Tina | Roz Catone

Attraversa i binari della Circumflegrea e passeggia su via delle Colmate. L’aria sa di Fostok. Un bambino, in un orto dietro a una baracca, con una pompa a zaino tratta alberi di ciliegi. Si guardano. Lei a momenti calpesta un gatto morto in una buca. Manto nero, interiora da fuori, mosconi.

Fuori servizio

Compongo il numero, dall’altro lato il cellulare squilla cinque o sei volte.
– Pronto.
– Dino, sono Gabriele.
– Dimmi.
– Sì… la chiamo per…
Conversare è impossibile. Il sottofondo è un frastuono di piatti e bicchieri scaraventati per terra. Immagino quei cocci che si frantumano e si ricompongono, tornando di nuovo al posto loro. Tac, tac, tac.
– Con chi parli? –  gli chiede qualcuno al suo fianco.
– Non lo conosci – risponde.
– Passamelo! – riferendosi a me.
– Mirko, per favore… – sbuffa.
– Dammi qua, cazzo! – gli strappa il cellulare di mano e si rivolge a me: – Ti pare giusto che torno a casa e papo non mi fa trovare il pranzo?
Il mio orecchio destro è in preda a un ronzio metallico del tipo zing zing zing. Non so rispondere. Resto lì fermo a mordermi il labbro di giù. Lo sguardo inchiodato al cactus sul balcone.
– Mirko, basta! – grida, riprendendosi il cellulare.
– Devi scusarmi. Sai, mio figlio ha carattere – mi dice.
La parola carattere di colpo assume un’accezione indecifrabile. “Non si preoccupi” è l’unica frase che riesco a pronunciare.

Circumvallazione esterna.
Ventidue ore prima la sua Hyundai Matrix aveva colpito frontalmente la mia Polo di terza mano. Il paraurti diventò concavo, mentre nubi dello stesso colore del piombo erano pronte a gettare acqua su di noi. Col cuore impaurito scesi dalla macchina. Lui avanzò verso di me rabbioso; gli mancava il pollice. I clacson strombazzavano e i guidatori mandavano bestemmie.
Dino, alla vista del danno, sparò un “porca puttana!” Seguì un dialogo confuso su chi avesse torto o ragione e, dopo qualche affronto malcelato da parte sua, ci scambiammo i numeri di telefono.
– Dopo Natale ripago il danno! Hai la mia parola d’onore.
– Ma…
– Niente ma! –  fa lui.
– La sua macchina non è assicurata! – gli dico.
– Parola di maestro di techendò. Perciò, stai tranquillo – replica lui.
– Ah, è maestro di techendò?
– Mi trovi alla palestra Il Cigno bianco dal lunedì al venerdì.
– Come?!
– Quella in via Artiaco. Non l’ha mai sentita? È famosissima… Ora devo attaccare, Mirko ha bisogno di me.
“Il cigno bianco… Gesù!”

La parola carattere di colpo assume un’accezione indecifrabile. «Non si preoccupi» è l’unica frase che riesco a pronunciare.

Di piante grasse ne è pieno l’appartamento, una passione della mia compagna, Arianna. È convinta che diano un tocco esotico all’ambiente, eppure su di me fanno un effetto diverso. Cactus e Tacitus bellus e Crassula, mostri affamati con denti aguzzi pronti a staccarti un braccio. Quando rientra provo a raccontarle dell’incidente, ma mi risponde con modi distratti: – Ne parliamo a cena amorino… –  fa con la gomma tra i denti. E va in questo modo: decine e decine di selfie, lei e la nuova pianta tutte spine, minuscola creatura d’autentica e rara bruttezza.
Fatico a restare qui. Esco.

