Nuit Bleue | Sfogliando dal libro del punk

Nuit Bleue è un progetto hardcore/postpunk con base a Toulouse, in Francia, che vede un assetto scarno ma estremamente compatto formato da basso, batteria e sassofono sostenere due voci, Damien e Cicuta, il primo caratterizzato da uno scream viscerale, profondamente scavato nella ricerca più espressionista e coraggiosa delle esplorazioni vocali, e il secondo da un approccio che oscilla tra rap ed uno spoken word che può ricordare un po’ le imprese punk emiliane e un po’ il primo Teatro degli Orrori, concedendosi anche al canto o al recitativo laddove le atmosfere dei brani glielo concedono. Quello che appare infatti chiarissimo, fin dal primo ascolto del loro omonimo demotape live, è proprio l’ampiezza di varietà d’ambienti che la formazione decide di sondare con un’attitudine squisitamente narrativa e spontanea, costruendo la propria musicalità sulla solida base della direzione del proprio discorso e del sentire sottostante, svelandolo fino alla nuda carne. Così quindi l’orecchio si ritrova all’interno di racconti in cui, nel suo dipanarsi, la forma-canzone, già esplorata in massima libertà dalla formazione, si permette di spostarsi da violente staffilate di chiara scuola hardcore ad aperture sonore che possono ricordare i The Comet is Coming tanto quanto gli Zu, i Marnero quanto gli Sleep, spaziando tra jazz, stoner, postrock e rap, mentre al microfono suggestioni bilingue si alternano in massima libertà, concedendo ad ogni brano la sua forma più sincera.

Ed è così che la penna di Damien, estremamente teatrale e cruda, compare tanto in esplosioni brevi quanto in tirati monologhi dove forse più che negli altri brani l’intero muro di suono sembra agire, espressionista, come cassa di risonanza della parola, mentre quella di Cicuta può prendersi più spazio, scegliendo di accostare ad una semplicità di scrittura che suona come necessaria, nello sporgersi di ciò che dice, vezzi di forma e sprazzi d’immagini che arrotondano il discorso per farlo sposare con la musica in un’ottica più ampia dove il ruolo di trascinatore e trascinato si fondono. Nella formazione è infatti davvero centrale la danza tra i desideri espressivi dei due poli, la parola agìta ed il suono degli strumenti, che nella musica dei Nuit Bleue più che essere corpo unico sembrano costantemente lasciarsi spazio e venirsi addosso in un pogo di necessità che si sostengono a vicenda fino alla prossima, vicinissima, ondata. Questa chimica versatile si svela in un’altra forma ancora quando, in Feu Bleu, il microfono viene passato al rapper Kaio Dayo del collettivo Zook’ook, sempre con base a Tolosa, dimostrando ancora una volta con quanta attenzione i mondi sonori della band mutino forma in maniera sincera e radicale riconoscendo le differenti energie portate dal polo parlante. Sotto questo punto di vista il ruolo della batteria spesso stupisce nella tremenda aderenza con cui risolve il dialogo con la voce, imbastendo una sottile trama di accenti e dinamiche legatissima al verso, con un’aderenza simile a quella di Michele Koukoussis nel Bhutan Clan.

Già attivo dal 2019 sotto forma di duo e con una notevole esperienza di palco maturata principalmente nella scena punk d’oltralpe, il gruppo già mostra nella sua demo una solidità ragguardevole e una fantasia molto spiccata, soprattutto in una ricerca volta alla performance del verso in dialogo con un immaginario, quello punk, che concede veramente tanta libertà quanta se ne desidera prendere. Nella crudezza dei loro arrangiamenti si nasconde moltissimo potenziale, che talvolta brilla. Nella ricerca vocale una volontà unitaria che punta a rispettare quello che dal foglio emerge con la fedeltà più dolorosa e bambina, senza compromessi. Questo potenziale ha già scaturito fiammate esplosive, nulla ci rimane che augurarci che tutto questo prenda sempre più fuoco.

(Isidoro Concas)

Terroristes (Nemmeno Le Lacrime)

Aaaahhhh!

Quanto è bello l’amore!
Quella mano che ti scava nello stomaco e ti strizza l’interiora com’uno straccio!
Neanche le montagne russe reggono il confronto!
Ed io!
Non sono mai stato così felice di morire un’altra volta tra le tua braccia!
Oh sì!
Lieto m’è il vomitar su questo foglio! Sto ‘na bomba!
Ma dove cazzo sei finita?

Oramai ricordo a malapena
La tua faccia si confonde
Ve ne son quarantamila tutte uguali
La tua voce s’è già persa
Come un jingle che ho sentito da bambino
Un motivetto sciocco che non riesci più a capire se hai inventato
Ogni momento ogni sorriso ogni parola sussurrata con dolcezza
Pensavamo l’uno senza l’altro di non poterci stare
Invece hai visto che bel sole, mia cara,
Hai visto che bel sole?


