassati, vestiti in doppio petto, impegnati a commentare grafici. Comunque, questa svolta secolare la stiamo toccando tutti con mano. Le defezioni, nei vari movimenti artistici, sono continue e implacabili. I collettivi abbandonano gli stanzoni occupati illegalmente, senza nemmeno resistere troppo alla polizia. Su tutti gli spazi culturali si spande una patina privatizzante, le facoltà installano tornelli per limitare gli accessi, le portinerie montano nuovissimi vetri antiproiettile. I laboratori creativi, ricavati dai capannoni dismessi, si fanno vuoti e stillanti: era qui che artisti e scrittori si ritrovavano per ciclostilare, impaginare, discutere.

I cosiddetti “piani di recupero” prevedono di trasformarli in discoteche, o in coworking space dal tocco postindustriale, dove studenti di moda e design potranno ubriacarsi con angelico garbo. Tutto, insomma, è sul punto di essere stravolto, e l’atmosfera assomiglia a quella che precede una dichiarazione di guerra, o il crollo di un governo.

C’è soltanto un uomo che non ha alcuna intenzione di cambiare rotta, e quello sono io.
Sono rimasto solo, in un gigantesco appartamento in stile liberty, pieno di cianfrusaglie d’inizio Novecento, e passo tutto il mio tempo seduto al tavolo, rompendomi la testa sul romanzo che voglio, che devo scrivere. Il tavolo è grande, forse troppo, e a volte mi sembra una specie di seggiolone per neonati. La tovaglia cerata è a fantasie floreali gialle e celesti. Questa casa è piena di tracce dell’avanguardia. In effetti, fino a poco tempo fa, vivevo insieme ad altre persone, uomini e donne che hanno dato vita a un movimento artistico. L’appartamento lo abbiamo scelto proprio per la sua grandezza, ma lo spazio bastava appena per farci lavorare tutti. Adesso risulta incredibilmente – e insopportabilmente, melanconicamente, angosciantemente – vuoto. Io sono stato incaricato di scrivere il romanzo “assoluto”, qualunque cosa significasse tale espressione. Nelle parole del collettivo, doveva trattarsi di ciò che i critici vagheggiano come il Grande Romanzo Italiano – un’epica, credo, che tenesse insieme il sentire di un popolo, che affrontasse a testa bassa la Storia, senza tirarsi indietro, nemmeno davanti alle sfide più estreme.

