N a t a l e M e c c a n i c o

Last Christmas, I gave you my heart
But the very next day you gave it away
This year, to save me from tears
I’ll give it to someone special
— Wham!, Last Christmas

— Fermo, Carlo Marx del cazzo, fermo o sparo! — gridò lo sbirro puntando la pistola verso l’obiettivo.
Intorno a loro, lungo i binari, l’urlo rimbombò in ogni direzione. La mano dello sbirro tremava.
Babbo Natale alzò lentamente le braccia. Poi, con precisione, caricò lo sputo e scatarrò in direzione dello sbirro.
— Lei non sa chi sono io, — disse, arrogantissimo, Babbo Natale, portando lentamente la mano alla grossa cinta in pelle.
— Lei ha bisogno di un po’ di spirito natalizio, sporca guardia. —
La guardia rimise la pistola nella fondina, prese il cellulare e fotografò lo strano babbo natale, poi indietreggiando e senza smettere di sorvegliare tutta la scena iniziò una telefonata.
L’odore gileppo di zucchero filato invadeva il cordone ammassato contro la metro. Nessuno di loro sapeva veramente dove stava andando, ma doveva andare.
Se solo Babbo Natale non fosse stato così sporco e sudato e non avesse brandito in mano una cintura di tritolo da 70 kg, tutti si sarebbero sentiti al sicuro e avrebbero proseguito l’attesa incoscienti del disastro.
La guardia sbraitò nuovamente: – Faccia a terra!
“Treno per Assago.”
La carovana umana discese la scalinata come una cascata e travolse lo sbirro.
Quando il treno arrivò, un paio di giovani approfittarono del momento di caos per riempirsi le tasche dei portafogli dei malcapitati.
Uno zingaro intonava canzoni a tema natalizio.
Costipato contro la massa deforme, l’attentatore vestito da Santa Claus entrò nel primo vagone che gli capitò a tiro.
– Signora, ha mica due spicci?, domandò il bello del popolo accanto alla vecchia aggrappata al passamano.
– Non sono per drogarti, vero?
– Ma no signora, non mi permetterei mai!
Mentre le mani rugose dell’anziana frugavano nel borsello, il finto Babbo Natale sbraitò a pieni polmoni:
– D’accordo, nessuno si muova! E tu, ragazzo!
– Dici a me?, fece lo zingaro, abbassando un attimo il violino dalla spalla.
– Dico proprio a te, sì.
Va tutto bene,
ma alza quella dannata musica!
Una ragazza che fino a quel momento era stata seduta in disparte, silenziosamente terrorizzata, fu attraversata da un’intuizione folgorante: “Babbo Natale è il Messia che il popolo eletto attende da sempre. E nessuno lo ha ancora capito.”
Lo scrisse subito su Twitter.
Solo dalle parti di Moscova un punkabbestia sembrò interrompere il diverbio piuttosto acceso che stava avendo con la sua ragazza riguardo al di lei Bull Terrier, un po’ giù di corda, reo a sentire lui di avergli ingoiato un paio di storie; e l’avrebbe preso a calci finché non la cagava la roba e la prossima volta quel cazzo di cane era meglio se lo lasciava a Como altrimenti lo affogava nel Naviglio porcodio. Probabilmente il fatto che il casino che c’era in quel vagone sovrastasse e di così tanto il volume della sua voce impastata irritò il punkabbestia, che di problemi ne aveva già abbastanza e stava cercando di risolverli, di comunicare cazzo con la stronza della sua ragazza di Como e il suo stronzissimo Bull Terrier di nome Boosta che se ne stava mogio mogio con il musetto poco euclideo sotterrato tra i piedi della padrona. Così il PB infilò una mano sospetta sotto la giacca verde fluo da snowboarder e si alzò dal seggiolino al rallentatore, un po’ ingessato. Avanzava in slow motion, sbavando un po’ da un lato della bocca ischemica verso la schiena di Babbo Natale che non si era accorto di lui.
La metro, che solo pochi minuti prima sfrecciava tranquilla per la sua strada quotidiana, ora era ferma nel buio di un tunnel, il freno d’emergenza tirato da una manona paffuta.
Lo zingaro suonava “Fairytale of New York”.
Babbo Natale, cintura di tritolo e un grosso sacco di iuta in mano, cominciò a gridare:
– OH OH OH! BUON NATALE! Se non si fosse capito questa metro è stata sequestrata e voi con essa. Ora, se non volete esplodere, dovete semplicemente seguire le mie regole.