A chi importa di noi?
Forse ad un dio stanco e ormai attempato, le tempie calve, che ci guarda dai cieli?
Ho sentito dire ch’egli ama tutti, nessuno escluso
Ma a parer mio è già lungo tempo che non ci degna d’uno sguardo


A chi importa allora?
Allo Stato? Quale dei tanti?
Il signor Stato che per noi ha pensieri, prego, si faccia avanti
No, invero per esso siam vari / tra i molti
Com’a seguito d’una battaglia i nomi che si susseguono dei soldati morti
Chi si cura di noi?
I nostri parenti?
Tra chi è morto, tra chi è matto, chi lontano e chi nemmeno sa che esistiamo?


Chi si cura di noi?
I nostri fratelli? Troppo impegnati a guardarsi la punta delle scarpe?


Chi vuoi ch’abbia la mole di prendersi una tale responsabilità?
Puoi chiederlo forse alla città, per la quale non siamo mai stati più anonimi?


Chiedilo allora a una montagna
Ch’indifferente svetta alle nostre gioie e alle nostre pene
Inamovibile e codarda, per noi non alzerebbe mai un dito
Volgiti al vento se ti va
Ti lascero’ fare
E t’accorgerai che per risposta otterrai soltanto il suono della tua voce


A chi importa di noi?
Ad una qualche azienda? Un sito internet?
Puo’ darsi, ma giusto per venderci cianfrusaglie, al pari d’un truffatore

Per chi contiamo?
Per i nostri amici?
Per i quali a dir molto un mese siam pettegolezzo e un minuto dopo una seccatura?

E chi allora?
I giornalisti? No, che idea sciocca
E’ ovvio che noi non siam persone da prima pagina o che fan notizia

Quindi a chi chiediamo?
Alle stelle? Al sole? Alla Luna?
A venere? Marte? Mercurio? Giove?
Ai pianeti più lontani? O forse all’universo stesso?
Si, come se gliene fregasse qualcosa

Mi credi forse così sbadato?
Certo che ho chiesto alla gioia, e sai che mi ha risposto?
Che sono un avido bastardo

All’amore dunque?
Ohhh, ci ho sperato
Ma sai quanto fosse volubile quel maledetto cane

Dimmi una cosa
A chi importa di noi
Se non è importato a noi?
Chi si prenderà cura di noi
Se non ci siamo presi cura di noi?

Ed in fondo il peggio non è certo l’odio
Ma sapere che il nulla si fa strada come un verme
Sul cadavere della nostra felicità

Non sai che gioia è fingere
Che la prossima volta sarà diverso

Mia cara, hai visto che bello?
Non ci restano manco le lacrime
Oh si!
Non ci restano manco le lacrime

Voce e testo di Cicuta
VOCE e batteria DAmien
Basso Johan
SAX jb

Nessuna maschera dietro le mani | Un’intervista a Somma Zero

Somma Zero, all’epoca Simone Tencaioli, scrive e produce i suoi progetti ed è stato vincitore della seconda edizione del Premio Sanesi, avventura che gli ha consentito di intraprendere il viaggio di scrittura di Peek-a-boo!, il suo nuovo progetto, che sta per uscire per Radiobluenote Records e che vede alle produzioni il fondatore del collettivo torinese, Davide Bava. In occasione di questa nuova uscita, anticipata qualche mese fa dal singolo X, abbiamo deciso di contattare Somma Zero per ascoltare assieme il nuovo album e chiedergli come lo sviluppo dell’opera abbia preso forma.

Ciao Simone, benvenuto. Cominciamo dalla fine: il tuo nuovo lavoro, Peek-a-boo!, è un concept album a tinte cangianti, assieme fosche e energiche, lunare e solare. In questa terra di mezzo, intrecciati nei testi, si alternano immagini di un tempo statico, circolare, a cui ogni ribellione viene ricondotta come altra strada per la stasi, e invece la ricerca continua e speranzosa di una chiave di apertura del loop, in cerca di un nuovo inizio, e il tutto confluisce nella frase con cui il disco termina, “l’alfa è solo un simbolo spezzato d’infinito”. Come vivi, in questi testi, i due temi del tempo e della speranza?

Ciao Isidoro, cominciamo da una fine che in realtà è un inizio. Il verso a cui fai riferimento l’ho scritto più di dieci anni fa. Andare a pescare così lontano nel tempo è un modo per manifestare al contempo ciclicità ed evoluzione. All’evoluzione si collega la speranza, ciò che mi ha spinto a buttarmi in questo progetto. Immaginare e creare a parole una realtà migliore, sia esterna che interna, è il primo passo per stare meglio.

All’interno del tuo rapporto con la scrittura sul suono si è sempre di più incontrato un lavoro metrico cesellato e intenso, che qui in Peek-a-boo! libera soluzioni molto differenti tra loro, seguendo lo svilupparsi del racconto interno all’album. Come è cresciuta, per te, la tua scrittura, con questo ultimo disco, considerando che per la prima volta ti sei trovato a confrontarti con delle produzioni non tue?