Ritorno che fuori è notte.
– Ciao.
– Ciao.
Arianna è seduta sul divano con le gambe incrociate a fare da piano d’appoggio al Mac.
Scorre lenta la home di Facebook finché si concentra su una notizia: trattiene un sorriso tra la meraviglia e l’inquietudine.
Lancio un’occhiata allo schermo e accade l’inverosimile. In tuta da techendò, attorniato da un gruppo di allievi, si destreggia – in movenze che non sarei capace di descrivere nei dettagli – un uomo di statura media, alquanto rotondo. Ha l’aria del pesce palla. Cerco di intravedergli il pollice. Non c’è. Sobbalzo. È proprio lui, Dino.
– Che storia… –  dice sottovoce Arianna.
– Lo conosco!
– Chi?
– Quel tizio nella foto.
– Seee…
– È il tipo dell’incidente!
– A cosa ti riferisci?
– Stamattina. Ricordi? Tentavo di spiegarti… –  mi affanno.
Cerco una via di fuga. Inquadro l’ingresso del balcone e quel maledetto cactus esclude il mio sguardo dal quartiere.
“Perché devo sempre ripetermi, perché?!”
– Ti senti bene?
– Ari, parlami dell’articolo.
– Non capisco… quale incidente?
– Ti spiego dopo.
– Sei pallido.
– Che dice quel cavolo di articolo?
– Stai diventando ostile. Non mi piace.
– Va bene – tiro un sospiro profondo.
– La vuoi una tazza di latte e cioccolato?
– Chi sono? Tuo figlio?!
Non mi rivolgerà la parola per il resto della serata.
Vado in camera da letto.

Mi collego a Facebook alla ricerca della notizia.
“Due dodicenni tengono in ostaggio il Despar di via Trencia. Uno dei baby banditi, Mirko Gallucci, ha fatto irruzione armato di fucile subacqueo, trapano a batteria legato sulla schiena e, attorno alla vita, petardi Cobra 11.”
– Il figlio di Dino?! – penso a voce alta.
“La complice, Ginevra Taddeo, sua compagna di banco, trascina una piccola bombola del gas collegata a cannello lanciafiamme su un carretto Ikea.” “Lei, costume da principessa e scarpe bianche con zeppa. Lui, tuta mimetica e smiley cucito sul berretto.”
“Piuttosto stravaganti” li definisce il giornalista.
Chiudo Facebook.

Il silenzio del quartiere entra in camera. È l’inizio dell’inverno. Esco sul balcone stando attento al cactus; su via Terracina non c’è essere umano, le saracinesche abbassate, le panchine vuote.
Arianna si è rinchiusa nello studio, ci dormirà. Fa così quando litighiamo. Quella stanza piena di libri diventa il suo rifugio. Il letto a due piazze senza di lei sconfina nei meandri della periferia. Una paura leggera s’arrampica fino al diaframma, il respiro retrocede.
“Vuole un figlio da me. Per quale motivo? Farei pena come padre.”
“Perché ti ostini Arianna? Non te l’ho mai chiesto. La tua è presunzione di riuscire a cambiarmi. Ecco cos’è. Devo smetterla con questi pensieri.”

“Uno dei baby banditi, Mirko Gallucci, ha fatto irruzione armato di fucile subacqueo, trapano a batteria legato sulla schiena e, attorno alla vita, petardi Cobra 11.”

Non riesco a dormire. Ritorno su Facebook alla ricerca di aggiornamenti in diretta. Nuove foto compaiono sulla pagina del quotidiano online, perlopiù macchine di carabinieri, mezzi dei vigili del fuoco, un’ambulanza.
“Guardia giurata ferita gravemente.” “L’uomo si trovava al supermercato per comprare delle uova. Ha provato ad affrontare il baby bandito e lui ha reagito con il fucile da sub: l’arpione si è conficcato nella spalla trapassandola. Sulla fronte della giovane guardia, a macchiare uno smack verde fluo stampato sulla guancia probabilmente da Ginevra, è il sangue che scorre da un’incisione: la scritta FUORI SERVIZIO che i due baby banditi hanno procurato all’uomo con un semplice taglierino, prima di spingerlo giù per le scale fino all’entrata del supermercato.”

