La porta sull’impossibile | Prefazione a “Istruzioni alla rivolta” di Davide Galipò

Le parole increspano la superficie del mondo, solleticano ciò che resta del reale, ma non sempre arrivano a smuovere le profondità. Per poter giungere all’essenziale, devono farsi strumento teorico o poesia. Il che è come dire: impresa di demolizioni o carezza affettuosa.
In ogni caso, la teoria dovrà legittimare i tentativi di bellezza e darci in pasto alla lucidità, finché qualcosa di più poetico non venga a strapparci alla poesia stessa. Beninteso, si possono avere delle circostanze in cui la demolizione tocchi alla poesia e il discorso teorico si faccia invece tenero e gentile nei confronti della vita acerrima. In tali evenienze, non cambia il territorio teatro della bellezza o della lotta per vivere la bellezza, bensì il modo di attraversarlo, di mapparlo.
Una cosa però rimane certa: ogni vivente ha un suo potenziale di poesia, una sua capacità di bellezza, ma egli li riconosce e ne può godere, in modo più o meno compiuto, soltanto quando riesce a preservare la propria unicità e a sviluppare una propria autonomia critica svincolandosi almeno in parte dal movimento generale della necessità. Restando dentro il discorso letterario, bisogna dire che la ricerca della bellezza spinge sempre verso un fuori, verso un altrimenti, anche quando pare avallare una presunta permanenza delle cose o una tradizione o una causa originaria più o meno ideologica. Il “fuori”, in ogni caso, è sempre l’Altro, è sempre l’ineludibile questione dell’Altro.
La poesia innesca un moto centripeto a partire dalla malferma certezza delle parole e ne fa una domanda costante di determinazione, di designazione, benché i diversi riferimenti del suo movimento si proiettino sempre oltre, sempre in una tensione di oltrepassamento (o in un tentativo di raffinamento) del già detto, del già vissuto.
In questo slancio patetico e contraddittorio, la poesia si morde la coda e la coda è solo un’appendice spuria dell’eternità, di quell’eternità che proviamo a truffare senza posa attraverso l’intrigo della bellezza. Certo, il mazzo di carte è truccato, inutile negarlo, tuttavia si continua a giocare, perché il gioco stesso è un trucco ormai ampiamente sperimentato per chiudere la vita in un angolo e farla nostra, quanto meno a sprazzi, continuando a fingere che il cosiddetto destino sia soltanto un bluff.

Foto di Filippo Braga


Davide Galipò si pone in ascolto delle contraddizioni del mondo e le fa emergere all’interno della sua scrittura senza concedere troppo alla facilità. La citazione camusiana in esergo è a dir poco emblematica: per Galipò, la poesia inclina all’azione, all’evocazione dell’agire, alla determinazione che segue la presa di coscienza (e alla presa in carico) della sfida, dell’affrontamento tra l’uomo e il suo divenire. Certo, in una tale prospettiva, si pongono problemi di grande ricchezza e complessità. Anzitutto: come unire contemplazione e azione in un divenire poetico che non tradisca la migliore umanità possibile? Come si connota poeticamente il divenire? Quale scelta di bellezza può cortocircuitare ogni separazione tra l’uomo e il suo stesso mondo? Domande capitali che hanno a che fare ogni volta con lo scontro (al tempo stesso, individuale e storico) tra il nostro desiderio di autonomia e le necessità sociali che spesso subiamo.
Detto questo, bisogna anche vivere e non solo porsi delle domande sulla vita. Viene quindi il momento in cui occorre alzare lo sguardo e cominciare a danzare. In caso contrario, si rischierebbe di «errare nell’errore» restando per sovrappiù nell’àmbito patetico (e noiosamente poetico) di formalismi letterari che lasciano le parole che trovano. Ciò comporta che si possa costruire un dato poetico capace di farci sormontare, almeno a sprazzi, la cosiddetta “cultura”, ossia quella burocratizzazione storica del pensiero e delle arti che ha portato a ridurre la poesia e la bellezza dentro riserve indiane di natura meramente linguistiche ed estetiche: «ché non c’è niente come la cultura / della minestrina pronta, rassicurante, / sopraffatta dalla candida emozione, / che ti fa volare alto per poi sbatterti di sotto, / immantinente».

Come si fa? Qual è la chiave o il varco per aprire un nuovo possibile al nostro desiderio e alla nostra po(e)tenza di viventi?



Difficile è l’intrapresa, ma non certo impossibile. Galipò stesso si concede una decisione, una determinazione, pur non nutrendo soverchie speranze, e la cosa non è affatto contraddittoria, poiché, se non uccidiamo in noi la speranza (e quindi l’attesa, la procrastinazione, il determinismo domestico del “tiriamo a campare”), finiremo sempre per subordinare la nostra unicità di viventi e la nostra capacità di autonomia, ossia ciò che ho chiamato po(e)tenza, a una causa che perverte la nostra esperienza del mondo, a un’identità che ci vidima socialmente, oppure a un surrogato ateologico di Dio. Così Galipò, con echi quasi stirneriani: «qui rinnego, qui sconfesso, / ogni singola parola pronunciata / in nome di un ideale, / perché ogni ideale è contro la vita, perché ogni dogma è contrario / alla sopravvivenza».
Il nostro autore ha peraltro una netta consapevolezza delle separazioni sociali e della lotta immane che ci tocca ingaggiare contro di esse: «È uno strano mondo, il nostro: / il ragno tesse le lodi dell’insipienza / e il mondo sensibile non è contemplato». Eppure, «nel collaborazionismo / dei nostri giorni felici», c’è ancora lo spazio per dispiegare un tentativo, per dirsi «correggiamo quest’errore» e per concedersi almeno la “licenza poetica” di smarrirsi in completa autonomia. Appare però evidente che queste Istruzioni alla rivolta non intendano catechizzare il lettore, né abbiano la pretesa di propinare una ricetta infallibile per risolvere le contraddizioni. D’altronde, lo stesso autore mette le mani avanti: «Eccomi: sono il figlio vostro e mi prodigo ostinatamente / nel non volervi insegnare niente su come si stia al mondo / perché c’è tanto da imparare contemplando avidamente». Piuttosto, le sue parole sembrano “istruire” uno spazio, un territorio, delle linee di fuga per sottrarsi ai luoghi comuni degli odierni concatenamenti sociali e tecnologici.
Ecco, l’istruzione, intesa qui come (dis)posizione, è una tattica, nonché un incitamento a ricollocarsi materialmente e mentalmente dentro la natura sensibile del nostro divenire umano-femminile. Se l’estraniazione avanza, se l’effimero impazza, bisogna far sì che la poesia (per dirla con Rimbaud) torni a ritmare l’azione, permetendoci d’attraversare l’esperienza del vivere nel modo più com- piuto possibile e senza mai nasconderci le difficoltà del caso. In altre parole, la poesia è lo spazio (il saper vivere) in cui i sogni, il desiderio, il destino, e tutti gli altri ammennicoli esistenziali dell’umana congerie, possono ancora trasformarsi in una materialità appassionante e comune dell’esperienza.
Beninteso, non ci sono certezze, ma solo tentativi, approssimazioni. Questa è la poesia. Questo è il senso del divenire. Esistono solo tappe, non traguardi. Si vince ogni tanto qualche battaglia, ma mai la guerra. Le domande restano ineludibili. Sisifo può gettar via il suo macigno, certo, ma gli rimarrà pur sempre il peso di dare un senso a tutto. «Ed io, che son territorio, / da qui mi difendo con quello che ho / (e non è poco, credimi) / ma ciononostante sarà mai abbastanza / per potere, volere, capire, volare?»