È stato un esercizio interessante. Nei miei lavori precedenti testo e base crescevano su linee quasi parallele. Qui mi sono trovato a confrontarmi con una struttura preesistente, sulle prime è stato molto difficile. C’è stata una svolta quando ho capito che il testo non doveva a tutti i costi seguire rigidamente questa matrice, ma poteva farsi a sua volta schema. È come se avessi composto una seconda strumentale fatta di parole che si integra alle musiche di Davide.

L’esperienza della traccia Sproloquio, dalle sonorità che evadono molto da quelle in cui il resto del disco è ammantato, porta in scena il tema della maschera, indossata (per poi liberarsene) dal protagonista del disco sia come tramite per liberare altre parti di sé che per ottenere, tramite un’attitudine diversa, qualcosa a cui altrimenti non avrebbe accesso. Non posso non pensare al tuo agire sotto pseudonimo, quindi ti chiedo: percependo qualcosa di estremamente intimo nelle tue produzioni, quali sono i gradi di separazione tra Somma Zero e Simone?

In questo caso lo pseudonimo non crea dal nulla un’altra identità. Ha una funzione simile al titolo che si dà a un’opera: conferisce una direzione all’agire e fa da prima chiave di lettura per ciò che viene prodotto. Non è tanto una questione di gradi di separazione, quanto di gradi di intensità. Più che di maschera parlerei di trucco scenico, non nasconde i lineamenti ma ne rinforza o mitiga l’aspetto. Trovo che le operazioni artistiche che antepongono il personaggio alla persona siano dannatamente noiose.

La scelta di un racconto, nel concept, che oscilla tra una voce interna che racconta il proprio stare e una voce esterna ma partecipante che si estende al generale e sembra parlare sia al protagonista che all’ascoltatore come se avesse già attraversato queste tematiche, si accomoda bene alla piegatura temporale che l’album descrive. Ma, all’esterno, da artista che ha prodotto l’opera, a chi diresti che questo intero disco sia riferito? A chi parla?

Voglio che passi un messaggio di positività. Credo che la musica debba avere un ruolo di supporto sia a livello personale che sociale. Personalmente questo progetto mi aiuta tantissimo nel quotidiano, non so come potevo farne a meno sino a qualche anno fa. I dialoghi che si possono intravedere nei testi sono un collage di pensieri rimasti tali, frasi dette o sentite dire, rimpianti, fantasticherie e speranze. Mi piace mescolare le carte e far scomparire mittente e destinatario. Qui arriviamo al livello della ricezione esterna. Non c’è un ascoltatore designato. Parlo a chiunque faccia bene sentirsi dire determinate cose.

Questa è la tua prima uscita dopo il Premio Sanesi, anticipata qualche mese dal singolo X che ha segnato il tuo ingresso in Radiobluenote Records, per la quale Peek-a-boo! uscirà e che vede alle produzioni il sopracitato Davide Bava e al microfono, in un featuring, Brownie, due membri del collettivo con i quali hai già partecipato ad alcuni live. Quali saranno le direzioni che prenderanno i tuoi lavori, nel futuro? Hai qualche desiderio specifico?

Ho una memoria digitale strapiena di progetti da ultimare. Credo di avere già a disposizione il materiale per la prossima uscita, solo non ne sono ancora pienamente consapevole. Poi in questi mesi ho incontrato un sacco di artisti validissimi. Mi piacerebbe mettermi alla prova con un’esperienza diametralmente opposta a Peek. Lasciare per una volta la scrittura e produrre un disco dove far convivere più artisti e generi differenti.

NEMESI

è
come se non ci capissimo più
io sempre più saldo [fermo]
nella mia convinzione
sempre più stanco [cerco]
di avere ragione
sull’incertezza [il fine]

della mia condizione

mi guardo intorno e trovo solo torvi attori
[sorridi o muori]
chi mi parlava del futuro ora mi tiene fuori
[fatti tuoi]

eppure questo cuore mio non sa attutire i tonfi e i contraccolpi

niente più davvero [sclero] mi tiene a freno [fremo]
ho da riscattare un debito [spero] di fremiti non spesi [tremo]
senza assenso o pentimento
tento di aver la meglio
su un inverno parassita
che si insinua, si attorciglia
avvizzisce meraviglia
in tralci e viticci
di intralci e capricci
non cerco lusso
il mio agio è tra meticci e meretrici

è vero spesso opporre i sogni al nulla porta incomprensioni
fisso l’orizzonte è limpido, si sta avverando
la promessa scritta a mano con il sangue caldo
due figure si contendono in un limbo metafisico [granitico]
un diritto che il mito relegava al destino
ho capito
che il mondo è il punto di arrivo
per uno spirito che taglia i fili
al suo burattino