Sono stato scelto per la mia capacità di osservazione, e perché ho un carattere paziente e disciplinato. Mi hanno valutato un’ottima risorsa per il movimento, e a deciderlo è stata una donna dall’aspetto vagamente cyberpunk. Non che fossi solo, infatti il romanzo – almeno inizialmente – prevedeva un lavoro di squadra tra più scrittori, tutti reclutati con azioni di volantinaggio fuori da Lettere. SI CERCANO NARRATORI! era scritto a caratteri cubitali sul volantino che la donna mi mise tra le mani. Il progetto prevedeva, tra le altre cose, di prendere posizione contro l’uso di intelligenze artificiali nella narrativa, e tante altre iniziative che col tempo andarono affastellandosi. In televisione, si vedevano già i bombardamenti americani. «Quel bubbolìo bianco è Kabul», disse la donna con voce ferma, quasi piatta. Impossibile ricordare il suo nome, forse perché sto sprofondando nella vasca, e sono incredibilmente confuso da sostanze che devo aver preso con leggerezza, dopo averle ritrovate in un cassetto, dato che la redazione era solita spacciare per finanziare la rivista. Iniziava con la I ma doveva essere uno pseudonimo, un nome di battaglia. Ricordo i suoi capelli fucsia, appuntiti, e una tenacia nello sguardo quasi monastica. Una mente divisa tra lo studio rigoroso di lingue morte, e una passione primordiale per l’informatica e le questioni di hardware, che riparava con le sue stesse mani, senza troppi problemi. Nelle notti tiepide, sul finire della primavera, mentre ero disteso a letto e tentavo di scrivere, la sentivo rientrare nella grande casa. I suoi passi leggeri svanivano in direzione della terrazza, la finestra si apriva e un filo di vento correva lungo il corridoio, passando sotto alla mia porta. Una lettera tracciata male segnalava un cambiamento nel mio battito cardiaco, così staccavo la penna dal taccuino e la raggiungevo. Insieme, nell’oscurità della sera, guardavamo il panorama. Firenze sembrava una complessa palpebra malchiusa, da cui filtrava ancora un po’ di luce, palpebra plastica di bambola, sotto le cui ciglia di guglie e tralicci si intuiva la confusionaria, quanto impalpabile, attività del sogno. Lei fumava e mi parlava di questioni teologiche, spiegandomi come Dio fosse emerso dal codice linguistico, da un caos di segni indecifrabili. Diceva che la letteratura non è altro che il tremore dell’uomo inerme, quando in principio era così vulnerabile, soggiogato da forze più grandi, circondato da bestie feroci, dalla grandezza del cielo. «… la sua reazione si vide col tempo, e fu così spontanea, così incredibile e pura: la parola – sopravvivere dentro questa unità, lanciarsi oltre la carne che muore, oltre questo gran dispiacere… ti serve un protagonista, , un uomo che entri per te nel nero più nero mai visto, quello dell’anima della nazione, usata e gettata via con noncuranza. Non una marionetta, oh no, non il pupazzo assemblato a tavolino che tutti vogliono, o credono di volere. Ma dove puoi trovarlo?» Io capivo solo a tratti, e la sua domanda restava senza risposta. Altre se ne aggiungevano, ed erano tutte testimonianza della sua strana follia: «… non credi che una biografia possa essere definita semplicemente Rapporto termodinamico? Come se dovessimo rendere conto di come la nostra energia si sperpera tra le cose… la vita, una complicazione termodinamica.» Poi l’alba toglieva le stelle al cielo con un unico gesto, lo stesso che fa il croupier a fine mano. Il grande casinò era il mondo. Sulle strade deserte, ancora livide, gli ubriachi tornavano a casa – anche per loro la mano si era conclusa. Con coraggio la luce ingravidava il cielo, e noi la contemplavamo sbalorditi. A questo punto rivedo il profilo di I, e la immagino in piena pubertà, in quel momento in cui il corpo inizia a cambiare, nelle forme ancora acerbe si affacciano i tratti di donna, come dalla sinòpia l’affresco. Un piccolo viso indagatore, senz’altro, un sorriso un po’ vampiresco, che emerge raramente dalla sua espressione pensierosa. Poi, crescendo, la sua testa doveva essersi espansa – non tantissimo, ma quanto bastava per conferirle una vaga forma a caramella, e alla fronte la misteriosa bombatura del punto interrogativo. Infine, quasi all’improvviso, si era ritrovata ad essere molto bella. Le sue forme ingrandite si erano portate dietro l’aria corrucciata dell’adolescenza – cosa che ad alcune donne accade – proprio come l’universo, espandendosi, si porta dietro le galassie incastonate nel suo manto. Le sue labbra perennemente lucide, un po’ dischiuse, come per un incantevole difetto, e carnose. La testa piena di pensieri contrastanti, di alfabeti estinti, grovigli di simboli, e soprattutto domande, ed estreme, mentre il fucsia dei suoi capelli dissimulava e accentuava questo tormento.

Non so dire con precisione quanto tempo sia trascorso. Adesso, con la morte dell’avanguardia, il nostro collettivo ha subìto continui ammutinamenti, finché tutto il lavoro non è ricaduto sulle mie fragili spalle.

Ogni tanto ripenso a quando l’avventura è iniziata. Cos’era ad accomunarci? Tutti noi eravamo spinti dall’antagonismo verso le dinamiche commerciali, e volevamo combattere – o perlomeno ostacolare – le oscure forze capitaliste che ormai stanno comprando tutto (forse anche la grande casa liberty, ben presto, sarà trasformata in un bed and breakfast per americani annoiati, e io non potrò farci nulla). I miei compagni sono tutti lontani, hanno accettato posti di lavoro in azienda, si dedicano alla famiglia, sono andati all’estero, riciclandosi nel copywriting, oppure in altre città italiane. L’ultimo che se n’è andato, l’impaginatore della nostra rivista, siede sulla sponda del letto e mi guarda dormire. Ma io sto facendo finta, apro gli occhi e incontro il suo sguardo, che è carico di una straziante dolcezza. Ha la barba di tre giorni e una fossetta sul mento, la mascella forte, i capelli rasati sulle tempie, i dilatatori alle orecchie. Non l’avevo mai visto così, sembra più maturo, persino più grosso, e incombe su di me con la sua rassegnazione, ma senza minaccia – e mi rendo conto, all’improvviso, di assistere al momento esatto in cui transita dalla giovinezza all’età adulta, e non è un salto netto, si tratta di un continuo ondeggiare tra i due stadi, e gli si legge in volto. Mi parla come si parla il mattino dopo una grande festa, quando subentra il senso di colpa, e si vuole solo ordine, pace, tranquillità. Non ricordo le sue parole, a parte la sua ammissione di volermi bene, e una vaga quanto accorata raccomandazione di tirarmi fuori anch’io, e al più presto. Poi il rumore dei suoi stivali sulle piastrelle di cotto, lo scricchiolìo della sua giacca di pelle, la porta blindata che si chiude alle sue spalle. Resto paralizzato tra le coperte, col groppo in gola, consapevole che il mio mondo si sta sgretolando. Ho voglia di piangere, ma non ci riesco, e dalla porta socchiusa vedo il corridoio, la parete chiazzata di luce vitale, ma ancora acerba, come se stesse iniziando l’estate, o la primavera fosse al suo picco. So che c’è un treno in partenza. Forse potrei fermare l’impaginatore, parlargli, convincerlo a restare – in fondo il nostro ultimo numero non è ancora uscito, e io sto lavorando all’editoriale, e senza di lui le mie parole resteranno chiuse tra queste pareti. Ma sono legato nei movimenti, intontito, nella testa mi si confondono gli ordini che cerco di darmi. Mi resta fedele una certa oppressione all’altezza del petto, una malinconica tenerezza verso me stesso. Deglutisco.