Dal sacco rovesciò in terra una gran quantità di maschere di Goblin, ovvero il nemico principale di Peter Parker.
– Il mio primo regalo è questo! Siete tutti assunti da me medesimo: stasera sarete i miei piccoli aiutanti nel distribuire fantastici doni a bordo di questa splendida carrozza.
Un signore sulla quarantina con un completo di ottima fattura si alzò di scatto: – Questo è inammissibile, protesto!
Una giovane in tuta acetata si mise a imprecare contro il sequestratore – Coglione del cazzo, stronzo! Ma chiccazzo sei..?
La gente, prima ammutolita per la sorpresa, cominciò a gridare di rabbia e terrore.
Lo zingaro suonava “Do they know this is Christmas?”
Babbo Natale sorrise, scoprendo una dentatura placcata d’oro: – Signori, signori, vi chiedo di calmarvi. Ricordo che sono imbottito fino al culo di tritolo.
A voi la scelta: o vi faccio saltare e l’ultima cosa che vedrete sarà la faccia del vecchio Rudolph
– si tirò su la casacca rossa e scoprì una faccia orribilmente incisa sul ventre prominente – oppure vi vestite da elfi e fate tutto quello che vi dico.
Ve lo prometto, sarà un natale indimenticabile!
Lo zingaro attaccò “Last Christmas”.
Nel mentre, una tra i passeggeri, studentella svogliata di ritorno dall’ateneo, pareva invero prestare più attenzione al brano che il violinista suonava. Con aria
disinvolta, come se la follia in atto non le fosse di interesse alcuno, dimandava allo zigano: Oh è forse il brano dei Pogues?Responso non otteneva, sicché amareggiata da sola ribatteva: Me mi garba il primo disco, “Red roses for me”, se ci sai fare un paio di pezzi, ti si da anco du spicci”. Il violinista retta a quella non prestava e con terrore il babbo natale osservava. Nel mentre alcuni dei passeggeri, per aver salva la pelle, si facevan volentieri complici del vecchio bastardo. Indossato lo strano abito attendevano istruzioni. Fu a quel punto che il babbo descrisse loro il da farsi. La meta era l’Auditorium “Demetrio Stratos” di Radio Popolare, in via MacMahon. Il folle babbo era stanco marcio della patetica campagna d’abbonamento. “Quei vecchi sessantottini del cazzo, debbono smetterla di cagare la ciolla” – gridava. Quand’ecco che il calcio della pistola cozzò sulla sua crapa.
Vi risparmiamo i ceffoni copiosi. Vi risparmiamo i dialoghi da western di bassa lega, vi risparmiamo la folla allibita con gli smartphone in mano, incredula di poter mostrare due rarità nella stessa inquadratura: un Babbo Natale che mena, una guardia che mena da sola. Vi risparmiamo le pose tamarre e le gengive sui corrimano, gli ostaggi che magicamente si trasformano in pubblico, poi in tifosi, i loro occhi illuminati dalla magia del Natale.
— Ok belli, se volete che il nostro eroe qui sperimenti un’altra volta la bellezza del taser che gli abbiamo regalato coi nostri soldi dovete urlare VAI, forte, con me, al mio tre: avanti! Uno, due, tre!
“VAI!”
La ragazza, Lucia, ancora seduta in disparte osservava, cellulare in mano, la mattanza, Babbo Marx, epistassi, il violino. Lucia scrollava la pagina di Twitter, compulsivamente, alla ricerca di un minimo di concentrazione, musiche gitane e
you better watch out, sondava uno schermo alla ricerca di un minimo di parvenza natalizia in qualche post di qualche augurio di un qualche vip in qualche aperitivo seguito da quel remoto smartphone ammaliante, il treno straripava di gioia e nevrosi, Lucia guardava, impotente, ascoltava la musica e ciò a cui proprio non riusciva a pensare era come lei, mai e poi mai, avesse imparato a ballare.
Gli scatti. La bava. Lampi d’estasi, poi il corpo fermo. Babbo Natale si leva con un sorriso, si sporge dai sedili reggendosi sull’asta come una poledancer, chiama gli applausi sempre più forti e le persone si scoprono felici ad applaudire, a venire a turno a dare un calcio in faccia al cadavere, a scattarcisi su i selfie da inviare solo agli amici più intimi. Usciti da quel treno con le maschere su, erano tutti con lui, con Babbo.