Testo e voce Somma Zero
Produzione e musica Davide Bava
Illustrazione di Eleonora Ballarè
RADIOBLUENOTE RECORDS © 2022

Trame sfuggenti | Il Trip in Blue dei Catash

Preciso nel suo descriversi già dal nome, è Trip in Blue il primo brano pubblicato in veste ufficiale dai Catash, formazione già finalista allo scorso Premio Dubito e attiva da diversi anni nella poesia performativa. Al microfono e alla penna Francesca Mazzoni, che decide per l’occasione di dedicarsi solo alla voce lasciando la stratificata e brillante architettura del suono a Carlo Corso e Corrado Ciervo, il primo alla batteria e il secondo al violino, che costruiscono per il brano un’atmosfera aleggiante, diluita, che accoglie sotto la sua superficie cristallina tanto materiale sonoro che riemerge come i dettagli nascosti nei film man mano che si procede al riascolto.

Nel caso specifico, però, un ulteriore livello di stratificazione di segnali arriva dall’opera video di Alessio del Donno che, tramite la cernita e la manipolazione di materiale video d’archivio risalente al Giappone della metà del ‘900, consegna nel visuale una trama tanto intensa quanto quella dei suoni. A nuotare a bracciate lente e godute in mezzo a questo sprizzare di stimoli è la voce della Mazzoni che, nel seguire l’andamento sognante del lavoro a partire dal testo fino ad arrivare al multimediale, non radica nella consegna del significato il suo lavoro vocale che, anzi, si concede di vagare libero tra i territori che il gioco musicale concede, spostandosi dal cantato al recitativo su più piani che acquisiscono il senso nel leggerli appunto come elemento sonoro che dichiara un mood, e non come interpretazione teatrale di un testo, sciogliendo la metrica dagli appoggi che le parole imporrebbero per cercare quel che è più comodamente aderente alla tessitura sonora che la circonda da ogni parte. “Si sveglia una saracinesca e solleva l’occhio pigro della merce” è un verso che viene consegnato, non a caso proprio verso la metà del brano, ormai con una attitudine vocale così ibrida da non poter più esser detta nè canto nè recitato, perfettamente in mezzo.

Altrettanto fluide e ricostruite sono le proposte sonore di Corso e Ciervo che, partecipando entrambi ai momenti di registrazione e missaggio del brano, nella selva delle sovraincisioni costruiscono un gioco alternato di strumenti raccolti nel loro corpo più concreto e di segnali così effettati da essere ormai puro suono senza emettitore da definire, materia sonora che scivola negli anfratti lasciati dai piatti di una vaporosa batteria e le linee più riconoscibili di violino. La struttura del pezzo è una pasta sonora non riconducibile nè ad un loop, nè a una improvvisazione, nè decisamente a una qualsiasi più rigida forma-canzone: svincolandosi per ultima necessità anche dalla definizione di un genere musicale a cui fare riferimento, la produzione del duo cerca di seguire la sensazione di scollegamento da ogni riferimento prospettico che il lavoro di Francesca Mazzoni richiede, arrivando ad un corpo unico, specifico e senza definizioni, come il Neutro per Roland Barthes, che acquisisce il suo specifico tono eludendo i paradigmi.

Il debutto della formazione è un terreno molto libero, a perdita d’occhio in ogni direzione, immerso tra sensazioni di corpi e flash di una città al suo risveglio, una piccola perla psichedelica che, smarcandosi da ogni forma, lascia immaginare evoluzioni ancora più libere, varie e mutevoli, nel continuare del lavoro della formazione – cosa che ci si augura di tutto cuore, vedendone i presupposti.

Isidoro Concas

TRIP IN BLUE

Leggerissimi, leggerissimi, leggerissimi

Appiattiti sotto la nebbia resteranno
Incastrati nel moto perpetuo
Gli ultimi lembi del vestito di scena

Ci scioglierà un vento elettrico
Ci scioglierà un vento elettrico

Minuscoli origami di corpi
Sfrecceranno nel cielo
Ci esaleremo nell’aria, fra le mani
Con il gelo spezzato dal fumo di un’auto
Fra di loro, i margini delle buche nella strada
Slabbrati, a smorfie con degli scatti col flash
Che bramano
Come vedove in pelliccia
Il calco di una città
Poeticamente a pezzi

Si sveglia una saracinesca
E solleva l’occhio pigro della merce
Noi fluttuiamo insensibili ai dolori tradizionali
Ci agganciamo come rettili
Solo al blu
Solo al blu

M’assomiglierà nessun blu
M’assomiglierà nessun blu
Mai visto su nessuna brochure o etichetta
O lattina o vetrina
O bomboniera di nozze
Mai visto, mai visto
Ci diremo, intrecciando le dita sotto il mento

Vorremmo ricordarci così
All’ombra di chiome al propano
Scambiarci sguardi assenti
Appollaiati sui bordi dei segnali stradali
Che ci indicano cosa comporta la scelta