Mi alzo in piedi, infilo jeans, camicia e giacca, le scarpe sull’uscio della porta. Bevo qualche goccia d’acqua. Ho l’atteggiamento di chi è diretto a un appuntamento senza invito. Non so che fare, ma la smania mi spinge ad andare.
L’auto di Arianna è parcheggiata dopo il campo da basket. Trecento metri verso est. Accelero il passo alla vista di un personaggio poco rassicurante appoggiato al palo della luce. Lancia un’occhiata così terribile che un brrr mi sale lungo tutta la schiena. Col polso della giacca asciugo il parabrezza umido.
Sarò di ritorno prima che Arianna si svegli, il supermercato non dista molto. Lascio le case bianche rettangolari dietro di me, riflesse negli specchietti della Peugeot. Imbocco il tunnel illuminato da luci arancioni, ai suoi lati cumuli di immondizia e chiazze di fango si perdono nella notte. Sbuco su via Trencia, il rettilineo ai piedi di Monte Sant’Angelo. Da queste parti ci venne a vivere mio padre dopo che la mamma lo cacciò di casa. Lei ripeteva sempre “Laggiù le puttane vanno a buon prezzo”; l’aveva trovato a letto con la nipote. Non ebbe il coraggio di chiedere il divorzio. Prese le sue cose e andò via.

Al mio arrivo uomini in divisa vagano in modo confuso tra gruppi di persone avvinghiate alle transenne. Mi faccio largo tra quei corpi, quando una vecchia d’improvviso mi tira a sé: – È impazzito, tale e quale alla mamma. Anastazja del quinto piano… manco un mese fa il marito, Dino, l’ha fatta ricoverare. Scriveva dappertutto VI UCCIDO. VI UCCIDO TUTTI!
– E mica solo questo! – aggiunge un ragazzo, secco e cupo – La notte girava nuda, ubriaca, in mezzo alla strada. Quel bastardo di Dino, il maestro di techendò…
– Cosa ha fatto? – chiedo io interrompendo il suo discorso.
– Insieme ad Alfredo gestisce il giro di puttane della zona. Poca roba, sia chiaro, sono due falliti. Tossiche, minorenni, qualche polacca. Alfredo po’ è il papà di Ginevra. Quell’altra che si è rinchiusa lì dentro con Mirko. Ho il binocolo, vuoi guardare?
Mi gira la testa. In bocca ho il sapore della ruggine. Inchiodo i piedi sull’asfalto e…
– Ciao, ciao, ciao! –  Mirko irrompe cattivissimo dagli altoparlanti.
– Eccolo! – dice la vecchia di prima, avvolgendosi nel suo scialle.
Cala il silenzio.
– Ora devi guardare, ora! – suggerisce con tono fermo il ragazzo secco e cupo.
Avvicino il binocolo agli occhi.
Mirko si prepara a eseguire il suo proclama, stando su una cassetta ribaltata. Non avevo mai visto un volto tanto armonioso e diabolico al tempo stesso. Lo sguardo pieno d’odio, dai lineamenti aggraziati, si perde nella luce dell’alba color rosso bruciato.
Riesco a intravedere Ginevra e qualche ostaggio solo all’attivazione di due fari che illuminano l’intera facciata del supermarket. Lei ha il costume da principessa, lunghi capelli le cadono sul viso di cerone bianco, occhiali bui, il viso spigoloso, inclinato di traverso. Seduta sul banco cassa, sorveglia la fila di ostaggi legati con nastri e fiocchi. Tra le mani, ben impugnato, il cannello lanciafiamme.

Non avevo mai visto un volto tanto armonioso e diabolico al tempo stesso.