Nel frattempo il vento soffiava tra le gallerie deserte che tagliavano la metropoli. I writer più cazzuti le imboccano nottetempo da Cimiano e percorrono queste vene scrivendo spesso il loro nome. Il vento, dicevamo, correva per i fatti suoi verso le uscite, incrociando gli sguardi delle modelle in bikini sui muri, le macchinette automatiche, gli indiani venditori di cappelli da babbo natale, fuori fino alla città forsennata e mefitica. Lì moriva il vento, tra lo smog. Nessuno, lassù, sapeva ancora cosa fosse successo sul vagone.

– … Tu non ci crederai, ma sai chi c’è in fondo alle scale, sulla banchina in attesa…?
– … No chi c’è?
– C’è babbo natale, cristo…
– Ma dai, non esiste e neanche cristo… Di loro ci sono solo le parole… Non c’è riferimento…
– Vuoi vedere che invece… Senti, io mi fermo qui, nel dubbio prendo il metro dopo… Mi tengo la realtà…
– Sì buona idea, tanto per quello che dobbiamo fare oggi possiamo prendere anche un altro treno… in fondo che differenza fa?
Sceso alla fermata di Abbiategrasso, smagrito e disperso, Santa non aveva più barba né cintura. Il cuscino che camuffava la pancia era rimasto incastrato sotto un sedile durante la colluttazione. I presunti candelotti di dinamite erano ora scartati e svelavano la loro vera natura di pile del supermercato. Il pesante trucco di cerone bianco adesso lasciava trasparire la sua pelle color dell’ebano. Salì le scale lentamente, a perdifiato, quando si sentì placcare alla sua destra senza poter battere ciglio. Cinque digossini in divisa gli erano sopra e lo stavano ammanettando. Prima di portarlo via, i passanti che ripresero la scena furono subito schedati e fu impedito loro di diffondere il video. Il più tenace di quelli fu preso da parte e gli fu mostrata la foto riservata del replicante nero: i lembi di pelle cadenti che gli scorrevano lungo il viso, come quelli delle maschere di lattice dei Goblin di poco prima, nascondevano appena gli ingranaggi del mecca, che luccicavano sotto la luce bianca del neon.

𝕭𝖚𝖔𝖓𝖊 𝕱𝖊𝖘𝖙𝖊

Federico Armani, Davide Galipò, Giovanni Schiavone, Nicola Griffante, Nicolò Gugliuzza, Luca Gringeri, Dario Limongelli, Isidoro Concas, Paolo Cerruto, Luca Chiarei

Fotografia di Bruce Gilden

Figli del complotto

C’è stato un giorno in cui hai appioppato la spiegazione più irrazionale ai fatti della tua vita. È quello che fanno gli autori del fantastico: non si sono accontentati che gli eventi della narrazione affondassero in un mare logico. Infatti, il fantastico applica i fatti alle teorie.
Se si allarga ulteriormente il cerchio di questo movimento, c’è poi una forma narrativa che, a seguito degli aventi più traumatici della nostra storia, ha agito in questa determinata maniera: le teorie complottiste. E se qualcuno può storcere il naso a questa affermazione, non deve considerare la questione dal punto di vista prettamente politico, bensì dall’angolatura della narrazione.