Per scelta, per bisogno
Vorremmo perderci, vorremmo perderci

Ci siamo persi già

Voce di Francesca mazzoni
Musica di carlo corso e corrado ciervo

Gli scuri albori della RAPubblica | Il ritorno di Zona MC

È con l’EP Storia della RAPubblica 1943-1953. I veri anni di piombo che Stefano Mularoni, in arte Zona MC, torna nella forma disco dopo ben 8 anni che non è corretto definire “di inattività”, ma semplicemente di mutazione, già mappata in una vecchia intervista qui su Odile. Molte e poliedriche sono state infatti le sue produzioni dal suo ultimo album, Porconomia, del 2014: dalle sue apparizioni come frate rappista nelle puntate del Goth Talent di MusicaPerBambini alla pubblicazione del suo saggio Le origini del sovranismo, dalla realizzazione di un mashup-album tributo ai due linguaggi musicali a lui più affini, il rap e la breakcore, fino al suo sbarcare nel mondo dell’insegnamento scolastico, universo che probabilmente ha fatto scaturire l’urgenza di questa sua nuova avventura. Presenta lui stesso questo EP dicendo che “Chiunque sia stato a scuola sa che la storia della Repubblica italiana viene spiegata raramente, spesso in modo frettoloso e per di più in quella fase di sovraccarico di studio che precede l’esame di Stato. Intanto nell’editoria e nei social network si diffondono sempre più narrazioni revisioniste della storia d’Italia, con derive antikeynesiane, anticomuniste o addirittura antipartigiane”. Trovata quindi l’urgenza di spiegarle, l’opera di Zona MC si inoltra nell’esplorazione di quegli anni con l’avvalersi del supporto della storica Lidia Celli e di una abbondantissima bibliografia della quale presenta alcuni elementi in un video dedicato.

Occupatosi anche delle strumentali dell’EP, Mularoni decide di proseguire la sua attenta ricerca storiografica scegliendo per i suoi beat tutti campionamenti da registrazioni di quell’epoca riuscendo, fra le altre cose, nell’ardua impresa di non fare suonare come kitsch l’aria di Fischia il vento all’interno di un brano dedicato alla Resistenza e alle sue implicazioni. La ricerca è in più corredata da estratti da film e discorsi pubblici sempre d’epoca, con l’intenzione di tracciare un quadro il più fedele e chiarificatore possibile.

Per le orecchie più affezionate alle imprese audio di Zona, il nuovo EP suonerà molto come un ritorno a casa, sia dal punto di vista delle sopracitate strumentali che, lungi dai potenti abissi sonori di dischi come Caosmo dai suoni affidati ad altri produttori, ricordano molto di più le strumentali autoprodotte dei suoi primi lavori, con molte intelligenti scelte mascherate all’interno di una forma-beat più tipizzata, sia dal punto di vista dell’approccio didattico e narrativo alla scrittura che potrà fare ricordare ai molti Ananke ed altre opere simili. “Ma almeno stavolta voglio sorvolare sull’attuale/Tornando al passato non per nostalgia o rimpianto materiale/Si stava peggio ma quel clima intellettuale/Lasciava speranze a chi voleva rovesciare il Capitale” spiega Mularoni nella traccia dedicata alla scrittura della Costituzione, mettendo l’accento sul desiderio di una narrazione che si discosti da quelle più personali, sperimentali, critiche o fantastiche che negli anni aveva messo in campo nei suoi dischi, per poter osservare con chiarezza un periodo che osserva come cardine per comprendere il contemporaneo, in dialogo con le decadi future. Certamente la penna di Zona MC non maschera le sue opinioni, ma descrive con obiettività la concitatezza dei fatti di quegli anni, col suo sapiente utilizzo di una narrazione esplosa, accelerata, vivida di giochi e di immagini.

Isidoro Concas

DE GASPERI V-VII (’48 -‘ 53)

“Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico che mi fa considerare come imputato”

