L’odore della poesia visiva

L’olfatto umano è una semantica aperta: dopo anni di primato del visivo sul resto dei cinque sensi, la seconda mostra del ciclo La poesia visiva come arte plurisensoriale, quella sull’olfatto, celebra la qualità sinestetica della scrittura verbo-visuale, esponendo opere, tra le altre, di poeti visivi della nuova generazione.

In mostra, oltre a Giovanni Fontana, Sarenco, Arrigo Lora Totino, Lamberto Pignotti, Antonino Bove, Luc Fierens, Cristina Ruffoni, Gino Gini, opere dei giovani Francesco Aprile, Andrea Astolfi, Elena Cappai Bonanni, Giuseppe Calandriello, Nicolò Gugliuzza e del sottoscritto, che risemantizzano il discorso della poesia visiva verso nuovi media, digitali e plastici.

Andrea Astolfi, Blu (2021), ampolla di profumo su cartoncino profumato in pasta blu e carta velina

Il progetto, nato da un’intuizione di Lamberto Pignotti, si chiama Pratiche sinestetiche e vuole porre l’accento sull’assenza di una grammatica specifica per gli odori, per il tatto, per l’udito, per i sapori. Già Des Esseints, nel romanzo A ritroso di Huysmans, aveva immaginato una “semantica degli odori”, o anche Baudelaire, nelle sue Correspondances, che i colori e le sensazioni olfattive si rispondessero in una comunicazione poetica, fino ad arrivare a Jean Baptiste Grenouille, che in Profumo di Patrick Suskind realizza un “catalogo degli aromi” a partire dalle essenze umane.

Davide Galipò, Olfabeto (2021), libro sovrainciso, essenze in boccette di vetro, collage su scatola di fiammiferi

Ma può un profumo evocare un colore, una lettera, un ricordo? Certamente sì, se pensiamo alle Madelaine di Proust nella Recherche. Dal canto suo, la poesia visiva sembra stimolare il gioco di rimandi con il lettore/fruitore, attraverso una provocazione continua, che passa anche dal cambio d’identità: sembra ieri, ma era il 1914, quando Marcel Duchamp, impersonando l’alter ego Rrose Sélavy in una celebre fotografia di Man Ray, diventava ironicamente promoter di una boccetta di profumo, ribattezzata per l’occasione Eau de voilette.

Elena Cappai Bonanni, In.odore di santità (2021), collage su carta e opera digitale

Va in questa direzione la mostra inaugurata lo scorso 6 novembre alla Fondazione Berardelli di Brescia, curata da Alice Valenti dopo il fondamentale apporto di Margot Modonesi; laddove la capacità ricombinatoria dell’immagine – potenzialmente infinita – colma il divario tra la pluralità delle sensazioni olfattive e la scarsità di definizioni per definire un odore nel nostro linguaggio. Un vernissage molto partecipato, che ha visto le performance di Giovanni Fontana, Davide Galipò, Elena Cappai Bonanni, con un live painting di Mister Caos – a ricordare che la poesia contemporanea è anche e soprattutto una pratica, che si agisce nel quotidiano.

Davide Galipò, Mister Caos, Elena Cappai Bonanni durante la performance Olfabeto – In.Odore di Santità

Come afferma Gilda Policastro nel suo saggio L’ultima poesia. Scritture anomale e mutazioni di genere (Mimesis Edizioni, 2021, p. 74), “il reading prende ad essere osteggiato o proscritto da una forma più neutra e impersonale di lettura in pubblico, in favore della cosiddetta installazione”. Più che un profumo o una “messa in scena” degli odori, quello che qui viene messo in campo è il mondo di ricordi, possibilità e suggestioni evocate dall’olfatto, senso che più di ogni altro – come ricordato da Melania Gazzotti nella sua introduzione al catalogo – può riportare alla mente luoghi, battaglie e sensazioni sepolte nella memoria.