Il complottismo ha proposto più di tante altre forme una narrazione pilotata. Anche il reality show, ad esempio, adotta alcune strutture simili: un gruppo di persone famose si ritrova sopra un’isola deserta e dovranno superare delle prove per sopravvivere. Milioni di spettatori votano da casa i loro protagonisti preferiti, con il dubbio che tutto quello che stia avvenendo sia pilotato dall’istinto umano o ci sia un copione che i vip devono seguire (uragani tropicali compresi). Tutto molto distopico. Se non fosse che lo trasmette la TV in prima serata e i protagonisti sono spesso scadenti, le nostre papille intellettive ne sarebbero attratte, del resto chi non hai mai guardato almeno una puntata dell’Isola dei famosi?
I reality show oramai sono cosa vecchia, ma le teorie del complotto rimangono vive a distanza di decenni. Il motivo è che queste ultime fanno leva sul cono d’ombra della realtà che tanto interessa agli autori del fantastico.

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I reality show oramai sono cosa vecchia, ma le teorie del complotto rimangono vive a distanza di decenni. Il motivo è che queste ultime fanno leva sul cono d’ombra della realtà che tanto interessa agli autori del fantastico.

Il volto del diavolo che compare nella nuvola di fumo della torre del World Trade Center in seguito all’attentato dell’11 settembre 2001, oltre ad essere la mia teoria preferita, è una foto scattata dal fotoreporter Mark D. Phillips (come dichiarato presso Stellarimages.com) e non presenta alcuna manipolazione.
Il fenomeno è stato spiegato a livello scientifico e porta il nome di pareidolia, ossia la tendenza istintiva e automatica a trovare forme familiari in immagini disordinate. E quale atteggiamento più umano della mente che si fa suggestionare.
Del resto il fantastico del ‘900 ci insegna che il diavolo si veste di abiti borghesi, e la sua esistenza vive nel tempo di un’esitazione dei fatti che vengono narrati, citando Tzvetan Todorov.

Un atteggiamento, quindi, che già si registra. Massificato negli ultimi 20 anni dal web e dalle tecnologie, e da una perizia maggiore delle forme narrative dei produttori di teorie del complotto.
Il nuovo modo di fare complottismo giova di due fattori: la replica del contenuto e un contenitore uguale per tutti (forum, YouTube, social, ecc.). Così, prima o poi, ci siamo ritrovati tutti sul treno con il tizio sconosciuto che comincia a raccontarti di questa o quella teoria sulle grandi manovre di società segrete, con lo stesso stile narrativo della voce fuoricampo del docufilm Zeitgeist. Senza sapere come rispondergli.

Così, prima o poi, ci siamo ritrovati tutti sul treno con il tizio sconosciuto che comincia a raccontarti di questa o quella teoria sulle grandi manovre di società segrete, con lo stesso stile narrativo della voce fuoricampo del docufilm Zeitgeist. Senza sapere come rispondergli.

Il procedimento della narrativa fantastica è lo stesso: è una teoria su ciò che sta dietro la realtà dei fatti che ti sto raccontando. Forse, è per questo che un libro come Le 20 giornate di Torino di Giorgio De Maria ha avuto più successo ai giorni d’oggi che negli anni ’70. Letto adesso, spurio del forte messaggio politico che poteva essere recepito allora, racconta violenti attentati accaduti nel capoluogo piemontese commessi dalle statue del centro in ribellione.
Il fantastico si concentra su trame e fatti meravigliosi. Ma, a ben pensarci, quando l’osservatore si trova di fronte lo schermo TV e assiste alla caduta delle torri gemelle, alla strage in Siria o è fisicamente partecipe della grande crisi economica del 2008, la razionalità cede sempre lo spazio al dubbio, a tutto quello di oscuro che fenomeni così devastanti nascondono alla vista e alla mente.

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Il fantastico si concentra su trame e fatti meravigliosi. Ma, a ben pensarci, quando l’osservatore si trova di fronte lo schermo TV e assiste alla caduta delle torri gemelle, alla strage in Siria o è fisicamente partecipe della grande crisi economica del 2008, la razionalità cede sempre lo spazio al dubbio, a tutto quello di oscuro che fenomeni così devastanti nascondono alla vista e alla mente.