– Noto con piacere la presenza del sindaco Gegè Colella – osserva Mirko.
Un faro si scaglia sul primo cittadino. Ha le spalle coperte da una mantella per proteggersi dall’umidità, la pancia grassa appoggiata sulle cosce.
– Cos’è che vuoi? – chiede il sindaco.
Alla domanda, Mirko inizia a ridere e a saltellare.
– Quanto sei un lurido e viscido porco bacucco! – Mirko strilla nell’altoparlante.
Si porta le braccia ai fianchi, poi, con calma scartoccia un mini pandoro Bauli, gli dà tre morsi voraci e getta lo scatolino per aria.
– Lo show non è di vostro gradimento? – rivolgendosi alla folla – E come darvi torto! Voi, genti illustri, siete abituati a ben altro… e io, chi sarei? Un matto!
– Mirko! – la voce di Dino echeggia strozzata.
– Papone!
– Figlio mio!
– Maledetto tafano! Dov’è la tua sgualdrina dell’est?
– Che vai dicendo? – esclama Dino a braccia spalancate.
– Falla finita, trippone. Qui sanno chi sei! Vero? – chiede a noi altri.
Scende dalla cassetta capovolta e siede sul banco cassa vicino a Ginevra. Lei gli sorride complice.
Intanto, un vecchio in smoking, accompagnato da una ragazza, si avvicina a Dino.
Mirko riprende il discorso: – Non c’è magnificenza, miei cari. Nessuna meraviglia su questo finale, né una dolce colonna sonora. Non temete, lo show sta per terminare. Sarà la realtà a punirci! Beāti possidentes! Chi è in possesso del bene è in vantaggio!
Ginevra si appoggia a lui. E i boom bam boom delle forze speciali esplodono insieme ai flash accecanti.
Ho un tremore alle gambe. Il binocolo cade a terra. Dino si piega su se stesso aggrappato al braccio di quel vecchio. Tra il panico generale del formicaio impazzito, qual è ora il parcheggio del supermercato, provo ad avanzare. Una guardia mi bracca. Dietro di me ricompare il ragazzo secco e cupo.
– È lui Alfredo – mi dice.
Mi svincolo dal carabiniere e arrivo davanti al vecchio. Ci guardiamo. “Papà” dico in mente.
Prima Mirko, e dopo Ginevra, vengono trascinati fuori dal supermercato in manette. La gente applaude e fischia all’unisono, qualcuno piange. Arretro, ho conati di vomito e sudo freddo.
“Papà”, ma lui non può sentirmi, né mi ha riconosciuto.
– Ginevra… Mirko.
Il cellulare inizia a squillare: è Arianna.

Fotografia di Philip-Lorca diCorcia

 

L’insetto nella pancia

Ho una formica impazzita nella pancia, una scheggia, su e giù da mattina a sera senza darmi pace. L’ho detto a Umberto e lui ha risposto:
– Ma va’! È tutta una fissa – e mentre lo diceva, guardava con aria da lupo le cosce di una donna seduta al bar Centrale. Gli sono sempre piaciute le bionde dalla pelle chiarissima e, quando ne incrocia una, non si capisce più niente. Ma non è di Umberto che scriverò, né del suo intercalare – fissa – che usa in maniera impropria fin dal liceo.
Dopo il bìtter e vodka delle 18:40 prendo la linea 1 diretto al mio quartiere. Uscito dalla metro, compro al “Flor do cafè” una confezione di tre bottiglie da 33 cl più una sfusa e, arrivato in casa, metto a cuocere le costolette in padella coi peperoni avanzati da mezzogiorno, poi accendo la tivù. Dò un’occhiata alla stanza, al pupazzo John e piglio a fare zapping correndo dietro ai canali del digitale terrestre.

Ho una formica impazzita nella pancia, una scheggia, su e giù da mattina a sera senza darmi pace.

La sveglia suona alle 6:00. Non appena in piedi, vado al cesso a pisciare e mi butto sotto la doccia. Il getto d’acqua è bollente, gli occhi sono chiusi… Finché il mio vicino Skùnz non riparte con la sua lagna: ha preso la bronchite e bestemmia la Madonna. Il suo vero nome è Antonio e, per qualche ragione a me ignota, tutti lo chiamano Skùnz. Gli si è rotta la macchina, una scassatissima Ford Fiesta del ’99.
– Non la riconosco più, sulla tangenziale andava a strappi. Stamattina se non la finisce devo portarla dal meccanico… ed è caro! – grida dalla finestra, mentre raccolgo le mutande asciutte sul balcone. 
Skùnz va in giro in vestaglia, Nike ai piedi forse numero 41, un peruviano mimetico stretto in testa e puzza da vomitare.  Così gli faccio ciaociao aprendo e chiudendo la mano, col volto girato pur di non sentire. 