Balilla Macht Frei, poesia visiva dell’autore

In un mondo contemporaneo fondato su innumerevoli separazioni e distanziamenti tra i viventi, la poesia non può restare un àmbito specialistico, un mero genere letterario. Ciò detto, il poeta (ma meglio sarebbe parlare di agitatore poetico) non deve costringersi a credere nel lettore, non è obbligato a limitare la propria o l’altrui capacità di poesia dentro i confini dell’interpretazione, dentro la facilità di una decodifica. La sua “alchimia”, d’altronde, non riguarda soltanto il verbo. Egli non si barrica nella casa delle Lettere in attesa di chissà quale avvento, ma crea esperienze, comunanze, mettendo in pratica un costante affinamento critico delle proprie relazioni.
La poesia non è la matematica. Non fissa un’equivalenza convenzionale e imprescindibile tra verità e bellezza. Fa più la parte di un anacronismo che si trasformi in farfalla, di un’abitudine che si perverta a contatto col fuoco. È di parte, si vuole di parte, benché tenda pur sempre a costruire un minimo comune multiplo della bellezza.
Non è neanche un’economia. L’atto poetico non converte le contraddizioni in oro – re Mida dimostrò già una lampante insufficienza nel comunicare le proprie pretese – né tanto meno esso produce dei simulacri per congiungersi astrattamente (o economicamente) col mondo circostante – la regina Pasifae, ricordiamolo, amò accoppiarsi evidentemente con la gratuità e l’incarnazione del divino usando il simulacro come catalizzatore sessuale, come cortocircuito dello scambio, e non come moneta simbolica. La convertibilità potenziale dei diversi elementi viene a cessare quando si riconosca insolvente l’ordinamento che ne accoglie la coniugazione. Ed è allora che si afferma una poesia che è misura e abito dell’esperienza, ma anche esclusione di ogni calcolo economico, egotico, banalmente narcisista.
Il poeta non preordina un calcolo di valori da cui fa dipendere ogni proprio compimento interiore o sociale. La sua attività non si limita a una tecnica espressiva, a un principio d’efficacia, ma abbraccia criticamente tutto il possibile della bellezza e assume come unico scopo la compiutezza e la trasmissibilità dell’esperienza poetica. Fuori da ogni determinismo, l’atto poetico è sempre il vettore di un desiderio di concatenamento. L’esperienza poetica sfugge infatti ai limiti del letterario, alle pretese della teoria, e diventa potenziamento, esaltazione ed enfatizzazione del sensibile, ma sempre all’interno di una relazione determinata, desiderata. Nell’intimo della conoscenza, diamo la parola a un eterno proposito di seduzione. Cerchiamo di possedere il senso delle cose. Arrangiamo i nostri saperi in modo da restare dentro un’accettazione della vita e della morte. Abbiamo coscienza che il movimento dell’esistente passerà comunque un colpo di spugna su tutti i nostri sforzi. Eppure, ci ostiniamo a varcare il dubbio e a intessere una trama di eventualità. Non riusciamo a resistere, e mai resisteremo, alla voglia di aprire quella porta che dà sull’impossibile.

Davide Galipò, Istruzioni alla rivolta
Eretica Edizioni, 2020
80 pagine, brossura

In copertina: Luc Fierens, Face (2003)

Per una storia del godimento #2

Ciò che io chiamo desiderio è quel moto che mi porta a concepire e a realizzare una nuova disposizione delle cose, vale a dire una trasformazione degli elementi che formano il mio mondo. In particolare, il desiderio è quell’improvviso senso di vuoto che viene a nascere quando m’imbatto in una presenza umana che si fa squarcio, esigenza di senso, di bellezza, e che mi incita a ridurre la distanza intercorrente tra me e la sua attualità.
Provando a colmare quel vuoto – praticando cioè il desiderio al fine di costruire o ricostituire una compiutezza del vivere – io aggiusto il mio mondo e lo apro all’Altro. Nel salvaguardare e sviluppare questo movimento di apertura, laffetto che provo verso l’Altro resta però autentico solo se diventa uno strumento di conoscenza che limiti al minimo la sofferenza delle parti in gioco e a condizione che vi si cerchi una compiutezza evitando la subordinazione di sé o dell’Altro.
Il vuoto tra i viventi – e tra questi e le cose del mondo – non è che l’attesa di un senso, di un adempimento delle proprie capacità attrattive. In qualche modo, è come un’ipotesi di spazio che ancora non contiene dei “luoghi comuni” per l’affetto, per le parole. Smette di essere vuoto, infatti, quand’almeno due esseri viventi vi costruiscano un territorio e degli andamenti condivisi, concertati, improntando in tal modo un comune saper vivere.

Il vuoto tra i viventi – e tra questi e le cose del mondo – non è che l’attesa di un senso, di un adempimento delle proprie capacità attrattive.