Le risposte sulle reali meccaniche di quegli avvenimenti sono state date, ma anche tra i più attenti analisti c’è sempre discordanza sull’origine delle cause. Del resto il mondo, che lo si voglia o no, non ha chiavi di letture univoche e la semplice osservazione, secondo la fisica quantistica, influenza la realtà.
Forse, proprio perché la tesi è che la realtà abbia superato l’immaginazione, alcuni autori hanno assimilato che eventi inediti siano accettabili dal lettore più di prima e così anche le loro spiegazioni.
L’autore del fantastico ha dato spazio ai fatti della propria immaginazione, applicandoli alle teorie. Una dualità che è ben espressa ne Il cosmonauta di Kalfar. Il romanzo ha due linee narrative: da una parte il protagonista che viaggia verso lo spazio e incontra un alieno, dall’altra la vita del protagonista dalla rivoluzione di velluto ai giorni nostri. La prima storia è apertamente fantastica e vira verso la fantascienza. La seconda, invece, appartiene al romanzo storico con tanto di narrazione socio politica della trasformazione di Praga negli ultimi trent’anni. Tutta questa storia il cosmonauta la rivive attraverso un collegamento sinaptico con l’alieno. E il lettore è disposto ad accettare tutto questo. Un po’ quello che avvenne con Mattatoio n.5 di Vonnegut. Ma mentre Billy è affetto da disturbo da stress post-traumatico, e la realtà del suo viaggio a Tralfamadore è in dubbio, tutta la narrazione di Kalfar ha dei presupposti solidi e una dimostrazione storica che quel viaggio nello spazio possa avvenire. Addirittura il lancio del missile su cui Jakub Procházka si ritrova, si scoprirà essere tutta una macchinazione nei suoi confronti.

Infine, l’autore ha necessità che il lettore creda alle sue storie. E il fatto che tutta la narrazione della realtà di questi ultimi vent’anni abbia assunto sfaccettature così variegate aiuta di certo. La semplice esistenza di teorie del complotto, alle quali si può aver avuto accesso su internet o per bocca di un amico o da un pazzo sul treno, ha generato uno stato mentale di accettazione delle spiegazioni più radicali agli eventi più traumatizzanti.
L’affermazione del fantastico contemporaneo è quindi figlia del nostro tempo e del nostro spazio. L’istinto primordiale dell’uomo allo stupore del resto è incontrollabile, e quando l’immaginazione va in crisi la realtà oggettiva può solo che smembrarsi di altre realtà parallele, simili o opposte al mondo così come lo conosciamo.

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Illustrazioni di Irene Rinaldi

Un’anatra al buio che becca le briciole

Il ponte di piazza Vitto, alla sera, fa come tante mezze lune sul pelo dell’acqua. Dei fari sotto le arcate illuminano la pietra di luce calda, luce che muta forma e riflesso a seconda del punto d’osservazione. Dal club dei canottieri, che sporge sul fiume oltre la boscaglia della sponda bene, s’affacciano sagome scure a guardare la gente di qua: la cascata di brilli ciaparat del venerdì sera e del sabato, della domenica e di tutti i giorni della settimana, perché tanto di lavorare – sulla riva del Gianca e del Doctor Sax – mica se ne parla.
«To’, accendila».
Ce ne stiamo seduti, io e il mio amico Berto, su due scalini viscidi di alghe e scommettiamo a distanza sul sesso delle anatre in avvicinamento. Col buio non è facile, gli spiego che i maschi sono quelli con la testa verde smeraldo e che le femmine sono quelle marroni. Gli racconto dei pavoni, del fatto che nel mondo animale sia molto più frequente osservare la bellezza come un obbligo genetico maschile: «È una questione di dimensioni» gli dico «e di numero: un grande ovulo sta a miliardi di minuscoli spermatozoi».
Berto ridacchia, si leva la coppola da picciotto emigrato e la posa sulla mia testa.
«Stando a questa teoria, noi donne dovremmo poterci permettere di avere i peli sulle gambe.»