Torniamo però alla sveglia delle 6:00. Apro un libro a caso e leggo una pagina o due, Storia della mia calvizie, un regalo di Umberto. Lo scrittore è Marek Van Der Jagat, pseudonimo di Arnon Grunberg, l’autore di Lunedì blu. La storia è: Marek, un adolescente bello e colto, alla ricerca del proprio posto nel mondo, spera di diventare un gran poeta, scrivendo versi alla Paul Celan e sogna l’amour fou. Stando alla quarta di copertina, «un destino beffardo l’ha reso calvo precocemente e l’ha dotato di un pene ridicolo, di dimensioni insignificanti che suscitano l’ilarità di due belle turiste lussemburghesi. Ne deriva un tentativo di ridimensionarsi al nano che sente di essere». 
Ho iniziato a leggere il libro la sera stessa e dopo dieci pagine sono arrivato alla conclusione che aveva un pessimo ritmo. L’ho chiuso e ho lasciato perdere.
Proprio Storia della mia calvizie doveva scegliere? Di certo c’è di mezzo il libraio. Conosco il posto dove l’ha comprato e conosco i modi di quel ragazzo col baffo arricciato. Uno di quelli che ti viene incontro in cerca del padrone e con la scusa del libraio amico se non stai attento ti ritrovi un ricettario nello zaino.
Mentre mi vesto mi torna in mente la faccia a oblò di Gianni, l’amico mio e di Umberto. Dall’appartamento di Skùnz si sente un boato accompagnato da una bestemmia stratosferica. Lì ricordo di avere un appuntamento con Gianni. Cazzo, sono in ritardo.     

Uno di quelli che ti viene incontro in cerca del padrone e con la scusa del libraio amico se non stai attento ti ritrovi un ricettario nello zaino.

Al bar ordino un caffè corretto all’anice e una brioche. Devo chiamarlo cornetto e non brioche. Silvia, la cassiera, ha un muso lungo da intristire un gruppo di clown.
– È questo vento, sai… il cielo nero… – dice con lo sguardo basso, rivolgendosi al collega.
– Oppure hai un insetto strafatto di crack nello stomaco – le rispondo, fissandola negli occhi.
– Come?
– Non hai mai sentito parlare della formica? 
– Ora non c’ho tempo. Domani mi spieghi meglio. Ok?           
Prendo lo scontrino ed esco. 
Il vento forte alza nubi di polvere amara. La linea 1 passa fra quattro minuti, la folla si vede dalla rampa delle scale e gli unici a sprizzare gioia sono tre bimbominkia e due venditori porta a porta Folletto. Il resto dei pendolari ha le borse sotto gli occhi e un’aria assonnata, ognuno perso sul proprio smartphone. Un ratto di 230 g saltella sugli ultimi scalini, dribbla una donna in tailleur e si fionda in mezzo ai binari. Allo stesso momento un uomo cerca di parlare al distributore automatico, spera che gli regali un pacco di Baiocchi e una giovane donna secchissima grida al suo compagno di voler morire ora. Le guardo le pupille e ci vedo due profondi buchi neri. L’arrivo della metro ci spinge tutti verso un’unica direzione. La formica risente del brusìo e si avvinghia all’altezza dell’ombelico, un colpo sinistro piega gli addominali e stringe fortissimo.
“Maledetta! Fatti vedere!”. La sfido e quella manco per il cazzo, continua indisturbata il suo movimento. Passo tra la folla, mi appoggio a un palo e ricordo una vecchia lezione di teatro al Senzanome. 
– Mettete la gamba destra in avanti e non vi stende neppure Mike Tyson – ripeteva il maestro.

Teme gli ascensori, i tunnel, i cavalcavia e la metro. Pure i risciò.

Attraversiamo piano la via, Gianni si aggrappa al mio avambraccio e mi vien voglia di staccargli le dita una a una.
– Possibile? È un anno che stai sdraiato sul sofà di quel… Come si chiama? – gli chiedo dopo otto passi e mezzo.
– Sigfrido.
– Non ci credo. Sigfrido.
– Lascia stare…
– Quanto lo paghi?
– Dai…
– Dì!
– Novanta euro a seduta. Ma non sto sdraiato sul sofà.
– Novanta euro e non ti stendi? Con questi soldi potremmo trovare attrattive migliori.
– Ah. Dimmi di te, piuttosto.
– Nulla, a parte il ritorno dell’insetto!
– Sul serio?
– Eh…
– E il tuo psicologo che dice?
– Che è tutto a posto. Lunedì ha calcolato il tema natale, ho una luna non so dove. Una casa… boh.
– Ma è Cristiano?
– No, quello ha lasciato moglie e figli, vive in Groenlandia e dà la caccia alle foche. Questo è nuovo.
– Dove l’hai trovato?
– Al Cioccovillage di novembre. Voleva offrimi un gianduiotto, una cosa tira l’altra e mi sono ritrovato il suo biglietto da visita tra le mani.
– Grande!
– Già.

