Contabilità

– Il tendine del tuo bicipite è come una molla che ha perso la sua funzione elastica. Ma sarà il tuo ortopedico a definire la diagnosi.
Il radiologo mi stringe la mano sorridente e si dilegua senza lasciarmi possibilità di replicare. Oltre al referto della risonanza magnetica, nello zaino ci caccio qualche vaffanculo e lascio il reparto del policlinico mentre la puzza di minestrina si diffonde.
Per strada le chianche rimandano moltiplicato il calore assorbito; il sole, già basso dietro le alture che arginano il golfo, picchia ancora duro e il cielo rifrange i colori di un tramonto che stratifica tonalità di rosso e di blu.
È  uno spettacolo della natura che meriterebbe maggiore attenzione nel nulla urbano. Lo guardo, poi mi infilo in macchina per lasciarmi risucchiare dal traffico, maledicendo il dannato capo lungo del bicipite destro.

Lui rientrava a casa nel mezzo del pomeriggio. Ubriaco, al solito. Io facevo i compiti nel soggiorno occupando il tavolo, il suo miglior supporto per le  bottiglie di birra. Quando mi trovava lì, ringhiava come un cane che impone il dominio sul territorio. Dovevo subito sgombrare la superficie, altrimenti buttava tutto  per aria con un gesto solo. Libri, quaderni, penne prendevano il volo prima di schiantarsi sul pavimento insieme al posacenere pieno di cicche consumate da mia madre.
– È  lì che devi stare! –  urlava, mentre raccattavo le mie cose.

Quando mi trovava lì, ringhiava come un cane che impone il dominio sul territorio. Dovevo subito sgombrare la superficie, altrimenti buttava tutto per aria con un gesto solo.

Una volta mi disarcionò dalla sedia strattonandomi violentemente per un braccio. Mi slogò il polso destro e mi buttò fuori, sul balcone, intimandomi di non muovermi fino a nuovi ordini. Era inverno e mi ammalai, ma il giorno dopo provai lo stesso ad andare a scuola. Preferivo soffrire in classe, intontito dalla febbre e dal vuoto di energie, piuttosto che starmene nell’inferno di casa.
Svenni durante la lezione. Mia madre venne a recuperarmi mentre giacevo abbandonato su una sedia in segreteria. Il maglione nascondeva  quei toni violacei inequivocabili che coloravano parte del dorso della mano e tutto il polso. Ricordo la frustrazione per non essere riuscito a scrivere a tempo con il dettato della maestra, quel giorno.

Mi sforzo di decifrare la terapia suggerita: riposo funzionale, crioterapia homemade, integratore e antinfiammatorio. “Va bene tutto, tranne il riposo.”

La ricetta dell’ortopedico sembra un cazzo di sismogramma. Mi sforzo di decifrare la terapia suggerita: riposo funzionale, crioterapia homemade, integratore e antinfiammatorio.  “Va bene tutto, tranne il riposo.” Perciò prendo le pillole, mi incollo il taping al braccio e vado in palestra. La routine di oggi esclude gli arti superiori. Agli altri workout che assegnano un incarico diretto o indiretto alle braccia, ci penserò dopo. Distribuisco i dischi sul bilanciere, già sistemato sui rack, a un’altezza che raggiunge il mio sterno. Inizio con poco, mi scaldo. Poi faccio sul serio.
Guardo il bilanciere e mi interrogo su quanti dischi ancora potrò caricarci sopra, da un lato e dall’altro, prima di collassare al suolo. Me lo chiedo ogni volta, in realtà. Forse sto cercando il black-out. Ci sono andato vicino diverse volte, ma non è mai successo. Porto questa contabilità fatta di serie, ripetizioni, tempi di recupero, record di sollevamento. In ogni allenamento, per ogni esercizio. Analizzo il bilanciere come se lo vedessi per la prima volta. Sembra un banale tubo di metallo freddo da venti chili distribuiti in duecentoventi centimetri, ma può sopportare oltre trecento chili di carico: quasi quattro volte il peso del mio corpo. Scivolo sotto e posiziono bene gli arti inferiori assumendo una posizione che ricorda in parte un film porno, in parte un film comico. I polpastrelli scorrono le parti lisce e individuano le zigrinature che si intervallano  per indicare centro e impugnature.
“Quante serie? Fai un’ipotesi! Quante ripetizioni? Fai un’ipotesi! Quanti minuti di recupero? Fai un’ipotesi.” Numeri, numeri, ancora numeri e ipotesi in un dialogo che non muore mai dentro di me.
Stacco e vado: io e il ferro siamo tutt’uno. Mi piacerebbe sapere quante aree del mio cervello sono iperattive adesso. Devo contare le ripetizioni, devo essere concentrato in ogni fase del movimento, devo darmi coraggio. Annuso la paura di fallire, raccolgo la rabbia. Misuro le forze e le oppongo alla fatica. Il dolore mi afferra, lo ospito e lascio che si dipani tra le mie cellule, che migri in tutto il corpo, che diventi me. Poi arriva l’eco di un allarme rosso a intimare la resa. Ebbro di adrenalina, ne cavalco l’onda crescente. Sfinito ma contento firmo l’armistizio. Guardo il cronografo e ricomincio a contare i secondi che mi dividono da una nuova serie.

Ebbro di adrenalina, ne cavalco l’onda crescente. Sfinito ma contento firmo l’armistizio. Guardo il cronografo e ricomincio a contare i secondi che mi dividono da una nuova serie.