Ce ne stiamo seduti, io e il mio amico Berto, su due scalini viscidi di alghe e scommettiamo a distanza sul sesso delle anatre in avvicinamento. Col buio non è facile, gli spiego che i maschi sono quelli con la testa verde smeraldo e che le femmine sono quelle marroni.

Hanno aperto un bar futuristico, in uno degli ammuffiti magazzini dei murazzi, in cui a preparare Negroni e Spritz è un robot arancione. Si ordina attraverso un computer e un robustissimo paio di braccia shakera l’elisir. Una roba che Marinetti sarebbe fisso lì a sbronzarsi e a fare versi tipo zang e zang e tumb, ma che per noi è ancora troppo avanti e non ce la facciamo a stargli dietro. Ci siamo ubriacati alla vecchia maniera, seduti al bancone del circolo Arci Sud, a botte di vino stappato, brindando alla nostra e al barista. Che bel posto che è l’Arci Sud! Mi mette una nostalgia… Viva i nostalgici, viva!
Da San Salvario ai muri è un attimo ed è tutto in discesa, ma perché siamo qui non saprei dirlo, e non saprei dire neppure dov’è che abbiamo legato la bici.
Io e Berto in mezzo a un mucchio selvaggio di bestie febbricitanti, messi assieme in un ping pong di fumo e dalla comune voglia d’evasione e ancora più vicini per quel mero e condiviso senso d’inappartenenza, passandoci una torcia fatta su in fretta e senza accortezza, col filtro largo e un tiro faticoso. Mentre questi pensieri s’affacciano, subito la voce di Giulia mi sputa addosso sentenze, perché chi si esilia da solo non ha neppure il diritto di lamentarsi.
Non è il nostro paese, fratello mio, ma nessuno ci ha cacciati dal nido: ce ne siamo andati noi, con le nostre gambine, e senza preoccuparci del sentiero e dell’avere una destinazione. Hai ragione, nessuno è venuto a rincorrerci, ma non possiamo continuare a fuggire in eterno con la speranza che prima o poi qualcuno ci venga a recuperare. Lo sguardo di Berto si posa sul molo abbandonato vicino a noi.
«Ci sei salito, sì?»
Berto mi fa di no con la testa: «Mzé. Ho una foto là sopra, ma non mi ricordo quando l’ho fatta».
Mi piace tanto quando fa quel verso, mzé, che è un esercizio complesso d’espressione affidato a lingua, denti e labbra e dice più di una parola. Può essere un e un no contemporaneamente, nel dubbio un non lo so. Penso al verso come a un colpo di marranzano che risuona nella bocca, la cui eco si perde dentro chi scocca il suono e non fuori. Berto scocca suoni per se stesso e nessun altro e questi suoni gli rimbombano nei nodi delle viscere e si stringono, fischiando, tra le costole. Vorrebbe poterne fornire una versione tradotta, ma si sistema gli occhiali, per adesso, con un gesto nervoso, e mi racconta di quando la sua compagna di banco s’era abbassata le mutande e gli aveva concesso una visione diversa del mondo.
C’è qualcosa di clandestino, nel comprendersi, così quando accade non occorre dirselo, o meglio, non si deve affatto.
Dal monte dei Cappuccini, che non somiglia neppure lontanamente a una montagna, la città fa meno spavento. Le si può dare un contorno, che è fatto di alture a corona e finestre triangolari tra le cime. Si vedono i due grattacieli lampeggiare di rosso e la lancia stellata della Mole trafiggere la cappa di smog; sullo sfondo sale piano, ogni tanto, il pallone incatenato del Balon.

Non è il nostro paese, fratello mio, ma nessuno ci ha cacciati dal nido: ce ne siamo andati noi, con le nostre gambine, e senza preoccuparci del sentiero e dell’avere una destinazione.