Questo, a quanto pare, succedeva qualche tempo fa. Ora mi vedo lì, seduto a quel tavolo, nella cucina-salotto deserta, con lo stesso groppo in gola, e davanti la televisione a tubo catodico, che continua a parlare dell’avanguardia, della sua inevitabile morte, mentre gli opinionisti si chiedono in che modo cambierà il panorama culturale. Dicono: è stato un grave errore pensare di spingerci sempre avanti, sempre oltre. Dicono: adesso sarà tutto revivalismo, intrattenimento, serialità. Dicono: giornalismo, visualizzazioni, bacheche a scorrimento. Dicono: ciascuno avrà finalmente il proprio spazio, è ora di farla finita con gli intellettuali, con l’impegno. Dicono: non si uccideranno più i padri, non si sfideranno più le generazioni, perché ciascuno genererà se stesso. Mi prendo la testa tra le mani, colpito dalla forza imperativa di quegli asserti, consapevole che forse qualcosa è andato storto – solo che non riesco a capire cosa. Senza dubbio, il mio romanzo sconfinerà l’epoca, sarà fuori tempo massimo, e io assomiglierò ai giapponesi che continuavano a combattere dopo che la guerra era finita da decenni. Intorno a me, sul piano della cucina e per terra, elementi di vari collages che erano soliti realizzare gli artisti del collettivo. Ovunque guardi ci sono resti, detriti, quadri non finiti, lasciati a metà – e quindi facce di donna appena abbozzate, con solo metà volto, sequenze cubofuturiste che si interrompono, panorami delineati con la sanguigna, che resteranno per sempre a cavallo tra le epoche, in quanto nati al termine dell’avanguardia.

Ogni tanto esco, ed è sempre sera. Mi muovo intabarrato nel mio cappotto, piegato in due dal vento. Lungo il percorso costeggio insegne agonizzanti, saracinesche abbassate a metà, dietro le quali uomini loschi confabulano – e capisco che stanno per accadere cose violente, perché il crollo dell’avanguardia produce già l’irrigidimento di forze estremiste, pronte a tutto pur di portare avanti la lotta. Forse, dopo un po’, entro in un bar. Sono tutti un po’ alticci e scherzano malinconicamente, come per difendersi da un dolore troppo intenso. Si sentono colpi di stecche da biliardo, una tromba con sordina alla radio a transistor. Mi riconosce una ragazza dalla faccia infantile, una vecchia amica dell’università, e ci prendiamo una birra. Ha modi cortesi ma spicci, la bocca a cuore, uno sguardo in cui lampeggiano ancora i bagliori della militanza. Brindiamo all’avanguardia, come in una specie di perverso conto alla rovescia, mentre la strada nebbiosa, fuori dalla vetrata, ci restituisce la sua desolazione. Poi camminiamo nella notte, quasi a braccetto, e per un po’ si sentono solo i suoi tacchi nel grigiore avvolgente. I rumori della movida sono spettri in avvicinamento. Cupi, sgangherati, entrano nei nostri pensieri minandone irreversibilmente il costrutto. Per un bel pezzo non sappiamo cosa dire, non siamo dell’umore, e il frastuono aumenta. La porta di un discopub si apre a intervalli regolari, rigurgitando in strada un fumatore, e innalzando per un secondo il picco della musica. Il reticolo di strade ci inghiotte, una forza irresistibile tenta di dividerci. Adesso, intorno a noi parlano tutti inglese, ridono di battute stupide, si fanno selfie, esultano. Evitiamo balordi giocatori di football in vacanza, e ragazze dal trucco pesante – tutti ubriachi e molesti – e alla fine arriviamo sul lungofiume, ma solo per scoprire che adesso è un posto molto pericoloso. Tra i lampioni difettosi si aggirano ombre furtive. Una gang spietata ha iniziato a battere la zona in cerca di vittime. Il loro marchio: spaccare la bocca ai malcapitati, senza infierire ulteriormente né estorcere denaro. Dobbiamo quindi prendere il ponte, che assomiglia in modo impressionante a Ponte Vecchio, e forse lo è, ma non posso dirlo con certezza perché mancano del tutto le spallette, e ad un certo punto si interrompe. Sotto c’è un Arno gonfio, nero, in piena. Tra le due parti del ponte c’è un piccolo salto, una distanza quasi risibile, che persino un bambino supererebbe, ma sono come rapito da un terrore cosmico, la gravità si fa più catturante, e capisco che l’Arno mi porterà con sé, nelle sue acque luride, tra i resti di refurtive, creature mai studiate, tutta la droga che Firenze sta pisciando, e ovviamente le opere incomplete dell’avanguardia, prese e buttate nel fiume dagli artisti delusi. Forse la mia amica è già dall’altra parte, forse la vedo allontanarsi tra i faretti dei negozi…