In Histoire de Juliette, il Marchese de Sade scrive: «L’abuso della legge è ciò che conduce al dispotismo; il despota è colui che crea la legge… che la fa parlare, o che se ne serve per i proprî interessi. Togliete al despota questo mezzo d’abuso, e non si avrà più alcun tiranno. Non esiste un solo tiranno che non venga sostenuto dalle leggi nell’esercizio delle sue crudeltà; là dove i diritti dell’uomo saranno ripartiti equamente, in modo che ciascuno possa vendicarsi da sé delle ingiurie ricevute, non si leverà sicuramente nessun despota, perché egli verrebbe rovesciato dalla prima vittima che avesse intenzione d’immolare. Non è mai nell’anarchia che nascono i tiranni: voi li vedete sorgere solo all’ombra delle leggi o trarre autorità da esse. Il regno delle leggi è dunque vizioso; è quindi inferiore a quello dell’anarchia»[1].
Il passo citato, risalente al 1801, e nel quale risalta, forse per la prima volta in assoluto, un’idea positiva di anarchia, va a cozzare con un’affermazione che lo stesso Sade, qualche anno prima, mette in bocca al libertino Dolmancé in La Philosophie dans le boudoir: «Non esiste uomo che non voglia esser despota quando gli si rizza»[2].
Ora, il sillogismo che faccio derivare dalle due citazioni potrà apparire abusivo, ma mi si impone quasi spontaneamente: se ogni erezione apre le porte a una bramosia dispotica, come dice Sade, allora il fallo eretto finisce per risultare l’unica vera legge, l’unica vera istanza normativa alla base di qualsivoglia inclinazione in àmbito sessuale e non. Anzi, il sesso maschile eretto sarebbe allora la vera autorità, il vero depositario di ogni potere dell’uomo sull’uomo e, più di tutto, dell’uomo sulla donna. L’abuso del fallo eretto apparirebbe quindi come l’abuso della legge, come la legge di cui si abusa, la quale non migliora gli uomini, a detta dello stesso Sade, proprio perché tenderebbe a farli diventare altrettanti “despoti”.
In una prospettiva autoritaria, non possiamo che concordare con l’assunto sadiano, ma dobbiamo precisarlo: colui che afferma (e impone) l’idea fissa di una tumescenza capitale, come ad esempio la centralità dell’erezione, è sempre un potenziale “despota”, e non solo nella sfera sessuale. Se l’erotismo rimane un saper discernere lo spirito e il corpo del desiderio sganciandosi dalla sessualità riproduttiva tipicamente animale, e riconoscendo altresì una varietà, una creatività comune nel gioco dei corpi, coloro che scindono l’eccitazione sessuale dalla facoltà di un accordo gioioso tra tutti i sessi possibili, irrigidiscono il pensiero dell’eros intorno alle proprie tumescenze sessuali e impongono una loro specifica rigidità al pensiero e al corpo degli altri.
Beninteso, non è il sesso turgido in sé ad essere portatore di autoritarismo, bensì la mente e le relazioni sociali di chi lo usa per subordinare gli altri al proprio desiderio, al proprio godimento.
Il fallo eretto diventa uno strumento autoritario – una sorta di scettro più o meno patetico – tutte le volte che l’erotismo si voglia come conquista dei corpi e dell’immaginario amoroso degli altri, cioè non appena un qualsiasi atto sessuale si trasformi in forzatura, in atto di potere. La centralità del fallo nasce storicamente da un potere e non fa che situare il potere al centro delle preoccupazioni sessuali. La vera “perversione” si ha proprio nel trasformare l’amore tra potenze affini in un potere tra affetti asimmetrici.

“Non esiste uomo che non voglia esser despota quando gli si rizza.”

– D. A. F. De Sade, La Philosophie dans le boudoir
Via Tim Tadder

Malgrado le dinamiche erettili e autoritarie del pensiero, l’erotismo va vissuto come uno dei più grandi strumenti di conoscenza che il vivente umano-femminile si sia dato in epoca storica – quindi non semplicemente come il vasto campo dei piaceri amorosi e sessuali. La ricerca del godimento diventa storicamente un affinamento del saper vivere. In tale prospettiva, il distanziamento dalla Natura appare netto, basti pensare al drastico ridimensionamento della sessualità procreativa umana, però ne deriva anche, contestualmente, un diffuso movimento di erotizzazione del mondo: da una parte, dunque, l’eros costruisce un’impalcatura concettuale e desiderante innestandosi sulle meccaniche biologiche, riproduttive; dall’altra, il sapere erotico impregna sempre più la dimensione sociale umana, giungendo, negli ultimi tre millenni, ad assumere un ruolo fondamentale nelle relazioni (non solo materiali) tra i membri del genere Homo. La Natura, in realtà, attraverso il sesso e la progressiva erotizzazione dell’esistente, viene ad essere sempre più presente, benché frammentata, individualizzata e diluita in un gran numero di dinamiche particolari. La sua generalità – ossia il bacino comune a tutti i viventi – viene quindi subordinata a una progressiva personalizzazione individuale e di gruppo, producendo continuamente nuove differenze, nuove caratterizzazioni. Gli elenchi dei peccati a sfondo sessuale nei penitenziali cristiani, le catalogazioni sadiane delle 120 journées de Sodome o la proliferazione dei sottogeneri nella pornografia di massa, sono altrettante estremizzazioni di un tale movimento storico. Si cerca d’imbrigliare la Natura e di tenerne sotto controllo gli aspetti ingovernabili, ma ciò conduce l’uomo a una sempre maggiore complessità nella gestione sociale dei dispositivi di controllo, arrivando addirittura a concepire dei sistemi tendenzialmente abiotici come alternativa tecnologica alla “natura umana”.

Da una parte, l’eros costruisce un’impalcatura concettuale e desiderante innestandosi sulle meccaniche biologiche, riproduttive; dall’altra, il sapere erotico impregna sempre più la dimensione sociale umana, giungendo, negli ultimi tre millenni, ad assumere un ruolo fondamentale nelle relazioni.