L’ultima volta al monte c’era la neve e faceva un freddo pazzesco, Giulia aveva i capelli lunghissimi.
Una grossa palla di ghiaccio mi era arrivata sul muso, facendomi male, ma non ero riuscita a incazzarmi, non ci riesco nemmeno adesso dopo tutto quello che è successo.
Posso tracciare il contorno della città col dito, posso chiudere gli occhi e disegnare la perfetta topografia di Torino, ma non riesco a definire il confine tra ciò che provo davvero e ciò che mi convinco di provare per sentirmi più normale e adatta a campare sopra alla faccia tosta della Terra.
Tira fuori quello che senti, Giulia mi spronava al dialogo nei momenti peggiori, cercando il mio sguardo, solitamente fermo su un qualche punto della stanza, prova a farmi capire cosa hai in testa, mi diceva, se non parli come faccio, come faccio ad aiutarti. Spalle al muro, attendeva che io esplodessi.
Il più delle volte mi lasciavo andare a un pianto eterno, sragionato, che era la cosa più onesta di cui fossi capace. Altre volte non sgorgavano lacrime e allora toccava recitare. Mi inventavo tragedie inesistenti, ma spiegabilissime e sensate. Forse esistevano sul serio, anzi sicuramente, in qualche angolo del mio inconscio; erano parte della mia vita, ma non mi toccavano così nel profondo come volevo far credere. C’è chi darebbe la colpa allo zodiaco: nata sotto il segno del Cancro. Il primo vagito era già disperazione, un tentativo di raccogliere attenzioni.
«Quello lì non lo sopporto» mi fa Berto, tossendo. «Ogni volta che parla mi sembra di sentire Aldo Moro»
«Sta sul cazzo anche a me.»
Cerco di tagliare corto, non ho voglia di argomentare, ma Berto continua:
«Non si può piacere a tutti, eddai, sempre con questa oratoria, questi paroloni per dare ragione a chiunque, senza mai tirare fuori un’idea che sia una.»
Annuisco, prestando ascolto ai discorsi della comitiva di liceali seduta a pochi mattoni da noi. Parlano di sesso, di inciuci vari tra i membri del gruppo. Loro hanno un branco con cui passeggiare nel bosco.
Ho visto fare a Berto cose indicibili, come rubare il vetro di una cornice larga novanta centimetri e riuscire a condurre, pulito, il bottino fuori dalle barriere elettroniche del negozio. L’ho visto lanciare un bicchiere di gin, intendo il bicchiere intero, in faccia a un ragazzo dopo una battuta di pessimo gusto; l’ho visto fare a cazzotti col suo miglior compagno, minacciare di lanciarsi in un triplo salto mortale, di darsi all’onda triturante della Dora; l’ho visto insultare, elargire opinioni senza l’ombra d’un filtro; l’ho visto fare terra bruciata attorno a sé; l’ho visto perpetrare la sua propria personale rivoluzione e opera di distruzione e tutto questo, dico tutto questo, in nome dell’arte. Non conosco uomo più innamorato di Berto dell’arte.
«Ogni tanto un rospo lo devi ingoiare, ci hai già discusso una volta.»
«Lo so, lo so.»
«Abbiamo bisogno di un appoggio adesso, basta stronzate.»
Io sono sempre stata più codarda di lui, più giudiziosa e sotto sotto infimamente manipolatoria, e non per questo meno monade. Non ho idea di cosa abbia in testa Berto, ma posso leggere tra i suoi gesti un sentire affine al mio e il luccichio residuo di una verità divenuta frottola, una fiamma che Berto continua a mettere alla prova, passandoci sopra il palmo della mano, e che continua a ustionarlo nonostante il suo progressivo rimpicciolirsi. Quante bugie ci siamo raccontati e quante menzogne ci hanno rifilato affinché questa sottile presunzione d’essere speciali potesse farsi largo in noi e dilaniarci dall’interno ogni qualvolta l’enorme aspettativa rispetto al nostro stesso genio si fosse schiantata contro la mediocrità della persona umana che costituiamo.

Quante bugie ci siamo raccontati e quante menzogne ci hanno rifilato affinché questa sottile presunzione d’essere speciali potesse farsi largo in noi e dilaniarci dall’interno ogni qualvolta l’enorme aspettativa rispetto al nostro stesso genio si fosse schiantata contro la mediocrità della persona umana che costituiamo.