Poi eccomi di nuovo al mio tavolo, nel grande appartamento deserto, incapace di quantificare il tempo trascorso – ma sembra molto, come se nel frattempo la mia precarietà avesse raggiunto una sua dimensione ripetitiva, liturgica. So – ed è un’altra consapevolezza quasi ovvia – che il mio tavolo ora è conosciuto a livello planetario, quasi fosse una specie di istituzione. Tutti gli ex membri del movimento sono sparsi per il mondo, eppure, misteriosamente, c’è un filo invisibile che ci unisce. Ogni tanto qualcuno appare sullo schermo, metamorfosato in vesti nuove, e discetta con tranquillità ai talk show. Non so perché, ma ho come l’impressione di essere un re in rovina. Il mio orgoglio è potente, sicuro di sé, e trova risposta nell’opinione che il mondo ha del mio tavolo: uno strano, timoroso rispetto, simile a quello che si ha per chi detiene un sapere antico. Io, però, non credo di detenere alcunché. Parallelamente, – e come in una specie di split screen non lineare ed esploso – vedo ministri, senatori, produttori cinematografici, e vecchie conoscenze, e tutti loro parlano di questo mio tavolo, soprattutto quando sono in crisi e non sanno dove sbattere la testa. Si chiedono se – per le loro questioni irrisolte – non sia il caso di sedersi qui, di parlarne con me, secondo i princìpi della critica e dell’arte. C’è anche una grande festa, da qualche parte in campagna, presso una villa molto facoltosa. Tra gli invitati, alcuni miei vecchi compagni del movimento: scivolano ubriachi nella notte, vengono scortati da un taxi, e quando si chiedono cosa fare per divertirsi, si dicono: «Perché non torniamo al vecchio appartamento?!» E così vengono a farmi visita, apro loro la porta blindata, li scorto dov’eravamo soliti radunarci, e dove io sono rimasto a scrivere. E per un po’ parliamo, filosofiamo, forse scherziamo persino, e poi discutiamo, perché – quasi esaltati – ripetono che l’avanguardia è finita, che io devo pensare a reinventarmi, a salvarmi la pelle, devo essere realista, cambiare rotta, e affermano di dirlo per il mio bene, perché mi vogliono bene. Fanno, con premura estenuante, domande su di me, sul mio stile di vita, sull’andamento del romanzo, invitandomi a considerare l’idea di smembrare il progetto, ridurlo, magari serializzarlo. Si muovono nei ragionamenti come quando ci si confronta con un pazzo, con la stessa indecente delicatezza. «All’inizio è stata durissima, che credi. Molti di noi sono tornati dai genitori. Le stesse camerette di quando si andava a scuola. Sembrava di tornare dal fronte, sconfitti, senza nulla in mano. Solo il cuore a pezzi.» «Non sei l’unico che soffre.» «Non ti daranno una medaglia per questo.» «Prima farai i conti con la cosa, meglio è.» La missione non è stata ancora portata a compimento, rispondo, ed è mio dovere concludere l’opera, a costo di dover naufragare insieme a quest’epoca. Sospirano. Provo sentimenti contrastanti nei loro confronti, perché gli voglio bene, ma non condivido nessuna delle loro scelte. Ripenso a I, alla sua caparbietà nel portare scrittori dentro il movimento, e mi chiedo dove sia finito quel grande slancio. (Sul piano della cucina, mi accorgo, è pieno di pietanze elaborate e marce, ma che in qualche modo sembrano ancora succulente.) Infine se ne vanno, contriti e sbilenchi, lasciandosi alle spalle il clangore gelido della porta blindata, e il loro nuovo odore di persone rigenerate.