Via Tim Tadder

Ma per quale motivo tu arrivi a piacermi? Che cosa ti porta a incarnare e a riempire di sangue il mio desiderio? Qual è la molla che me lo fa rizzare deponendo a favore del mio desiderio, del nostro desiderio reciproco?
Come si noterà, generiamo ancora questioni, ancora e sempre questioni. Sembra quasi che le domande scatenino leccitazione – la spavalderia del desiderio – e che l’eccitazione stessa, a sua volta, infittisca le questioni rendendo sempre manchevoli le risposte che ci diamo.
Interroghiamoci comunque su ciò che affiora, sulla critica che mettiamo in pratica per realizzare un senso, una selezione delle esperienze, e impariamo altresì a sfrondare l’inessenziale e a evitare i vuoti di sangue dei nostri corpi.
Finché usiamo parole e segni di qualche genere per rivolgerci agli altri, ci limitiamo a comunicare loro qualcosa e a mantenere la nostra comunicazione dentro una distanza, un distacco. La comunicazione, in altre parole, ci consente di attraversare il territorio che abbiamo in comune con gli altri senza dover ridurre necessariamente le distanze che ci separano da essi e senza che si sia costretti a una fisicità del contatto, a una materialità immediata del rapporto. La comunicazione è lo spazio comune della mediazione. Riduce i vuoti del senso, non le separazioni originate dal senso stesso. Nel perimetro della comunicazione, tutto può avvenire – e avviene – per il tramite di strutture rappresentative, linguistiche, ecc., che sono altrettante protesi del senso. Alcune manifestazioni del vivente sfuggono però a queste manovre, vanno al di là di ciò che se ne potrebbe rappresentare e chiedono a gran voce una negazione di tutte le distanze e di tutte le cautele. Le tumescenze erettili di natura erotica ricadono senz’altro in questa tipologia di eventi. Lerezione annuncia, enuncia e rappresenta l’avvento del desiderio carnale, ma non si accontenta di essere mediazione; chiama infatti alla soddisfazione, al godimento di ciò che l’ha provocata. Resta quindi parte di un concatenamento che si vuole materiale, e teso ad abbattere ogni mediazione immateriale, rappresentativa.

La comunicazione ci consente di attraversare il territorio che abbiamo in comune con gli altri senza dover ridurre necessariamente le distanze che ci separano da essi e senza che si sia costretti a una fisicità del contatto, a una materialità immediata del rapporto.

Nella costruzione di senso che è il marchio dellesperienza umana, il problema non è il desiderio, bensì la realtà materiale del desiderio, il funzionamento reale del pensiero a stretto contatto con la materia dei corpi.
La realtà è ciò che ci tocca fin dentro il pensiero – attraverso la superficie dei corpi, l’unicità materiale dei nostri corpi – ed è anche la concretezza della psiche, dello “spirito”, luoghi altrettanto unici dei loro supporti carnali.
Ciò che ci tocca reca con sé affetto, affinità, oppure offesa, contraddizione, esacerbazione delle differenze.
Nei casi in cui occorra risolvere o attutire “socialmente” la situazione di conflitto, il pensiero produce la dialettica, ossia il proprio affinamento per contrasto, come pure la propria critica, il proprio movimento critico, in una continua oscillazione tra la realtà esteriore e quella interiore, tra le dinamiche sociali eterodirette e il pensiero della propria esperienza del mondo.
Il desiderio, dialetticamente, è anche il desiderio di desiderare, l’affermazione e il continuo rilancio del movimento desiderante. Proprio per questo, esso nega ogni proposito di stabilire il pensiero critico (la critica del pensiero) in una situazione meramente attuale o necessaria. La potenza dialettica del desiderio fonda infatti un’attrazione incessante e di segno opposto a qualsiasi tradizione “spirituale” dell’uomo.
Se io narro il desiderio, se dico chi o cosa voglio occupare col mio desiderio, se affermo la volontà di avere ciò che desidero soprattutto dicendo e rendendo comune il mio desiderio, finisco per costruire o inventare un campo di possibilità in cui attirare l’Altro.
Il mio desiderio apprende costantemente dai suoi attraversamenti dello spazio e, nel contempo, organizza i proprî apprendimenti per stabilire o rinsaldare il senso che do ai miei interventi, alla mia potenza. In questo movimento di “mappatura” dell’esistente desiderabile, finisco però per irretire l’Altro in modo involontario o deliberato subordinandolo alla mia soddisfazione.
Il territorio dell’amore socialmente determinato diventa così una trappola. Una trappola per i corpi, le stelle, le “anime”. Bisogna invece lasciare uno spiraglio, una porta socchiusa, una possibilità di sganciamento per sé, per l’Altro. Trovare cioè una consonanza, una condivisione territoriale che non sia vincolante, ossessiva. Occorre scardinare tutti gli idealismi che inchiodano l’affetto dentro una concezione rigida dell’amore. Il saper vivere è la propria liberazione dell’amore, dall’amore, realizzata insieme a coloro che mettono in comune con noi un affetto o una contraddizione. In tutto questo, bisogna però capire che la vera conquista non è l’amore, il contratto sentimentale, bensì la premura, la tenerezza, la condivisione gentile delle rispettive intelligenze.

(2 – continua)

CARMINE MANGONE è agitatore poetico, traduttore e saggista. Ha scritto di erotismo e dell’oscillazione tra gli estremi per diverse riviste e antologie. È autore, tra gli altri, di Punk Anarchia Rumore (Crac Edizioni), L’insurrezione che è qui (Gwynplaine) e Se questo si chiama amore, io non mi chiamo in alcun modo (Ab imis). Redige «Il pesanervi» e cura per Neutopia «Per una storia del godimento», di cui potete leggere qui la prima puntata.


[1] D.A.F. de Sade, Histoire de Juliette, ou les Prospérités du vice, 1801, parte IV.

[2] La Philosophie dans le boudoir, 1795, dialogo V: «Il n’est point d’homme qui ne veuille être despote quand il bande». Curiosità: in un’edizione italiana del testo sadiano, la frase qui citata scompare come per incanto (cfr. Sade, Opere complete, volume III, Newton Compton, Roma, 1993, p. 160), eppure la lettera dell’originale pare anche fin troppo chiara.

Immagini di Tim Tadder

E nondimeno la tenerezza

Stai tranquilla, non credo a una
sola parola che dici, ma a tutte insieme.

Ingeborg Bachmann

Ci sono di quelli che provano e riprovano un brano musicale, restando ligi alle indicazioni dello spartito, finché non sono contenti della propria fine esecuzione. Io, all’opposto, perseguo il fragore deragliante di un destino contro il quale lotto ogni giorno per il puro gusto di non darla vinta all’idea di morte che vien legittimata dagli spiriti servili.
Però non mi si fraintenda. Mi occupo meno dei presunti umani e molto più di quel movimento che potrebbe riconsegnarmi, anche mio malgrado, e in ogni momento, al bacino comune della materia vivente.

Io sono qui, nel mio dolce divieto della banalità, insieme all’oblio che ci abbandona tutti sulla nuda terra, e mi tengo in uno spazio aperto che è fatto sempre più di non sapere, tappeti di trifoglio e movimenti eterni.
Detesto profondamente la gente che insegue il bello stile, la cialtroneria democratica della letteratura, i premi, i lettori, la critica cazzinculo, come pure la poesia senz’orgasmi, senza fica, senza pompini, vale a dire tutta quella poesia da decerebrati che strizza l’occhio al potere, e che si vuole senza fottisterio, senza la santa frociaggine dell’universo – quella poesia, insomma, che fa la muffa, la ruggine, e che proprio per questo avrebbe bisogno di una bella passata di minio (non di arminio).