Davide Galipò

Foto per gentile concessione della fondazione Berardelli
In copertina: Francesco Aprile, Trittico. Eau de poème (2020)

Mutazioni e altre noie | F. Cane Barca

Giorno 7. settimo giorno perché prima avevo da pensarci, senza capirne, sono un balordo, babbeo, mi vedesse così crucciato mia madre: Mangi? E pettinati. Fai qualcosa. Fare. Qualcosa. Decimo inverno a Paremà, qui nella pianura padana, che lo vedi anche dallo spazio il suo scadimento, quella chiazza di robaccia nell’etere. Potevo stare meglio, al mare, non meno avvelenato, ma pur sempre un mare, gettarsi, testa sotto, ti ci butti mal che vada, e non ci pensi più alla catastrofe, allo spirito del tempo, quello, robetta da ridere: Ah!

Catalinaaaa… sono ladro, sono cane, sono un gallo, le dicevo, quasi lo urlavo da bello bevuto alla Catalina che rispondeva … stai buono, hai un problema con il bere, non devi urlare il mio nome, poi pensano che ci conosciamo.

Ci penso perché mi manca, e perché quel giorno notai il primo cambiamento: Catalì, non ti sembra più grossa la mia testa?

E non s’era ancora fatta sera. Ora ne sono certo della mutazione che sto patendo, un brutto scherzo.

come ogni umano, non sono speciale: non un granché, nemmeno un granchio, un pipistrello. Niente cyberfuture, cyberpunk, solarpunk e lasergun che suturano; e le ruote stanno ancora attaccate terra; e Marte non è colonizzata; e non ho arti meccanici, tubi, fili e scintille che escono dal cranio; non sono un robot, non sono un robot; e il confine tra i mondi è sempre spesso: niente elfi, niente gnomi nei boschetti, niente uomini rana, niente uomini lupo per le città. Niente! Trito e ritrito. Qualunque. Chicchessia. Non si gira, nessuna parte, costano troppo i viaggetti, ci pensavo ieri. Sono corretto da forze ignote. Questo volevo dire. Non sono pazzo.

Giorno 9. mutazioni e altre noie che non sto a dire, tipo bollette troppo alte, e un piccione che sbatte sempre contro la finestra del bagno. Il futuro che avevo ipotizzato da bambino non era giusto, beota, ingenuità, qui è tutto… normale, solo più corrotto. Il solito. Noioso. Pensavo qualcosa di meglio. Umidità. Dico che c’è troppa umidità.

fuori c’è una nebbia tutta nuova… gialla, penosa, che infetta, e ci hanno detto di non uscire dalle dodici fino alle cinque del mattino, e ogni sole sembra cento soli a fiammeggiare nel tramonto, in tutto il cielo. Si è rotto qualche grosso macchinario dicono. Verso sera nemmeno si vede oltre il proprio passo, c’è solo un abbaglio. E sempre qualcuno lo fa, furbetti, sono quasi sempre maschietti che si fanno video mentre passeggiano, e poi la pelle gli si stacca, vomitano, e altre cose che non sto a dire. Di chiudere bene le finestre hanno detto. Danno anche le multe. Ti sbraitano da sotto: Ei lei, deve chiudere. E rispondi … ho fatto la frittura, solo un attimo. E ti rispondono … va bene, va bene, poi però chiuda. Solo perché non sono straniero, se no sarebbero saliti a darmi multe e sgridate violente al primo avviso, botte. Quelli fanno sempre così. A loro piace. Brutto mestiere quello della guardia. Non stanno bene. Ne ho viste di storie, non sto nemmeno a dire.