Scendo a “Università”, l’aria sa di nafta e carbone bruciato. Gianni è dall’altro lato della strada e aspetta, lontano dalle auto, dai bus e da qualsiasi altro veicolo. Teme di essere investito. Teme gli ascensori, i tunnel, i cavalcavia e la metro. Pure i risciò.
È stato lasciato dalla fidanzata Marica e sta male. Gianni ha trent’anni, disoccupato, laureato in giurisprudenza, tifoso dell’Inter, profilo Facebook senza foto. Ci salutiamo, ha quella sua mano sudata che a me fa assai schifo. 

– Dove l’hai trovato?
– Al Cioccovillage di novembre. Voleva offrimi un gianduiotto, una cosa tira l’altra e mi sono ritrovato il suo biglietto da visita tra le mani.

– Qual è il tuo ascendente? – chiede curioso.
– Leone.
– Marica era Leone, te l’ho mai detto? –dice, euforico.
– No, l’avevi tralasciato, Gianni. Però evitiamo di parlare ancora di Marica.
– Non mi sopporti.
– Cosa c’entra!
– Puoi dirmelo. Non mi importa del parere degli altri. Solo di Marica!
– Ma come?
– Stanotte ho rifatto lo stesso sogno! – stringe i pugni.
– Quello dell’orgia?
– Sì! E c’era uno nuovo.
– Chi?
– Un nano! Un nano di merda dal pene gigante.
– Guarda le coincidenze! – mi piglia una risata che lo innervosisce.
– Hai fatto lo stesso sogno anche tu? O sai qualcosa su Marica?
– Macché…
– Rispondi!
– Leggevo un libro questa mattina, niente di importante. Dobbiamo attraversare.
Mi fermo all’altezza delle strisce pedonali. Lui no, prosegue diritto uguale a una locomotiva bendata.
– Gianni!
– Vado di là, che vuoi?
– Ricominci…
– Non posso, proprio non posso.
– Fermati.
Lo tiro a me e torniamo indietro.
– E io che pensavo di averti ritrovato meno pallido del solito.
– Sì, ho fatto una lampada a metà.
– Da quando ti fai le lampade, Gianni?
– A Marica piacciono…
– Santoddio! Attraversiamo, è verde.
– Ti ho detto che non posso.
Non c’è nulla da fare, si abbraccia al palo del semaforo. A guardarlo sembra un polpo avvinghiato alla preda.
– Di cosa hai paura? – gli dico.
– Tu sai storie di Marica che non vuoi dirmi… – sostiene, furibondo.
– Cosa stai dicendo?
– Sì, sei un infame.
– Ahhh! Porca troiaaaa! – grido piegandomi su me stesso.
– Non ti senti bene? Cos’hai? – chiede lui, apprensivo.
– È l’insetto! Si sta di nuovo ribellando.

– Non ti senti bene? Cos’hai?  – chiede lui, apprensivo.
– È l’insetto! Si sta di nuovo ribellando.

– Scusa, è colpa mia, sto facendo casino.
– Ah, smettila e attraversiamo.
– Non trattarmi male…
– Su, faremo tardi!
– Nooo! Non posso, ti ho detto! Non nascete!
– Hai fatto scattare il rosso!
– ‘Fanculo l’incontro. Dove sta Marica?
Non so che dirgli e resto zitto. Inizia a prendere a testate una cabina telefonica ansimando rosso in faccia uguale a un peperone. Fino a farsi un taglio sulla fronte. Evito di fargli spaccare la testa.
– Non lo so dov’è. Però ci aspettano, ricordi? – lui piange e ansima, rosso in faccia.
– Lei ti ha lasciato per Andrea. Lo sai tu e lo so io. Ora calmati e andiamo, è verde. Ne guadagneresti pure con le donne. Ricordi Sara? La zoppa è single!
Respira piano.
– Se vuoi possiamo organizzare.
– Non nascete!
– Gianni, smettila di dire “non nascete”!
– Ora!
– Gianni, è rosso!

Fotografia di Jun Togawa