Contro la boria poetica di “paesologhi” e recuperatori della ruralità, io sono per lo spopolamento dell’interno, di qualsiasi interno (anche del mio, anche del vostro).

Contro la boria poetica di “paesologhi” e recuperatori della ruralità, io sono per lo spopolamento dell’interno, di qualsiasi interno (anche del mio, anche del vostro).
Abbiate quindi cura di lasciare la gratuità ai faggi, agli ontani, ai lupi, alle martore, al gatto selvatico. Accettate il consiglio del proletariato animale o dei lumpen vegetali: morite in guerra dentro le vostre città di merda e non state a preoccuparvi della materia vivente che vi seppellirà.
Allungare le mani e fare una carezza ad ogni possibile del mondo. Non è difficile. Non è gravoso. Basta solo staccarsi dalle proprie certezze senza farsi schiacciare dalla necessità. L’affetto non può diventare una necessità. I piccoli di cinciallegra spiccano il volo e non torneranno mai più al nido. Occorre scrollarsi di dosso i limiti del padre e della madre, uscire dai loro puerili ricatti sentimentali e disconoscerne ogni potere sui nostri migliori accanimenti.

Via Jesse Draxler

Ho costruito il mio pensiero e le mie visioni dell’esistente a partire da una massa di informazioni, schemi, abitudini ed errori che mi è stata consegnata dai Padri e dalle Madri dell’umanità. Non diversamente da chiunque altro, ho dovuto assecondare questo passaggio, questo affido, almeno finché non si è andata sviluppando in me una personale capacità critica.
Le narrazioni storiche del mondo sbozzano l’arredo emozionale e affettivo del singolo. Attraversando idee e luoghi, maturiamo poi un nostro andamento critico lungo lo snodarsi degli eventi. Ed è proprio grazie alla critica – intesa come autonomia di pensiero nel divenire del mondo – che giungiamo alla consapevolezza della nostra unicità.
Il processo critico di costruzione e sviluppo dell’unicità può avere molto di singolare, ma niente di separato. L’unicità è come un taglio nell’infinito srotolamento delle relazioni – l’emergenza di un ritmo jazz delle particelle – la semplicità che diventa l’opposto della parsimonia – uno choc gentile, costruito, irreplicabile, che fa una tacca, ogni volta, lungo il movimento generale del nostro vivere.
Quindi: l’unicità è l’irruzione del senso, l’addensamento migliore e sempre effimero di tutti i possibili in uno spazio riconoscibile, aperto, ma non necessariamente cartografabile.

L’unicità è l’irruzione del senso, l’addensamento migliore e sempre effimero di tutti i possibili in uno spazio riconoscibile, aperto, ma non necessariamente cartografabile.

Tra le opere che non sono sprofondate nella palude della letteratura mainstream, mi torna in mente il Bebuquin di Carl Einstein, questo prodigioso antiracconto del 1912, che continua a non dirci alcunché di accomodante e ad insinuare altresì ogni arbitrio possibile dentro il flusso della narrazione, sbattendo in faccia al lettore un intellettualismo sardonico, posticcio, tale da far sembrare l’autore una sorta di Karl Kraus in acido: «Bebuquin, con te i conti non mi sono ancora tornati. Abbiamo dormito insieme, ed ecco che t’arriva la filosofia, e questo è davvero comico. Con te non ci si può prendere sul serio, un contrasto divora l’altro».
E che dire di Je ne mange pas de ce pain-là del sedizioso Benjamin Péret, di questa sua raccolta di veemenze surrealiste (uscita nel 1936) che ha ridotto la poesia a un coacervo di micro-libelli sovversivi anticipando in qualche modo, e di ben quattro decenni, l’astio e la bricconeria anarcoide di certi testi punk? «Allora gli uomini che schiacciano i senatori come cacca di cane / guardandosi negli occhi / rideranno come le montagne / obbligheranno i preti ad ammazzare gli ultimi generali con le loro croci / e a colpi di bandiera / massacreranno i preti in un amen». Ricordo ancora con emozione la pietra tombale del poeta, al cimitero parigino di Batignolles, su cui campeggia il titolo dell’opera in questione. Poteva mai esserci epitaffio migliore per un ingovernabile come Péret?

Via Collateral

Poesia è ciò che albeggia nonostante la morte. Anzi, poesia è proprio ciò che contrasta e accoglie la nostra mortalità creando una promessa di pienezza ed emergendo dal fondale del cosmo come un battito, un ritornello, una sorta di basso continuo che accompagna storicamente la ricerca di un varco attraverso le coltri della necessità.

Poesia è ciò che albeggia nonostante la morte. Anzi, poesia è proprio ciò che contrasta e accoglie la nostra mortalità creando una promessa di pienezza ed emergendo dal fondale del cosmo come un battito, un ritornello.

La poesia contemporanea – la poesia uscita dagli smacchi di Rimbaud e Lautréamont – non narra, non socializza, non indugia sui dati edipici che ci vengono trasmessi col verbo dei padri. Minando i confini del discorso, essa sormonta le rappresentazioni del mondo e fa riaffiorare le voci che son state sommerse storicamente dalle narrazioni sociali – o almeno tenta, viene tentata.
Un altro grande antagonista dell’Edipo – in aperta rivolta contro le narrazioni dei padri, delle madri e contro la sua stessa madrelingua (il romeno, abbandonato ben presto per un francese fantasmagorico, in continua ricombinazione) – è stato senz’altro Ghérasim Luca. Poeta dell’oltranza, Luca ha rifiutato ogni cittadinanza alla propria opera, preferendo annegarsi nella Senna anziché accettare una qualche subordinazione anagrafica, letteraria. I suoi “balbettamenti” – tanto cari a Deleuze – hanno infuso nuova potenza ai significanti e aperto inusitati territori al senso delle parole: «ne dominez pas vos passions rations vos / ne dominez pas vos ne vos ne do do /minez minez vos nations ni mais do / minez ne do ne mi pas pas vos rats / vos passionnantes rations de rats de pas». Il suo, resta un ironico, deliberato farfugliare, che cela un reale attacco sia alla poesia dopolavoristica, sia alle ipostasi burocratiche della cultura: ricerca di una prosodia singolare, attuale, ma, al tempo stesso, riconoscibile e antica come i movimenti tettonici della Terra; costruzione di un ritmo e di una molteplicità del senso che possano rivelarsi all’altezza del cuore feroce e bambino di ogni autentico agitatore poetico. Niente a che vedere, quindi, col nichilismo piccolo-borghese da bar Sport o coi giochini da impiegati zelanti della negazione culturale.