Giorno 11. sembro uno schizzato, dormo male con le notti mezze bianche e non esco tra tutti che mi sembra di stonare, mi si smuovono cose dentro, sono sicuro, arriva, arriverà qualcosa, forse è solo un virus, cibo scaduto, sogno voci che dicono cose: Sono diciassette denari. Usa la carta? Vuole una busta?
… No grazie.
… Vuole una busta?
… No grazie.

non ho le competenze per interrogare le molecole. Una mutazione che ancora non ho capito e che non so da dove è iniziata. Dalle dodici sto sempre in casa, nemmeno rispondo al telefono, mi sono abituato. Quando posso resto in casa tutto il giorno. Il lavoro me lo permette: compilare moduli di calcolo per ditte, truccare i conti per loro. Un truffaldino, pigro.

Giorno 13. e non fatemi sentire frasi stupide come: Tutti cambiamo. Non l’ho detto al medico. Non l’ho detto alla Catalina prima che mi lasciasse. L’ha fatto perché non rispondevo al telefono … sei strano, ripigliati e poi chiama, vediamo se ti rispondo io. Quello è di destra, il medico è di destra, fatico a relazionarmici, ha idee sulle donne che non condivido, lo dico perché ne ho le prove, non sto a dire. Devo cambiarlo, lo dico da anni. Ma rimando sempre. Da anni rimando. Sto mutando. Dottore, può sembrarle strano ma sto subendo una mutazione che ancora non ho compreso… Risponderebbe dicendo:

Signor ##### lei fa uso di droghe? Ha precedenti problemi psichici? Dorme bene? Mangia bene? Ha qualcuno che l’ama?

Lo conosco quello. Non ci vado.

Giorno 15. ho caldo. Non ne esco. Non smette. Una vampata continua. Quello che mi succede irrompe in una normalità speciale che condivido con ogni persona di Paremà, e lasciamo stare che la gialla, come piace chiamarla ai giornaletti, che la gialla si sta espandendo oltre la regione, non sto a dire, vedremo. Pensavo, penso che la gente sta ammattendo. Non è colpa solo della gialla, troppo facile a dirlo. Abbiamo creato un mondo troppo fesso e complesso per le nostre minute menti. Magre. Debolucce menti. Scimuniti. E’ diverso quello che mi succede, non è pazzia ho detto. Devo solo aspettare. Sento le cose muoversi. Sono passati quindici giorni dalla prima sensazione di mutagione, magari non è nulla.

Giorno 18. la mia pelle è più scura. Di poco. Ecco! Divento scuro poco alla volta.
non sono un tipo costante, sono svogliato, disinteressato, poltrone, non sono attento ai dettagli. Tengo diari e agendine che perdo appena posso. La Catalina studia scienze, avrebbe potuto tenere lei un bel reportage sulla mia mutazione. Le chiavi di casa non le perdo mai. Priorità.

Giorno 29. torno chiaro. Nove giorni, all’apice del mio scuramento, una scurazione, una inscurazione, ero nero come la notte senza manco una stella, un lampione, una luna assente.
che ipocrisia, che offesa, io sono antirazzista, un bianco maschio occidentale che diviene nero, me ne sento in colpa, ero nerissimo, e andando a far la spesa settimanale mi hanno guardato strano le persone che mi conoscono e che non ho salutato. Una vecchia amica l’ho sentita dire al moroso: Quello sembra ####, ma è nero. E il moroso ha detto: Parla piano, non facciamo figuracce.

oggi mi sono svegliato del solito colore, quello di nascita, bianco olivastro. Verdognolo, colorito poco sano.

Giorno 33. sono più alto. Ho le ossa più spesse. Le dita affusolate. Il naso più lungo e anche il pene è notevolmente più abbondante, l’ho fotografato entusiasta.

Giorno 45. mi sveglio e non arrivo al lavandino. Un nano. In questi giorni ho avuto le unghie nere, anche i capelli da neri a biondi, e anche gli occhi verdissimi, prima erano marroni. Giornataccia.

Giorno 58. sono donna, quasi. Mantengo una fattezza di uomo. Ma ho una fica, il mio clitoride è davvero molto grande… Annoto solo questo e registro la mutazione. Sono passati due mesi, e, non sono sicuro, a me sembra tutto reale, lo capirei altrimenti, ci penso.

