Da decenni il nostro paese è immerso in una rabbiosa reazione ideologica e culturale, abbacinato dalle luci del Grande Spettacolo. La politica produttivistica del neoliberismo ha strangolato nell’isolamento ogni tentativo di deviazione dal pensiero unico mercantile, lasciando ai lavoratori della cultura due possibilità: tagliare i ponti con la realtà o diventare operai dell’industria culturale monopolizzata – i più furbi e fortunati, funzionari.
Poesia e Rivoluzione è Poesia, il nuovo pamphlet di Salinika – Gruppo d’Azione Poetica stampato per le auto-produzioni di Neutopia, è una valida controffensiva all’estetica del tardo imperialismo e ai presupposti del suo sistema di produzione e riproduzione di suoni, immagini e cartastraccia. Di fronte al regno dell’intimismo e del neo-neo-neo-simbolismo, istituzione di individui alienati, la prima poderosa aggressione consiste nella rivendicazione del collettivo come ambito di elaborazione della prassi poetica, l’organizzazione come strumento di lotta ideologica; così l’Io viene proscritto come detentore dei significati del mondo, le sue arroganze tanto più inopportune, quanto più l’estetica decadentista è una maschera che non tiene più. Da questo non può che seguire un’implacabile dichiarazione di guerra al giusto, al vero, all’intero, come ricorda Davide Galipò in Che cos’è per noi l’azione poetica. Se la totalità potrà mai esistere, sarà solo quando, parafrasando Majakovskij, la vita l’avremo cambiata; per il momento, riproporla o rimpiangerla sono atti di criminale complicità.
Se la totalità potrà mai esistere, sarà solo quando, parafrasando Majakovskij, la vita l’avremo cambiata; per il momento, riproporla o rimpiangerla sono atti di criminale complicità.
I quattro articoli di questo agile e agitatorio opuscolo sommano e moltiplicano le prospettive, le coordinate dell’azione poetica, che riprende la tradizione sudamericana e la amplia a livello europeo con pratiche di derivazione situazionista, ma tutti sono accomunati da un principio imprescindibile e irreversibile nel suo attuarsi: riappropriarsi della poesia come critica del reale, come sabotaggio della finta pace. Questo dinamismo è possibile proprio perché, come afferma Charlie D. Nan, «più lo sguardo del poeta tende al presente, più il suo verso tenderà al futuro». In questo senso, la sua poetica dello Zapping è «un’azione nella propria storia», cioè «una messa in crisi del presente»: rilanciare il caos mediatico, la sua paratassi demenziale, in una visione allucinata che condanna la lucidità come psicologia dell’irreggimentazione. D’altro canto, Galipò approfondisce la complessità teorica della trincea Salinika, riflettendo sul difficile equilibrio tra il disprezzo e l’«amore viscerale» per la vita; l’uno piagnone, l’altro «autoritario»: si tratta dell’«umiliante alternativa di fronte alla quale il tardo capitalismo mette segretamente tutti i suoi sudditi: diventare un adulto come tutti gli altri o restare un bambino»[1]. Uscire da questa contraddizione è possibile solo rilanciando la sfida: «Aspettiamo la bomba come si aspetta un tramonto e ad essa dedichiamo le stesse elegie che un tempo si scrivevano alla patria o alla luna» (cit. D. Galipò).
La critica dell’ideologia, marxianamente intesa come «falsa coscienza», come oblio del corpo e della materialità è, con diverse declinazioni estetiche, un presupposto teorico di Salinika. Se abbiamo già parlato dello Zapping di Nan, questo è il senso della ricerca sulla spaziatura nel lavoro di Galipò, della ripresa del concetto di poesia materialistica in Francesco Salmeri, e l’urgenza, testimoniata da Nicolò Gugliuzza, di «ritornare alla carnalità del verso». Calando la poesia in una dimensione conflittuale, l’unico modo per evitare un’estetizzazione superficiale della lotta è la capacità di «trasporre strutturalmente e materialmente» il cortocircuito dell’ordine capitalista nella nostre opere. Per fare una poesia «onesta», come ricorda Salmeri, occorre che questa sia «disonesta», cioè che non stia alle regole del gioco ideologico-culturale dell’epoca borghese.
L’inasprirsi della crisi socio-economica e l’avanzata della barbarie pongono dialetticamente «le condizioni per l’emergere di una nuova forma di coscienza collettiva in grado di maturare una potenzialità creativa, necessariamente politica ed artistica, che possa condurci al di là di quest’estenuante riflessione senza fine sulla nostra epoca» (cit. N. Gugliuzza). A partire da questa consapevolezza, Gugliuzza ribadisce la necessità di mantenere il massimo livello di ricettività critica e creatività artistica, «contro ogni sintesi» che irrigidisca un movimento letterario, artistico e filosofico-politico che non può che definirsi e ridefinirsi in un dialogo aperto con la realtà.
È in questo dialogo che la poesia potrà essere ciò che «vuole essere», cioè al «servizio» della poesia stessa, a costo di non essere un prodotto di largo (?) consumo. In questa maniera, ai più intelligenti sarà dato modo di riconoscerla e di dire: «I can’t define it, but I know it when I see it”[2].
[1] (T.W. Adorno, Minima moralia, aforisma 86).
[2] La frase in questione si riferisce al celebre discorso con il quale, nel 1964, l’allora capo della Corte Suprema degli Stati Uniti, Potter Stewart, dichiarò di riconoscere una scena pornografica nel film The Lovers, processato per oscenità: “I can’t define it, but I know it when I see it”.
Salve, ma l’opuscolo dove si trova? Grazie
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Ciao Caterina, puoi scaricare gratuitamente l’opuscolo in Pdf. sulla nostra pagina dedicata alle pubblicazioni (https://neutopiablog.org/numeri/).
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