Nato nel Tirolo italiano sotto il dominio asburgico da subito vicino all’ambiente liturgico
Da giovane partecipa a proteste studentesche
Della minoranza italofona che lo investe
Segretario del Partito Popolare Trentino
Eletto nel parlamento austriaco in cui rimane sino all’annessione della regione all’Italia è il ’19
Quando segue don Luigi Sturzo il “prete sinistro” che muove critiche al fascismo ma è fuori dal tempo perché il suo partito vota la fiducia a Benito seguendo il Vaticano
E ciò spinge Sturzo a dimettersi diviene segretario Alcide
Ma poi nemmeno lui vuole flettersi alle leggi fascistissime
E nel ’27 è arrestato, incarcerato e graziato restando sorvegliato
Ed è così che durante il conflitto armato
Riunisce la politica cristiana sotto lo scudo crociato
Il resto l’abbiam visto, Ministro
E poi capo del Governo che abbandona le sinistre e mantiene alleanze atlantiste mentre all’interno
Ha già capito
Che i voti non sono tutto, conta il Capitale ossia il “quarto partito”
In breve negli anni della ricostruzione
Al nord prosegue l’industrializzazione
E al contrario nel meridione una stagione
Di riforme come quella agraria
Insieme alla Cassa del Mezzogiorno in parte varia
Il volto dell’Italia
Finiva l’agricoltura estensiva
Espropriati fondi a grandi proprietari
Li si offriva a aziende familiari
Ma l’azione non era propulsiva
Era solo sull’agricoltura, infrastrutture civili e stradali mancavano investimenti industriali
Solo più tardi in quel deserto sorgeranno le note cattedrali
Come quella aperta da Nitti nel 1904
Poi chiusa in ossequio all’UE nel ’94
Il sud doveva esportare solo il lavoro e col suo poco capitale comprare più merci al nord e non prodursele da solo
Un modello di espansione
Guidato in gran parte dall’esportazione del settentrione che può competere con l’estero perché dispone di una disoccupazione
Che abbassa i salari con l’emigrazione interna e il sindacato in accordo col padronato licenziamenti politici e il proletariato schedato
Più tecnologie avanzate
Per produrre beni di consumo per le economie europee più agiate
Tutto ciò fornisce il quadro indegno
Che solo rese possibile il boom economico a fine decennio
Per fare una sintesi del lustro
In cui ha governato De Gasperi ha restaurato più di quanto ha riformato
Solo dopo aspri dibattiti avviò riforme sociali ma insufficienti per le ricadute occupazionali
In parte eserciti industriali si assorbivan
Con il piano keynesiano di Fanfani di edilizia abitativa
Mentre Vanoni aumentava le entrate
Imponendo le dichiarazioni dei redditi prima mai compilate
E la compagnia del petrolio fu affidata per essere liquidata a Mattei
Ma egli si oppose all’oligopolio delle sette sorelle fondando l’ENI
Ma i suoi piani caddero con il suo aereo in uno dei tanti misteri
È quasi certo che furon mani mafiose
Come per Mauro De Mauro giornalista che sapeva troppe cose (nostre)
Di certo dopo Mattei scompare la sua visione
Ma rimangono i mezzi: la corruzione
E nel marzo ‘53: temendo l’elezione imminente
De Gasperi vara la “legge truffa” ossia un largo premio di maggioranza per la coalizione vincente
Scelba è scelto come proponente
Si dice che persino lui si oppose ma niente
Il presidente del Senato si dimise ma niente
Al suo posto venne Ruini che alla fine ultimò gli scrutini ma è evidente
Che nemmeno l’ex Presidente della Commissione per la Costituzione poteva arginare lo sdegno crescente
E come il Po nel ’51 è esondato con l’alluvione
Parri lasciava i Repubblicani e con Calamandrei fondava un partito da micropercentuale
Ma sufficiente a bloccare
Il premio truffaldino per la coalizione
Tutto ciò va ricordato per mettere anche le ombre nel quadro che a De Gasperi viene troppe volte dedicato del cristiano deluso dal Papa
Che contro i comunisti voleva allearsi con i monarchici e i neofascisti nell’elezione romana:
“proprio a me, un povero cattolico della Valsugana, è toccato dire no al Papa.”
O deluso dalla questione triestina a lui vicina ma che importa? Conta che sia ricordato chi poi ha lottato come i 6 che nel ’53 son morti sotto i colpi del Governo Militare Alleato
O europeista deluso dal fallimento della CED
Ma gli equilibri internazionali cambiano dopo che il 5 marzo del ’53
Muore Stalin e il timore della guerra in Corea
Che aveva oliato l’integrazione militare europea d’altronde il primo trattato firmato nel dopoguerra aveva scopi militari:
Tutti contro Stalin
Nei suoi discorsi De Gasperi ha una visione
Il perno dell’integrazione deve esser la partecipazione
Senza la democratizzazione
L’Europa diventerebbe fonte di – cito – “imbarazzo e oppressione”
Ma intanto tornando a ciò che abbiam lasciato
Il piombo colpiva chi si ribellava dal contado al sindacato
Come a Modena l’eccidio delle fonderie riunite la polizia uccide 6 operai e duecento persone ferite poi Ravenna, Venosa, Ragusa anni di repressioni
Fino all’apice: ’60, Governo Tambroni
Io per tutto questo e non solo li chiamo “anni di piombo” e i settanta invece “anni del tritolo” in quanto la nota tensione
Iniziò con un’esplosione
Mentre il piombo è sullo sfondo già dalla ricostruzione
«… mò c’hanno pure il radiogrammofono.»
«E te, teg l’è no la casa?»
«E la chiami casa questa? Du camere e cucina, eccole lì.»
«E non mangi tutti i giorni?»
«Come no? Patate, patate la mattina e patate la sera me so ingrassata che paro ‘na botte, fra un po’ me devo fà allargà tutto, non lo so io!»
«Ma ti te’l set che Gaetan i fa la borsa nera?»
«Fossi bono tu a falla!»
«Io mi contento di quello che guadagno.»
«Ecco e noi seguitiamo a magnà patate che ce fanno tanto bene!»
«Si mangia patate, si fa economia.»
«Ecco… se magnamo pure l’economia pe’ companatico!»