Queste situazioni si ripetono con sempre maggiore frequenza. Anche gli sconosciuti capitano qui, mentre io lavoro, osservo, ascolto me stesso. «Sei tu quello dell’avanguardia…», borbottano, stupiti. Raramente colgo i loro volti, anche perché siedono in poltrona, là dove si addensa la penombra. Scrivo e piango, senza emettere un singhiozzo, e tutto a mano libera. Il mio sforzo è sovrumano, le lacrime scendono più per il dolore fisico che per la tristezza – vorrei che tutto finisse, ma non posso impormi su questo istinto. Forme sintattiche mostruose attraversano le mie arborescenze mentali, le stroncano lasciandole lì, ciondolanti e incendiate. Sono orribili grida senza struttura, vaneggiamenti da folle, pensieri destinati a regredire a forme più semplici. Eppure, quando guardo le righe, la prosa risplende di una sua forza tragica, e non assomiglia a nessun’altra cosa che io abbia scritto in precedenza. Ho fatto il salto. Le pagine sono confuse, forse piene di caratteri in lingue morte, mai decifrate nemmeno dagli archeologi, come la lineare A o l’etrusco. A tratti le righe prendono forma di simboli matematici, integrali, sommatorie, si piegano e trasformano in formule di struttura, diventano pittogrammi, rune, caratteri in cirillico, e infine un italiano sommesso e composto. Ecco cosa si ottiene a sfidare l’assoluto, mi dico. Un rantolo cosmico, uno spasmo isterico. Qualcosa che nessuno capirà mai, io per primo. Eppure, il mondo accademico è in estasi. Tutta la comunità scientifica mi sprona a continuare, ritiene questa lingua una grande conquista, e ogni tanto qualche professore viene qui a complimentarsi. Mi chiuderanno in una bella gabbietta.

Scrivo in questa semioscurità, bagnato dai riflessi della televisione muta, e persino lo scricchiolìo della penna risuona nell’enorme casa vuota, dialoga con la goccia che stilla nella vasca da bagno – una vasca dai piedini d’oro. Mi chiedo quand’è che ne sono uscito, se ne sono uscito: forse, in realtà, sono ancora immerso fino alle spalle nella schiuma, coi pensieri ottenebrati dalle sostanze. Ma all’improvviso sullo schermo compare una festa in corso: in uno studio di talk show, donne bellissime si abbracciano a grassi magnati, lingue di Menelik si srotolano in continuazione, uomini vestiti da pupazzi danzano e caracollano per terra. Capisco che l’avanguardia è morta, ma ciononostante la mia mano continua a guidare la penna. Mi sento, tutto sommato, abbastanza freddo. È una certezza sconvolgente: mi vedo conficcato dentro l’epoca come un detrito, un frammento, e ciò mi infonde una certa pace. Non tanto perché, in un modo o nell’altro, un corpo estraneo può comunque provocare l’infezione, ma perché ormai sto guardando il mio destino in faccia: se continuerò a scrivere, mi dico, io sarò avanguardia, e per sempre.

Poi un giorno mi fermo, sfoglio le pagine e comincio a rimuginare. Dopo tutto questo scrivere, ancora il romanzo non ha un protagonista. Penso a I e alla sua domanda rimasta senza risposta, e mi assale il dubbio di girare a vuoto senza rendermene conto.

Nei giorni seguenti sprofondo in cupe e complesse riflessioni. Il fumo di sigaretta sale dal posacenere, si accartoccia. Vengono al mio tavolo individui di ogni sorta, spesso vestiti bene e dall’aria scafata, mentre io me ne sto qui in vestaglia. Sui loro volti si legge una nota di educato disgusto, provocato, forse, dalla mia situazione di svacco umanistico. Vanno dritti al punto, con quell’atteggiamento aggressivo da venditore statunitense, e guardandomi nelle palle degli occhi rivelano di volermi vendere un protagonista. Credono, in tal modo, di far grande pubblicità a loro stessi, alle loro start up e prodotti, alle loro aziende impegnate nello sviluppo di tecnologie nuove, spesso eticamente discutibili. Io ascolto in silenzio, come farebbe un prete o un boss della malavita. I vantaggi sarebbero enormi per entrambi, dicono. Ci sarebbe l’opportunità di entrar nella filiera, buttar giù una sceneggiatura, dalla parola passare allo schermo, e, trovati gli attori giusti, i produttori si frugherebbero le tasche, e tu avresti un cachet mai visto per un soggettista. Rivolgono occhiate eloquenti al posto in cui vivo, accennano col mento al mio vestiario, giurano con tutto il cuore che mi lascerei ogni cosa alle spalle, perché nel mondo si stanno aprendo continue possibilità di arricchimento. «La nostra pagina sta crescendo.» rincalzano «Abbiamo bisogno di contenuti, di parole e testi che polarizzino le attenzioni.» Mi oppongo: sto progettando una forma nuova, non indicizzabile, in mezzo a tutto questo patimento. E, indicando loro il romanzo, aggiungo che anche la mia pagina sta crescendo. Compìti, e un po’ timorosi, prendono tra le mani il manoscritto, lo sfogliano lanciandomi qualche occhiata, finché non si lasciano andare e dicono: «Non credi che la situazione ti sia sfuggita di mano?» Alla fine li accompagno alla porta, e rimasto solo, provo a riordinare le idee. I miei ragionamenti assomigliano a quelli di un ufficiale incaricato di rompere un accerchiamento. Ma io non possiedo una simile pragmaticità, sono solo uno scrittore che deve vedersela col Millennio, un uomo che ha un sogno, o meglio, incaricato di una missione fuori tempo massimo. Un tizio ben conscio dei propri limiti, e quindi capace soltanto di continuare nel proprio gesto.