Ghérasim Luca in Passionnément

In Italia, fra il dilagare degli scribacchini egotici e la “baciperuginizzazione” della poesia, rimangono sempre più rari gli autori grondanti autenticità, come ad esempio il tenero e boccaccesco Victor Cavallo (al secolo Vittorio Vitolo, morto nel 2000), del quale occorrerà assolutamente salvare almeno il testo apparso nel giugno 1979 sul n. 1 di Guida Poetica Italiana e che si chiude così (con toni quasi artaudiani): «(…) lei apparirà. Bruciando i tampax dell’anima sanguinante. / apparirà con gli occhi verdi e ciglia nere e bocca rossa / anima luminosa come arcobaleno puro / radice che spiega con tutta la chiarezza perché questa merda è merda / e finirò di vivere la vita con la paura di vivere la vita».
Al giorno d’oggi, si tende a confondere la semplicità con l’infantilismo, lo zen con la stitichezza, la bellezza col decoro, e nessuno più è in grado di ridarci l’immediatezza e la gioia di un Rodari o, men che mai, l’apparato delicato e critico della sua Grammatica della fantasia.

Giornata di duro lavoro nell’uliveto, ormai finita. Soddisfatto, mi verso del vino bianco mentre imbrunisce e osservo compiaciuto un piccolo geco che passeggia lungo il soffitto della cucina. Fuochi sulla collina di fronte e un secondo bicchiere di vino tengono compagnia a una deliziosa falce di luna che occhieggia verso Sud-Ovest. Intanto mi ritrovo a pensare: la materia fa miracoli; non Dio, bensì la materia, soltanto la materia che si ricombina portandoci al cuore delle cose senza nome. E penso, anche, che vi sia una tenerezza in tutto questo, una tenerezza che scioglie la mia stanchezza ponendo ogni cosa sullo stesso piano del geco, dei fuochi, della falce di luna. Una tenerezza che non muore e che accoglie, ancora e sempre, la feroce poesia di tutte quelle pietre che si negano alla stoltezza di Sisifo. (Perché il miglior compagno della tenerezza è il rigore dei desideri che sa accogliere l’altro senza asservirlo, senza farsi ritornello della servitù.)

Laureana Cilento, 2019-2020


CARMINE MANGONE è agitatore poetico, traduttore e saggista. Ha scritto di erotismo e dell’oscillazione tra gli estremi per diverse riviste e antologie. È autore, tra gli altri, di Punk Anarchia Rumore (Crac Edizioni), L’insurrezione che è qui (Gwynplaine) e Se questo si chiama amore, io non mi chiamo in alcun modo (Ab imis). Redige «Il pesanervi» e cura per Neutopia «Per una storia del godimento», di cui presto uscirà la seconda puntata.

Collage di Jesse Draxler

Per una storia del godimento

Nel pensiero occidentale del XXI secolo, dopo la sbornia ideologica del Novecento, si dà ormai più importanza ai nomi delle cose anziché alle cose, all’inseminazione anziché al seme, giungendo contraddittoriamente a pregare l’assenza di Dio fino a riderne senza più alcuno sprezzo del patetico.
L’albero della conoscenza, assediato da ogni lato dai rampicanti dello scetticismo e della disillusione, ha perso memoria dei concatenamenti indispensabili tra radici e frutti, e se ne sta rachitico, in mezzo a una miriade di saperi frammentari, come risultante di un mondo che gestisce la frammentazione e la perdita di senso inventandosi senza requie un post-qualcosa blandamente terapeutico.
Laddove gli -ismi permettevano la gestione autoritaria dei saperi, oggi abbiamo un mondo che si aggancia ai propri postumi politico-culturali nascondendone le implicazioni dispotiche attraverso la liberalizzazione democratica delle tecnologie.
Per intanto, almeno da Bataille in poi, se mi costringo a pensare alla morte, e soprattutto alla mia stessa morte, giungo a ridere di tutto, anche della morte degli altri, ma senza disgusto, senza disprezzo, calandomi in ogni morte come se mi spogliassi nudo di fronte alla più grande eventualità di vita. Immaginate dunque quanto potrei ancora ridere se uccidessi in me anche l’ombra di Dio!
Proprio il processo storico chiamato Dio si è rivelato l’ultimo termine prima che i nomi esplodessero in un nuovo corpo – e questo corpo novello è il comune, l’assenza di termini, di confini – dove «confine» non è sinonimo di «estremo».
Lestremo non tollera limitazioni. Può insediarsi ovunque. Non è ricerca del vizio, bensì poesia, coltivazione del miglior senso possibile applicata al conseguimento della soddisfazione, della gioia, e che dà un senso al divenire, alla comunità di chi ritrova l’Altro soprattutto – o forse soltanto – attraverso la continuità dei propri smarrimenti, dei propri entusiasmi, senza più asservirsi storicamente ad alcuna speranza.

Lestremo non tollera limitazioni. Può insediarsi ovunque. Non è ricerca del vizio, bensì poesia, coltivazione del miglior senso possibile applicata al conseguimento della soddisfazione, della gioia, e che dà un senso al divenire.

In Madame Edwarda di Georges Bataille – racconto esacerbato, da educanda ormai avvilita (cfr. Oeuvres complètes, tome III, Gallimard, Paris, 1971, pp. 7-31) –, Dio si prostituisce e prende le fattezze di una donna lussuriosa, «malata», febbrile, così da poter avere ancora qualcosa da dirci all’estremo di ogni racconto, di ogni narrazione. Ostentando un sesso beante, e facendosi più nuda della morte, Edwarda si spalanca le grandi labbra e sembra dirci: ho perdonato all’uomo di essere uomo, al maschio di essere maschio e a me stessa di essere femmina; ora posso amare chiunque, anche chi mi porta in dono la sua morte, ma solo se non mi seppellisce sotto la verità economica dell’amore.