– Vedi  – mi disse una volta l’alcolizzato – anch’io studio aritmetica.
Era venuto a condividere il tavolo con me. Ero atterrito da questo  comportamento insolito e cercavo di fissare il quaderno a quadretti, mentre fingevo riflessioni su conteggi intricatissimi che avrebbero richiesto  uno sforzo da matematico candidato al Nobel.
– Bevo una bionda e metto qui la bottiglia, poi un’altra e diventano due… Tengo la contabilità così sto bene e aiuto il cervello a funzionare.
Non gli diedi corda finché mi chiese di indovinare quante Peroni avesse disposto sul tavolo accanto ai quaderni.
– Dai, indovina!
Erano dieci, erano sempre state dieci. Soffiai quel numero a mezza bocca, con gli occhi bassi, cercando di registrare con la visione periferica la vista di quelle bottiglie schierate come truppe pronte ad avanzare in battaglia. Fallii il pronostico concedendo all’alcolizzato il pretesto che cercava. Quella volta era riuscito a scolarsene dodici. Mi malmenò di brutto scaricando su di me la sua follia alcolica e mi disse che ero un miserabile somaro che gli rubava i soldi per libri che non studiavo e che sarei morto povero e ignorante, mendicante sotto il cavalcaferrovia, abbandonato in un letto di cartoni. Stava parlando di se stesso in realtà.

Quando non rientrava a casa, qualcuno veniva a citofonare nel mezzo della notte per indirizzarci proprio sotto il cavalcaferrovia a due passi dal nostro appartamento. Lo trovavamo riverso su un fianco, con i pantaloni inzuppati di piscio oppure svenuto in una pozza del suo stesso vomito, comatoso. La prima volta che lo vidi in quello stato sentii l’eco del cuore battermi nel petto come un tamburo di guerra. Soltanto anni dopo scoprii che quel batticuore originava dalla gioia e non dallo spavento. Sognavo di scuoterlo senza riuscirci. Volevo solo essere certo di non avere mai più il suo sguardo su di me, il suo tanfo addosso, il rumore del suo passo barcollante per casa nelle orecchie.
Una volta, mia madre mi aveva portato con sé sperando di ricevere un valido aiuto nel trascinarlo in casa, dove avrebbe pianto tutta la propria vergogna, continuando ad autocommiserarsi in un mutismo che era la sua tomba.
Mi chiese di rimanere lì, solo al buio di una strada deserta per sorvegliare quella sagoma ai miei piedi, come se potesse resuscitare e andare altrove, un Lazzaro strappato alla morte.
Lei corse verso una cabina telefonica per chiamare zio Mario, l’unico della famiglia che ancora intratteneva rapporti con noi e che abitava vicino. Tra bestemmie frutto di sdegno e genialità, caricò nel cofano della sua 127 quello zombie, destinato a tornare, redivivo, a casa. Non avrebbe voluto essere mai più invischiato, ma sapeva che quella povera sciagurata di mamma era rimasta davvero sola. Scaricò l’alcolizzato sul divano e, prima di congedarsi, mi abbracciò con un amore così coinvolgente che ne rimasi confuso. La mia breve esistenza ammetteva scontri, non incontri fisici. Il mio corpo era solo un sarcofago. Il mio vero io si era rifugiato dietro strati di gelida imperturbabilità, in un sepolcro che riusciva a filtrare ogni emozione. Ero cresciuto tra l’indifferenza di mia madre e la violenta alienazione di quello che per la legge era mio padre, ma quell’abbraccio si insinuò tra cuore e stomaco.

I piedi distanziati tra loro di circa mezzo metro. Le punte verso l’esterno. Conto sul fantastico grip delle Nano 8 per inchiodare i piedi al suolo. Se sento calare l’attenzione, se sento la rabbia svanire mi guardo dritto nello specchio e mi ripeto un mantra: “Nessuno ti ama”. Oggi mi tocca il bilanciere arrugginito, mi sporcherà la maglia sui punti di contatto. M’infilo sotto il ferro marrone e sento  il metallo sulla nuca. Porto le spalle indietro. Le mani hanno trovato le impugnature. Il ferro è incastrato sui trapezi ipertrofici. Stacco. I sovraccarichi sono distribuiti specularmente alla mia destra e alla mia sinistra. Incurvano leggermente il bilanciere. Mi accovaccio cercando di portare le mie anche più in basso delle ginocchia e poi risalgo. Uno, due, tre: contabilità. I centoventi chili si fanno sentire come il ritmo cardiaco che picchia duro nel petto. La sesta ripetizione è travagliata. Spingo in risalita ma non riesco a muovermi. È un fenomeno chiamato sticking point. Il cervello manda l’impulso elettrico, i muscoli lo recepiscono tramite i motoneuroni, ma si verifica un cortocircuito che impedisce una fluida fase eccentrica. Sei in un limbo. Non spingi, non crolli: stai lì, come in alcune fasi della tua vita con un carico che non puoi scrollarti di dosso e con il desiderio di completare l’opera, prima di respirare, libero da fardelli.
Frusto i cavalli che trainano la motivazione con il “Nessuno, davvero, ti ama!” Funziona, arrivo all’ottava ripetizione. Mi libero del ferro, poggio le braccia al muro e mi sbilancio sull’avampiede con le gambe flesse, una per volta. Scrollo i quadricipiti, l’acido lattico si disperde nelle fibre e il bruciore si attenua. Dietro di me un tizio mi guarda. Vorrebbe reclamare il posto, ma non ho finito. Lo guardo a lungo negli occhi. Mi esce uno sguardo capace di infeltrire, all’istante, le sue palle. Ma poi torno in me e riesco a disinnescare l’istinto che mi è stato tramandato per sangue. Guardo il ragazzo e gli chiedo se può pazientare ancora qualche minuto. Mi sembra un buon inizio per una nuova voce della mia personale contabilità.

Collage di Touché