Nei primi caldi serali, a torso nudo sul divano, penso alla donna che mi scelse. I fari delle auto tigrano il soffitto, la sigaretta si consuma, gli sbandati in strada rompono bottiglie. Mi chiedo dove sia, e la immagino in tailleur e tacchi alti, intenta a salire i gradini d’entrata di una qualche sede centrale, un edificio stile Bauhaus, sovrastato da un cielo metallico. Sulla facciata principale svetta il logo di una famosa piattaforma, magari una N rossa, e basta vederlo perché i neurotrasmettitori del piacere si accendano. Lei passa le porte scorrevoli, i controlli della portineria, striscia il badge al tornello, e infine raggiunge la sala riunioni, dove l’attende una squadra di sceneggiatori assai esperti, assai pagati, tutti pronti a soddisfare l’immensa richiesta di intrattenimento del pianeta. Forse, sul loro tavolo, viene depositata una cartellina trasparente, al cui interno alloggiano sei paginette – lo scarno riassunto del romanzo al quale sto lavorando. E lei, non più cyberpunk, anzi truccata in modo quasi classico, con labbra fiammanti e lunghi boccoli, a quel punto sentirà la gola chiudersi, e si accorgerà che qualcosa è andato storto – ma non capirà bene cosa. Avrà come l’impressione che la ruota del tempo abbia fatto il suo giro, come un grande bastimento che arriva in porto, la chiglia incrostata di alghe e molluschi, i marinai impazziti. No, non mi convince. Anzi, forse è tutto l’opposto. In questo esatto momento I se ne sta distesa a letto, in una delle tante stanze in affitto in cui la gente di solito passa e va via. Lei, invece, disorientata com’è dalla morte dell’epoca, è rimasta incastrata tra quelle quattro mura, il braccio che sporge mollemente oltre il bordo del materasso, quasi stesse facendo naufragio su una zattera. Il cellulare che vibra a vuoto, perché lei non vuole più sentire nessuno, tanto profondo è stato il trauma dell’avanguardia morta. Deve aver subìto anche una drastica trasformazione fisica, e la ripercorro al ritmo violento del timelapse filmico: le punte dei suoi capelli che si afflosciano, il fucsia che sbiadisce, e lascia pian piano riemergere il castano sottostante, persino i lineamenti perdono la spigolosità determinata dalla lotta, quella tensione necessaria a chi persegue un sogno, e nel suo svanire dev’essersi portata via anche gli ultimi residui di adolescenza, lasciandole un viso atono, quasi sperduto, impegnato a rimbalzare qua e là nella folla. Adesso è lì, su quel materasso. Il soffitto che all’improvviso sembra altissimo, e stretto, e una finestra che si affaccia sull’oscurità di una periferia gigantesca, mal collegata al centro e desertica, costituita da tozzi cubetti condominiali, sparpagliati con gesto distratto dalla mano del comune. Come me, anche lei guarderà i fari delle auto di passaggio, su quel soffitto stretto, sempre più lontano, in questo smisurato attacco di panico che ci unisce – scavando la sua scorciatoia nello spaziotempo. Tutto intorno, la notte, che stavolta affronterà da sola. Come del resto farò io. E questo è tutto ciò che può insegnarti un sogno, mentre ti affoga.
Niente è più inaccettabile di questo, penso. Se penso.

Di mattina, cerco di organizzare i miei pensieri, e intanto sfaccendo, vago nella cucina-salotto, scongelo per colazione una mattonella di lasagna, che mangio avidamente davanti alla televisione, mentre scorrono immagini di metropoli cinesi in pieno sviluppo. Il cielo sopra Firenze è smorto, bianco, e lo ammiro con la coda dell’occhio.
Poi sento l’eco non troppo distante di una folla, apro la finestra, e infine scopro un corteo di manifestanti, tutti impegnati in una grande protesta. So che è una non meglio specificata “contestazione del Millennio”. Nei fatti è un fiume in piena, che scorre, nemmeno troppo lento, riempiendo tutta la strada. Agitano le braccia, alzano striscioni e cartelli, i loro cori sono assolutamente indecifrabili. A un certo punto alcuni si accorgono di me, si fermano e mi salutano. Il loro numero aumenta, finché non si forma un pubblico, e io mi sento un po’ come il papa il giorno dell’Angelus. Sono tutti per me, vogliono che io scriva il romanzo, e per questo mi incitano, applaudono, cantano. Io li saluto, imbarazzato, e mi rimetto al lavoro. Gridato dalle loro gole, il mio nome diventa quasi il ritmo martellante di un rito tribale, il cuore batte all’unisono con le parole, chiudo gli occhi, sorrido, sentendomi davvero uno sciocco – mentre i loro incitamenti si fanno sempre più esaltati e trascinanti.