Tiro fuori dallo zaino un maglioncino infeltrito di un celestino chiarissimo. L’afa di fine estate ha lasciato posto alla frescura autunnale, è quel momento dell’anno in cui non si capisce bene come uscire di casa e perciò si tira a indovinare, sperando di azzeccare la combinazione dei tessuti. Berto cerca di nascondere i brividi per non darmi a vedere che ha freddo, trema con le braccia conserte nel tentativo estremo di tenersi stretto il calore corporeo. Sta letteralmente gelando, magro com’è, ma non cede e non accenna a una ritirata. Si è messo addosso una giacchetta verde guerriglia di cotone duro, con tanto di tasche e taschino sul petto, dal quale pende il gancio di una stilografica.
«Chi l’arriccia, l’appiccia e…»
Lascio che il sapore delle ultime note mi culli e conduca all’atarassia. Mi basterebbe essere un’anatra al buio che becca le briciole: un qualcosa di indefinito, dondolante e senza sesso. Un organismo deforme che è in procinto di arrivare e beccare le briciole una ad una, fare un cenno e sparire di nuovo. La testa sott’acqua e giù, giù.
Vorrei addormentarmi qui, in riva al Po, con le nutrie e le pantegane a mordicchiarmi le dita dei piedi, piuttosto che sollevarmi da questo scalino e avviarmi, un passo storto dopo l’altro, alla porta di casa e verso la stanza in affitto dove nessuno mi aspetta, se non una catasta di robaccia da quattro soldi e qualche capello cascato dal letto.
Vorrei che Giulia mi accarezzasse ancora la schiena con la spugna, nella vasca da bagno, che mi facesse sentire in diritto di essere mortale, tale e quale a tutti gli altri. Ché alla fine è questo essere amati: non dover mentire a se stessi sul proprio conto per soddisfare le proiezioni del prossimo. Di Giulia ho amato lo smascheramento. Ci siamo abbassate così tanto, a furia di sberle e colpi di onestà, da arrivare a strisciare come due larve in muta sul pavimento stradale, ridotte a un’ombra, incapaci di trovarsi. Dio, quanto vorrei sollevarmi da questo scalino e schizzare velocissima fuori da questa bolla! Sanguino e provo una fitta costante al basso ventre, ho preso un coltello da macellaio e ho aperto un varco nella carne per accelerare la procedura chirurgica di svisceramento. Tutta aperta e grondante umanità, sono, e persino questo è distante dall’essere sufficiente. Dio! Dove cazzo sei? E soprattutto dove cazzo è Giulia?
«Non lo so, vediamo gli altri quando possono e ci becchiamo in Cavalla o da me» dico a Berto, che nel frattempo è riuscito ad alzarsi e s’appresta ad andarsene. «Vedi che qualcosa la combiniamo.»
«Vabbuò, io adesso cerco di capire a soldi come stiamo messi, fammi sapere poi per il tirocinante che dicono.»
Ci diamo appuntamento alla prossima riunione, pronunciando qualche battuta riciclata sullo sfruttamento del lavoro e sul capitalismo, incerti sul da farsi e sul perché lo si debba fare. Indecisi sul come, sul quando, senza nessuna probabilità evidente e con sulle spalle un bagaglio di fallimenti già troppo pesante.
Di fronte a noi, ogni mattina, la tentazione di mollare ciascuna ambizione e velleità artistica, il desiderio di vomitare in strada ogni rigurgito di creatività e sedersi alla scrivania di un ufficio o alla cassa di un supermercato, dire al massimo Carta o Bancomat, signora e sentirsi rispondere, male che vada, non lo so, faccia lei.
Berto procede, mani in tasca, percorrendo la salita asfaltata che conduce alla piazza. Io resto dietro, a pochi passi da lui, ma non troppo distante da risultarne divisa sul serio. Dev’essere una scena ridicola, vista da fuori: due che si salutano e che poi si inseguono lungo la medesima via.
Siamo abituati così, io e Berto, a far la strada da soli. Ci voltiamo soltanto di rado, velocemente, in modo che non desti sospetto, spinti da una fantasticheria o da un presentimento, a controllare se per caso un’anima non ci stia raggiungendo.

Fotografia di Louis Dazy