Testi e Musica di Zona MC

Esplorando il termine | Un’intervista a Carlo Corallo

Carlo Corallo, fine penna ragusana classe ’95, fin dall’inizio del suo percorso tra rap, storytelling e poesia ha cercato di evolvere il proprio linguaggio espressivo perché il suo istinto lirico si sposasse al meglio con la sua produzione, carica di immagini con un intento narrativo dove anche gli aspetti più tecnici del rap vengono utilizzati al fine di raccontare una storia. Il suo nuovo album, Quando le canzoni finiscono, è un ulteriore gradino scalato in questo suo cercare ed è un concept album dedicato a quel momento in cui qualcosa finisce, e a ciò che da lì prosegue. Per esplorare assieme questa sua nuova opera, l’abbiamo raggiunto per un’intervista.

Buondì Carlo, benvenuto su Neutopia. Il tuo nuovo album, Quando le canzoni finiscono, è una nuova tappa del tuo percorso tra scrittura e musica e decide di incentrarsi su un tema molto specifico: il termine di un qualcosa, il suo finire e quel che resta. In che modo hai incontrato la necessità di esplorare questo sentire, e come hai deciso di svilupparlo?

Ho deciso di sviluppare questo tema quando mi sono sentito tradito dalla mia ispirazione e messo all’angolo dalle contingenze del periodo Covid. Io scrivo assorbendo i fatti della vita quotidiana e limitarmi a stare a casa mi ha bloccato a lungo la creatività. Appena ho deciso che il tema sarebbe stato quello della fine, ho letto tanti libri e guardato tanti film inerenti, in modo da trarre più ispirazione possibile sull’argomento. È un tema che mi affascina perchè è uniformante, in quanto ci riguarda tutti, ma personale allo stesso tempo. Sono partito da “Etimologia” per dare una sorta di anticamera al progetto, volevo parlasse di “inizio”. Le dieci canzoni che la seguono raccontano la fine in diverse sfaccettature e al termine dell’ultima di esse si ipotizza un nuovo inizio. È la rappresentazione dell’andamento ciclico della vita, scandito da momenti di luce e buio che si alternano. Detto questo, non tutti gli epiloghi descritti hanno una connotazione negativa, spesso donano al protagonista una sensazione liberatoria.

Passando velocemente da Thanatos a Eros, una cosa salta chiara alle orecchie, nell’ascoltare le tue nuove tracce: se l’amore è sempre stato nelle tue parole, raccontato da moltissime prospettive, è solo in questo album che compare più potentemente l’elemento carnale, in più pezzi ed in maniera più sanguigna. Pensi che questa cosa abbia attinenza col tema del finire, o è qualcosa che è comparso per altri motivi?

Sanguigno è un termine adatto alla descrizione del corpo presente in questo album. Il corpo accomuna l’origine e la fine: è divino quando crea e mortale quando si deteriora. Inoltre, per me è un fattore importantissimo che si sta perdendo tra i meandri di una socialità sempre piú informatizzata. Inoltre, i corpi delineati nel disco, sono corpi che adempiono la loro funzione nel mondo in quanto tali e, dunque, non ricevono mai un giudizio estetico, ma si limitano a percepire e dare sensazioni, a compiere azioni che ne modificano i destini. Descrivo il fisico talvolta nella sua componente mistica, come in alcuni brani quali “Etimologia” e “Quando le canzoni finiscono”, talvolta nella sua componente razionale in altri brani quali “Il capofamiglia” e “Natura umana”.

Il tuo stile è molto immaginifico, e spesso nei tuoi testi lo spostamento tra un’immagine e l’altra si appoggia sul perno del doppio significato dello stesso vocabolo, spesso con effetto a sorpresa. Anche “fine” è un termine (e anche “termine”!) che è ambivalente: è qualcosa che hai esplorato, nel lavorare il tema? 

Fin dai miei esordi mi servo di termini-passepartout in grado di significare qualcosa di lontanissimo da ciò che normalmente identificano. Mi diverto tanto a far rimare i concetti e a rendere il senso malleabile, più che a giocare col semplice suono delle parole. Tuttavia, non è l’unico stratagemma tecnico che uso all’interno dei miei brani; mi piace impreziosire i testi con varie figure retoriche, cercando di non eccedere rendendo il tutto troppo lezioso. Già in “Ogni uomo nasce libro” (2017) dicevo “il fine ultimo l’hai capito alla fine dell’ultimo capitolo…”. Le parole “fine” e “termine” si prestano ottimamente a questo trick ed è una fortuna perchè mi permettono di arricchire di sfumature un’opera già prismatica.