Giorno 78. sono stati giorni difficili, ho avuto anche le mestruazioni, sono stato tutto donna. Poi sono tornato normale in una notte terribile di dolori e incubi, ero a Venexia e nevicava, avevo freddissimo. Poi ancora me stesso, ma con i capelli colore verde prato. Oggi invece mi sono svegliato incredibilmente peloso. Dal naso ai piedi. E che lezzo sgradevole.

Giorno 120. i numeri imprecisi, salto da un giorno all’altro, poche le forze per essere precisi, poco il tempo per aver cura di questo diarietto, dovrei scrivere meglio cosa provo, ma non ho tempo per farlo, ho anche un lavoro io. Non faccio mai le cose come vorrei. Mi sono svegliato con le ossa molto spesse, di nuovo.

Giorno 170. sono stato un mezzo cane, un mezzo uomo per troppi giorni, tutto ricurvo con mani strane e gonfie, dita più corte e cicciotte, ruvide, non riuscivo a dire parola, avevo il muso lungo, che male alla mascella, e dicevo: Waw; woh; agh. Devo pulire casa. Raccogliere i peli, sono sfatto. Ho azzannato l’uomo delle consegne. Che imbarazzo, almeno ha lasciato il pacco: un nuovo frullatore!

Giorno 200. è stato un periodo difficile. Ogni trenta ore sono stato una persona diversa, la versione un po’ più tumefatta di: una compagna di classe che non vedo e sento da decadi, Rossella; la preside della mia scuola che nemmeno ricordavo; il vicino anziano, Ennio; un vecchio socio di lavoro; mio padre. Ho foto per ogni mutazione, e che dolori ogni notte, le ossa me le sento muoversi, scricchiolare, formicolii alla cute e bruciori quasi sempre intensi, agli occhi, la gola, la cosa mi sta friggendo il cervello. Ora sono me, l’originale. Devo guardare le foto dell’estate scorsa per assicurarmene.

Giorno 210. ho parlato con la Luisa … che vuoi che sia, dovresti essere contento se ti si sta allungando il pene, meglio tardi che mai… Ne ho parlato anche con il socio…

che importa, tutti mutiamo, è come un taglio nuovo, o una banalissima maglietta nuova.

Tutti pensano che ne stia parlando metaforicamente. Mutagioni e brutte stagioni. Certo, non ho fatto vedere le foto, non provano nulla, e ho preferito non mostrarmi in videochiamata da mutato, ancora non me la sento. Oggi sono ancora me stesso. Penso, mi distraggo con altre cose: fare la pizza al meglio badando all’estetica del cornicione; dedicarsi alle piante; leggo James Baldwin; disinfettare il bagno; trovare un copridivano adatto al divano e che si intona con le piante e la pizza. La mia faccia è più sottile.

Giorno 260. fino a che punto? Sono preoccupato. Ammattito, o un nuovo balzo evolutivo. Un genetista o una strega. Potrei andare da una strega, ne conosco una, è pure molto bella, di genetisti non ne conosco. Il mondo fuori sta cambiando. Forse tra le mura certe persone hanno le stesse visioni, la gialla è arrivata fino all’Islanda, il macchinario rotto non sembra essere stato aggiustato.
fino a qui ho avuto un giorno con sei dita a mano.
qualche volta la lingua lunghissima. E altre noie.
tre giorni fa ho avuto una bocca così amplia… ho fatto smorfie tutto il giorno.

ma che visioni! È tutto vero. Ho mandato le foto a Luisa, ha detto che sono matto e ha riso… Mi piacciono le tue trovate, è un nuovo racconto? Non facevi il contabile? L’uomo dei numeri per quelle diaboliche aziende?