Nel racconto di Bataille, Dio è una puttana di bordello, una figura femminile asservita al pòlemos del discorso erotico dominante, agli stilemi della narrazione maschile e maschilista. Ciò nonostante, sfigurata dal vizio della narrazione e dalla narrazione del vizio, ella rimane un tentativo di salvezza, una sorta di salvagente per la ragione che fa acqua da tutte le parti, per cui la sua figura non si sgancia realmente dal dominio del sacro e delle pratiche sacrificali (si tenga a mente che «sacrificare» deriva dalla combinazione di sàcer e fàcere: «rendere sacro», appunto).
Curiosamente, ma non certo casualmente, l’ostensione oscena della Madame Edwarda batailliana ricorda le vicende di una religiosa molisana vissuta nella Napoli del Seicento: suor Giulia di Marco. Condannata dallInquisizione nel 1615, morì in prigione a Castel Sant’Angelo. Del suo caso ci resta una sola cronaca, scritta peraltro da un anonimo avversario, per cui è senz’altro da ritenersi faziosa, se non addirittura calunniosa (Istoria di suor Giulia di Marco e della falsa dottrina insegnata da lei; alcune versioni manoscritte si trovano presso la Biblioteca nazionale di Napoli: posizioni XIV-E-58 e XIV-X-52). Secondo le accuse, la si riteneva tra i fondatori di una setta – detta della «carità carnale» – che prevedeva rituali a sfondo sessuale. Pare infatti che i suoi seguaci partecipassero a riunioni segrete durante le quali s’inginocchiavano di fronte «alle parti impudiche di Suor Giulia baciandole e chiamandole porte aperte del Paradiso, e che li cieli s’aprivano per vederle», rito che poi sfociava in vere e proprie orge.
Madame Edwarda si pone dunque su una soglia critica, dove il discorso teologico viene rovesciato, ma non infranto. La prostituta della narrazione batailliana, a un certo punto, quasi inopinatamente (ma la rivelazione non ha sempre qualcosa di inatteso, di sconcertante? “Vedi, guarda, sono Dio”), si apre le grandi labbra, spalanca il proprio sesso di fronte al protagonista – al lettore – e gli offre così una sorta di sacramento, di ufficio carnale. L’idea di Dio riemerge allora da un sesso tumescente e si rivela agli uomini in un tentativo di rottura con ogni forma di colpa o innocenza statuita storicamente.

Madame Edwarda si pone su una soglia critica, dove il discorso teologico viene rovesciato, ma non infranto.

Evidentemente, qui non abbiamo però una sospensione del commercio. Anzi, il «commercio carnale» si fa mediazione religiosa, valore, equivalente generale (almeno in potenza) di ogni sacralizzazione dello scambio carnale, materiale. Abbiamo infatti pur sempre la trasmissione del sacro attraverso una comunione che ha bisogno di «ostie», mediazioni religiose, nonché una valorizzazione finanche dell’osceno!
Forse solo alla fine del racconto, quando Madame Edwarda si concede senza contropartita al primo venuto, cioè al tassista che carica lei e il protagonista all’uscita dal bordello, forse solo allora si ha una cesura nella dialettica norma/trasgressione che sottintende il sacro e le sue pratiche riparatrici, espiative, generalmente unitarie. Ma qui il racconto s’inceppa, il filo narrativo si spezza. Scompare anche la soglia, anche la necessità di tenersi in equilibrio su di essa, perché accade che venga sospeso ogni valore, ogni dinamica di valorizzazione, perfino la poesia, l’amore, e si spalanchi d’improvviso un territorio inesauribile, inaudito, spaventevole. Bataille, nella sua estenuata ricerca di senso, giunge alla bestemmia: «Dio, almeno lui, saprebbe? dio, se “sapesse”, sarebbe un porco», e spegne così la propria volontà di narrazione arenandosi sulle rive del non-senso, come un animale impazzito che giri in tondo cercando di mordersi la coda.

Laddove Sade aveva agganciato ideologicamente ogni pratica e ogni tentativo teorico alla potenza della Natura, che ai suoi occhi tutto legittimava e comprendeva, la ricerca di Bataille, invece, toccando la materia estrema dei viventi, perde in sicurezza e ha bisogno di trovare un nuovo equilibrio nel suo stesso vuoto, come pure un metodo per affrontare la sospensione della totalità, di ogni idea storica di totalità, ma così facendo conduce l’esperienza dell’uomo, teoricamente, all’estremo del possibile.
L’impossibile diventa allora la comunanza col vuoto, la comunanza tra coloro che si son chiamati fuori da ogni comunità e che danzano pateticamente (in senso etimologico) al limite dell’esperienza umana. Non viene combattuta la sofferenza, ma la si sussume nell’impianto teorico per mezzo della mediazione «lussuriosa».
Ora, se il bisogno di riparazione giunge fino al punto di spalancare le profondità del corpo per sacralizzarle e renderle quindi partecipi dello scambio, facendone uno strumento avanzato – ancorché ardito, «osceno» – per la ricomposizione, la «rilegatura» delle separazioni sociali, occorre sottolineare che un tale movimento di valorizzazione può reggere solo in un abbandono «sovrano», in un rapporto di subordinazione rispetto all’abbandono stesso. Non appena riemerge la critica, non appena il divenire e il mutamento ci incitano all’oltrepassamento della «notte nera», appare evidente la presunzione di chi voglia spalancare le gambe dell’Altro (o le proprie) facendone un mezzo di ricomposizione astratta del vuoto esistente tra i viventi.

Laddove Sade aveva agganciato ideologicamente ogni pratica e ogni tentativo teorico alla potenza della Natura, la ricerca di Bataille, invece, perde in sicurezza e ha bisogno di trovare un nuovo equilibrio nel suo stesso vuoto.