Illustrazione di Eduardo Ramón

Get up, stand up. Una storia d’amore | Andrea Frau

Jin conobbe Irene in negozio. Lì ci passava dieci ore al giorno, non avrebbe potuto conoscerla in un altro posto. L’attività, classico negozio di cinesi, era della sua famiglia. E per famiglia s’intende padre, madre, fratelli, zii biologici e non, inclusi vari cugini, in senso molto lato, come chiosava sempre lui.

Il fatto che lui uscisse con una ragazza italiana non era visto di buon occhio dalla famiglia, genitori in testa. Jin si vedeva con l’italiana magra, come la chiamavano i suoi, dopo lavoro. Rimanevano a chiacchierare in macchina anche fino all’alba. Quando bevevano un po’ più del solito lei provava anche ad abbozzare qualche frase in mandarino, per lei era facile parlare d’amore, perfino in quella lingua straniera, lui invece faceva fatica, non aveva ancora trovato una lingua adatta ai suoi sentimenti. Il cinese era la lingua del rifiuto, della rabbia, l’italiano quella del sarcasmo e del disincanto. Quando lui arrivava a lavoro, sbattuto, con gli occhi pesanti, la madre lo guardava come se quello fosse il ritratto della vergogna. Vergogna che avrebbe disonorato tutta la famiglia, compresi i cugini in senso lato, per chissà quanti secoli.

Irene studiava lingue orientali, per cui lui, scherzando, le diceva che la loro più che una relazione sembrava un tirocinio. Quando ci lasceremo ti spetteranno 6-7 crediti, la scherniva. Lei dopo la laurea avrebbe voluto andare a Shanghai per imparare sul serio la lingua e questo fatto era motivo di liti. Era ironico come un ragazzo che aveva rinnegato le sue radici fosse innamorato di una ragazza occidentale che recitava Confucio e praticava tai-chi. A Confucio preferisco Osho o Coelho e al tai-chi il wrestling in TV, ghignava lui. Quando lo diceva si immaginava la statuetta di Mao piangere sangue e ne provava sadico piacere. Lei metteva il muso quando lui esagerava, ma lo giustificava, trovando tenero quel disincanto un po’ malinconico. Mettiamola così, io ho eretto una grande muraglia e il tuo amore mongolo cerca di espugnarla, ironizzava Jin.

Irene aveva ancora le cuffie che comprò il giorno che si conobbero. Cuffie che, dopo un anno, sorprendentemente, funzionavano ancora. E allora pensò che tutti gli oggetti, come gli amori giovani, sono delicati ed è il modo in cui te ne prendi cura a fare la differenza. I ragazzi pensavano al loro amore come a un’efemera contro natura.

Le loro conversazioni erano incontri di lotta, parevano una sitcom. Si divertivano a inscenare piccoli scontri di civiltà, amavano punzecchiarsi e, visti da fuori, erano molto divertenti.
Tu mi hai trovato in questo negozio nel reparto cinici asiatici venduti all’imperialismo americano. Non posso che essere merce scadente.
Veramente le mie cuffie funzionano ancora.
Ma non pensi al male che fai al made in Italy?
Non fornisco il mio utero alla patria, non sei l’unico traditore, evidentemente.
Non so manco io chi sono. Sono una volgare imitazione di un italiano, una cineseria senza valore.
Sentire dire cineseria da te è come vedere Primo Levi che distribuisce I Protocolli dei Savi di Sion.
Cerco di copiare malamente le emozioni di voi italiani, faccio del mio meglio.
Ma smettila, con me non attacca. Ti ho visto commuoverti ascoltando Il negozio di antiquariato di Niccolò Fabi.
Dopo la via cinese al socialismo, spero ci sia anche una via cinese al romanticismo.

Jin era l’unico in famiglia a parlare correttamente italiano, leggeva molto, fin da piccolo, fumetti Marvel, libri d’avventura, amava Benni e Pennac, il neorealismo italiano e covava un’insana passione per i cinepanettoni. Quest’ultimo piacere proibito, vezzo ostentato di libertà e rivolta, vessillo di individualismo occidentale, non si sa quanto fosse sincero o politico. Amava presentarsi come l’unico bambino cinese ad aver apprezzato Mulan. E per questo da piccolo sognava i guerrieri di terracotta marciare minacciosi verso di lui.