Com’è stato condotto il lavoro sulle strumentali? Se appare chiaro, infatti, che nelle tracce in featuring i suoni scelti (soprattutto nell’utilizzare le batterie) si avvicinino al mondo delle persone con cui condividi il brano, così come del resto fai anche tu, accomodando la penna ed il flow al loro stile, è nei brani in cui compari solo che i riferimenti si allargano e mutano col variare del tuo scrivere. Ci sono state scelte più direttive di altre, con più priorità, nello scegliere i suoni? 

Ho cercato di utilizzare strumentali che mettessero a proprio agio gli ospiti dell’album, senza, però, snaturare il mio stile. Credo di sapermi adattare al mood sonoro degli altri, anche perchè ascolto generi di musica molto vari. Inoltre, ho scelto le basi a seconda della loro capacità di comunicare quanto espresso dalle parole. In questo secondo capitolo della mia discografia, mi avventuro maggiormente in soluzioni cantate e flow fuori dalla mia comfort zone: “Izakaya Jazz Interlude” ne è un esempio. Un tratto che, invece, ritorna dopo l’esperienza di Can’tAutorato, è la presenza di suoni ambientali, come il rumore dello sparo che fa scappare gli uccelli in “Qlcf”, il suono della pioggia in “Natura Umana” o il vocio dei bambini ne “Il capofamiglia”.

La tua scrittura abita quel terreno tra prosa e rap, tra liricismo e testo a cui ritornare, in cui sembrano confluire influenze più varie di quelle nel background di un rapper standard. Quali sono stati i passaggi e le suggestioni che ti hanno portato a Corallo per come è ora? 

Posso dividere le suggestioni che mi hanno accompagnato durante la creazione dell’album in quelle derivate  dall’arte pittorica, come nel caso di Ligabue, quelle musicali, come Kendrick Lamar, J. Cole, i Kings of Convenience, Sufjan Stevens, e quelle letterarie come Philip Roth, Kundera, Calvino, John Fante, Sandor Marai, Rigoni Stern e Andre Aciman.

ETIMOLOGIA

Parole dette a bassa voce
Soffiate oltre il collier d’oro
Da ore in bocca come un colluttorio dolce
Ed uno sguardo docile
Ma i tuoi capelli sono legni che mi basta torcere
E siamo torce, forse
È in volte come questa
Che penso che la mia etnia sia influenzata dall’Etna
Sudore se chiami per nome con quella cadenza lenta
E stai attenta alla scansione di ogni lettera
Tu rendi la passione un’esperienza
In cui ogni mossa è concеssa
Pure comandarsi a bacchetta
Ma per darе vita a un’emozione intensa
Che poi è la differenza tra un dittatore
Ed un direttore d’orchestra
La testa sta morendo al rogo
Io moderno Erodoto
Padre della storia nel senso di rapporto erotico
In un vorticoso incipit di voglia
Che ricorda i libri di scuola
Con gli indici prima di ogni parola
Ma ora, accolti questi baci apolidi
Il tatto è l’ultimo tratto prima di varie trasmigrazioni
Il contatto si fa simbiosi, fa dubitare del fatto
Che noi siamo due corpi soli e che siamo due corpi solidi
A rispondersi: “Stasera ho programmi”
Che ci fa sentire sempre più macchine e meno umani
Così vorrei bussassi, coi palmi sulla mia schiena

E che la testiera fosse una tastiera di vene pulsanti

Se io sono Bologna, tu sei San Petronio
Se io Xavier Dolan, tu Mommy
Ma con mille alibi tra le mani
Mentre un’aria estiva stimola l’umami
Così che i pensieri contrari di entrambi domani saranno unanimi
E distanti da credenti e padri
Ma anche noi con gli organi usati
Come strumenti per momenti sacri
Sai, il tuo mi piace, quasi
Perdo la pace se mi allontani
Forse è per questo che si piange appena nati
Il pericolo è di odiarsi tra anni
Durante vite lunghe in cui crescere insieme come le unghie
E magari farò il perito meglio di altri
Che un marito è già istruito
Al confronto continuo tra due caratteri
Da estranei conta un altro schema
Andare a cena è un rito per non star soli la sera
Concentrando la libido alla fine della pancia
Finché un liquido ci separa come alla fine della Pangea

O in una camera gelida o troppo calda

Con un parquet iridato e ogni parete bianca
Su cui strapparmi la giacca tipo avvocato radiato dall’albo
E starti accanto fin quando siamo irradiati dall’alba
Ormai quasi ogni tua usanza l’ho fatta mia
Ogni ansia o periodo di calma, ogni principio etico o follia
Per questo, quando dici: “Vieni da me”, sorrido
Perché per te è un invito, per me si tratta di etimologia

Concept & Film: Andrew Superview, Valeria Michetti
Starring: Ginevra Ambrosino, Nunzio Di Matteo
Testo e voce Carlo corallo
Produzione Osa