L’immagine della «notte nera» deriva da un passo di Marguerite Duras, preso da un testo del 1982, La Maladie de la mort, nel quale torna lo spalancamento osceno del sesso femminile: «Voi chiedete come potrebbe nascere il sentimento d’amore. Lei vi risponde: Forse da una frattura improvvisa nella logica dell’universo. Dice: per esempio da un errore. Dice: mai da un volere. Voi chiedete: Il sentimento d’amore potrebbe arrivare anche da altro? La supplicate di rispondere. Lei dice: Da tutto, da un volo d’uccello notturno, da un sonno, dal sognare di dormire, dall’avvicinarsi della morte, da una parola, da un crimine, da sé, da se stessi, improvvisamente, senza sapere come. Dice: Guardate. Apre le gambe e, nell’incavo delle gambe aperte, voi vedete infine la notte nera. Dite: Eccola, la notte nera, è qui» (M. Duras, La Maladie de la mort, Les Éditions de Minuit, Paris, 1982, pp. 52-53).
I protagonisti del racconto durassiano sono un uomo – etero od omosessuale, poco importa – e una donna che egli paga per alcune notti, ma che non è dichiaratamente una prostituta. Lungo tutto lo snodarsi della narrazione, rimane preminente l’interrogarsi dell’uomo. Anzi, le questioni che egli pone rappresentano i nodi stessi della narrazione e riguardano la sua (presunta) impossibilità ad amare, a desiderare, a realizzare l’amore. La donna definisce questa impossibilità usando una definizione folgorante e lapidaria: «malattia della morte». Morte intesa come inabilità a creare un territorio comune, come seppellimento del sé nell’Io interrogante, come ricerca pretestuosa di un metodo, di un progetto che sopravviva ai corpi senza metterli in gioco compiutamente. Lei però non contrasta la malattia della morte, non si ritiene la cura, né si pone il problema di esserlo; nell’economia della narrazione, si limita a impiegare il proprio corpo insieme a pochissime parole. La sua comunicazione è un tentativo di salvaguardia dell’essenziale. Non dice molto. Risponde con semplicità, affermando senza violenza la sostanziale incapacità dell’uomo a privarsi dell’interrogazione. Si fa pagare, rispetta il contratto e infine sparisce, ma non resta succube dello scambio, non si preoccupa di creare un’intesa a partire dalla valorizzazione del suo corpo. Sparisce e basta, dopo aver riempito la stanza e le notti con il suo corpo, con l’eventualità di un amore neanche tentato. In tutto questo, lui si accontenta di perderla senza perdersi, volendo forse, fin dall’inizio, mantenersi alla superficie di uno smacco annunciato – e proprio qui sta il suo vero limite: mancare di coraggio e averlo sempre saputo; sentirsi l’amante dell’impossibile – una figura batailliana – per poter restare il depositario di un amore intangibile, ideale.

A questo punto della trattazione, ponendo in una relazione arbitraria, ma nient’affatto abusiva, i succitati racconti di Bataille e Duras, possiamo individuare i due limiti del sacro: da una parte, la sacralizzazione, (il sacrificio) finanche dell’estremo, dell’osceno; dall’altro, lo scontro con l’inconoscibile, con la «notte nera», l’ammissione di uno smacco, di una incapacità nel proseguire la ricerca lungo i crinali scoscesi del senso, del sacro stesso. La costruzione di una macchina mitologica lussuriosa crea e sacralizza il circulus vitiosus del desiderio individuale e tende a collettivizzarlo nel cerchio magico di un processo religioso. In questo movimento, la trasgressione della norma resta funzionale alla ricomposizione astratta – tutta culturale – delle contraddizioni materiali.
Plagiando Feuerbach, si potrebbe allora dire che la fica, in Bataille, diventa attributo del divino – almeno per il maschio etero – e che la femmina dell’uomo (anzi, un suo dettaglio, un suo movimento di dettaglio) scalza Dio facendosi strumento della rivelazione, ierofania destinata a eludere o a tentare la «notte nera», costruendo così un moderno e curioso punto di contatto fra teologia e pornografia.

Plagiando Feuerbach, si potrebbe allora dire che la fica, in Bataille, diventa attributo del divino.

Risulta però evidente come venga ancora a mancare lo scarto decisivo, il culmine del carnale, che potrebbe affermarsi soltanto attraverso una critica consapevole, autonoma – non teologica, né pornografica – capace di esaltare l’unicità del singolo e l’insieme delle sue relazioni senza ridurli all’uno, senza subordinarli a una reductio ad unum, a una rilegatura sacrale, sacrificale.
Nel ribaltamento antropologico e osceno dell’essenza divina, Bataille opera un’insurrezione a metà, una theologische Insurrektionen: la formula – ironica – è di Max Stirner. In altre parole, se l’estremizzazione «oscena» dei corpi non annienta il sacro, se il sacro sopravvive e si rafforza addirittura attraverso il «vizio», il singolo resterà subordinato a dei dettagli teologico-pornografici, a uno spettro del godimento, della «redenzione», e non potrà mai godere compiutamente della propria unicità psico-fisica e relazionale.

Se il sacro sopravvive e si rafforza addirittura attraverso il «vizio», il singolo resterà subordinato a dei dettagli teologico-pornografici, a uno spettro della «redenzione», e non potrà mai godere compiutamente della propria unicità psico-fisica e relazionale.

Ancora in Stirner troviamo abbozzate la volontà e la brama di un deciso mutamento di prospettiva: in quanto vivente consapevole della propria unicità, io cerco di prendere ciò di cui ho bisogno, tento di non farmi diminuire nella mia potenza e mi voglio come «l’inizio e il materiale da usare per una nuova storia, una storia del godimento dopo la storia del sacrificio [einer Geschichte des Genusses nach der Geschichte der Aufopferungen], una storia non dell’uomo o dell’umanità, ma – mia» (Max Stirner, Der Einzige und sein Eigentum, Reclam, Stuttgart, 1972, p. 198).
La storia del godimento propugnata da Max Stirner si pone dunque contro il godimento della storia fissato astrattamente dalle dinamiche sociali. In una tale prospettiva, la «notte nera» lascia il posto all’aurora, all’affetto, a un tentativo di continuità tra i viventi, le cose, le parole. Nell’affermazione del desiderio, ci sono svelamenti che denunciano immediatamente le mancanze della poesia, soprattutto quando tali mancanze tendono a neutralizzare la potenza del vivente. La vera regola del comune è la gioia condivisa. L’affetto non può essere un assedio, una sentenza di vita o di morte. Le porte del corpo possono solo essere un transito per l’affetto, non un tabernacolo, non una «moneta vivente». Nel pensiero e nelle narrazioni di Bataille, non vi è luce per i viventi, né gaiezza per coloro che si relazionano materialmente, carnalmente. All’interno della sua opera, la gioia è la grande assente. Per scongiurare la «notte nera», occorre dunque leggere Bataille anzitutto contro le sue stesse idee fisse, e allargare il territorio, abbattere gli steccati del discorso erotico, ambire finalmente a una transessualità dilagante del pensiero.

(1 – Continua)

CARMINE MANGONE è agitatore poetico, traduttore e saggista. Ha scritto di erotismo e dell’oscillazione tra gli estremi per diverse riviste e antologie. È autore, tra gli altri, di Punk Anarchia Rumore (Crac Edizioni), L’insurrezione che è qui (Gwynplaine) e Se questo si chiama amore, io non mi chiamo in alcun modo (Ab imis).

Copertina di Wojtek Siudmak