Era in Italia dalle scuole elementari e, da quando aveva memoria, aveva sempre sognato di mollare il negozio e scappare via. In serie aveva pensato di: intraprendere una carriera da rapper, fare il gamer professionista, lo youtuber, il giocatore di poker online, il broker cinico e nichilista: tutti progetti abortiti sul nascere. Nella mia testa vige la politica del sogno unico, finora ho abortito già quattro, cinque sogni. Una testa sgombra da sogni è più lucida e produttiva, diceva facendo la caricatura del ligio funzionario comunista. Ma c’era un sogno, inconfessabile, che era scampato alla sua politica repressiva: la stand-up comedy. Gli sarebbe piaciuto parlare della sua famiglia, di come si sentisse un alieno, di quanto non sopportasse la cultura del sacrificio dei suoi, il loro senso del dovere, ma anche dei pregiudizi sui cinesi e del vuoto morale dei suoi coetanei che tanto invidiava. Sarebbe stato il primo comico italo-cinese: si immaginava come un pentito di mafia con la voce contraffatta. La stand-up comedy per un cinese era impensabile, era l’equivalente morale di una manifestazione a Tienanmen di tibetani omosessuali capitalisti. La comicità che aveva sentito in patria non andava oltre gli equivoci linguistici o i giochi di parole, anche molto raffinati. Ma mai nulla che contestasse l’autorità o mettesse minimamente in discussione lo status quo.

Jin non sopportava l’idea di sacrificare la sua individualità per il partito, la famiglia e, ora capì, neanche per l’amore. Irene non lo vedeva come un sacrificio, ma come una scelta. Non capiva quel suo modo di ragionare così drastico, pensava che in una vita c’è spazio per tutto, e che se proprio uno deve rinunciare a un po’ di sé, quale causa è migliore dell’amore? Probabilmente Jin non era così innamorato.

Una sera, in macchina, ebbero l’ultimo litigio. Irene perse la pazienza e sbottò: Da soli, siamo tutti prodotti difettosi, inutili, un senso lo troviamo solo insieme. E noi due, brutto coglione, ci siamo trovati anche se tu vuoi distruggere tutto. Perché ti fa paura avermi trovato, ti terrorizza amare qualcuno, l’unica cosa che sai fare è fare commentini sarcastici per ostentare distacco, ti piace stare sul tuo piedistallo. Pensi di non essere in grado di amare e soffrire come tutti, di non poterlo sopportare o di non meritarlo? Ma una volta demolito tutto, cosa ti rimane? Resterai da solo, te lo dico io, e l’ultima cosa da distruggere sarà te stesso.
Bel monologo, lo puoi rifare però urlato? Così lo vendiamo a Muccino.
Irene sorrise amareggiata, si ricompose, pensò che lui non meritava più la sua rabbia, gli chiese di scendere dall’auto e da quel giorno smisero di sentirsi.

La ragazza aveva sua madre, le amiche, le colleghe; Jin era solo, come aveva sempre desiderato. Anche lui pianse, stette male, certo, ma sdrammatizzò subito e uscì dalla stanza canticchiando con un cuscino sulla faccia penso a lei ascoltando al buio, F. De Gregori. Il trucco per non soffrire era sentirsi distante dalla sua specie, guardarsi da fuori e rifiutarsi di perpetuare ridicoli cliché. Che quei cliché, banalmente, fossero quello che ci rende simili e umani, a lui pareva non importare.

Il giorno dopo la madre accusò Jin di aver rubato dei soldi dalla cassa. Il ragazzo non negò nonostante non c’entrasse nulla. Si prese addosso tutte le ingiurie del caso con conseguente melodramma famigliare e andò via di casa. Quell’accusa per lui fu una benedizione, l’ultima spinta che gli serviva.

Una sera Irene, uscita con le colleghe di corso, si era ritrovata in un locale che non conosceva. Una persona all’entrata spiegò ai ragazzi che era appena iniziato uno spettacolo comico. Lei chiese: Rimaniamo? sperando in una risposta negativa. Tutti dissero di essere curiosi ed entrarono. Il locale era pieno, avevano trovato gli ultimi posti.

Meglio mangiare carne di cane che il corpo di Cristo. Irene sussultò, conosceva quella battuta.

Sul palco vide Jin. Non lo vedeva da tre anni. Jin era palesemente brillo, sembrava a suo agio, con quella sua solita aura decadente.

Jin parlava a raffica, il suo italiano perfetto, ogni tanto zoppicava per la foga e per l’alcol. Si esibiva come se tutta la sua famiglia fosse in prima fila ad ascoltarlo. Era un’epifania, uno contro tutti, da solo contro i suoi fantasmi. Si fermava solo per un sorso di birra. Calibrava bene violenza verbale ad attimi di tenerezza molto buffa. Un po’ terrorista, un po’ poeta. Dolce stilnovo e sesso anale, avrebbe detto lui.
Ridevano tutti, stava andando bene e lei ne fu contenta. I loro sguardi si incrociarono, lui tentennò per un attimo. Poi continuò.

Illustrazione di Sergio Ingravalle