Giorno 500. ho cominciato a prendere il controllo mesi fa. Catalina stanca delle mie lettere, già che non mi rispondeva più, ha scritto: Fai yoga. Poi non ha più risposto. Il pieno controllo è venuto dopo che ho imparato a meditare, e che beffa considerando la mia opinione in merito, dicevo alla Catalina: Fai Yoga sei volte a settimana e poi mangi carne, fumi, compri le grandi marche!

Giorno ###. sono chi voglio. Non posso dire nel dettaglio: ma mi sono arricchito fingendo di essere la persona giusta nel posto giusto, poco etico? Non mi interessa, bei quattrini, e ho lasciato il lavoro, non mi serve, ho elaborato modi per fare soldi, non sto a dire. Non ci vado al gabbio io.
sono stato Paul Pogba, ma continuo a giocare male al calcio.
sono stata la fioraia del quartiere, Caterina, e mi sono fatto il giardino nuovo.
sono stato Robert DeNiro, mi sembrava una cosa divertente: Stai parlando con me?
se a qualcosa non arrivo, lassù, mi allungo.
sono stato Scarlett Johansson, ma, ma riesco a essere con esattezza qualcuno solo se l’ho toccato o conosciuto profondamente, anche se male la ricordo una persona, anche se è successo venti anni fa di conoscerla, posso essere lei nel minimo dettaglio, precisissimo.
sono stato il Papa, sì ero io.
ho preso il brutto vizio di essere le donne che mi attraggono. Le donne con cui sono stato, insomma, ho sviluppato un che di perversione nel mutare. Non credo esista una normativa in merito, comunque non penso sia legale.

Giorno ###. la gialla si è espansa, altro che macchinari spaccati, ha colonizzato il globo: yelloworld, yellowgeneration, così fanno i titoli.
non ho sentito storie simili alla mia, la gente è solo più pazza, le intelligenze ce le siamo dimenticate, la società non sa farle più, sapete già.
ho compiuto grandi azioni di sabotaggio che non posso scrivere, mica stupido del tutto.

e ho provato anche a diventare un uomo rana, ci pensavo da tempo. Il mio nuovo progetto è mutare in bestie, divenire bestia. Non provo più quell’acuto dolore delle prime fasi. È tutto più naturale. Non ho fatto foto dei primi tentativi, troppo schifoso e una fatica tornare normale che non dico.

Giorno ###. sono ricco, mi piace. Posso sovvertire le cose, sovvertire qualcosa. Posso nascondermi ovunque, per dire. Presto farò anche qualche viaggio. Posso distruggere il capitalismo, e tutto ciò che disprezzo. Posso arricchire i più poveri. Mutare in Robin Hood, nello specifico Kevin Costner. Salvare, o mandare tutto alla distruzione.

tornare me stesso, seppur la versione originale ora sia stata riconcepita da me, è sempre più difficile, ci vuole una concentrazione inusuale per la mia mente misera e umana, ecco, il cervello e i suoi limiti, posso allungarmi il pene, il naso, divenire donna, farmi verde la pelle, farmi d’oro i capelli, ma il cervello sta solito, uno scemo, ecco, mi presenterò alla porta di Catalina, domani dovremmo vederci, mi presenterò alla sua porta tutto blu. Un bel blu, quello di Yves Klein, sarò l’evoluzione del suo lavoro artistico, devo pensarci, forse un cane blu, una scimmia blu, non devo strafare, non devo perdermi, arrovellarmi troppo, farmi sussumere. Andrò come me stesso, ma ben vestito. Poi le dirò tutto.

Giorno 1000. io e la Catalina ci sposiamo, a lei piace questa roba del mutaforma. Ma in giro per il mondo ho fatto tanti di quei guai che non sto a dire.

Glitch di Nicolò Gugliuzza

Contro il presenzialismo

In questi tempi di incertezza, nella poesia italiana sembra essersi delineata una nuova frattura. Assistiamo infatti a un profondo mutamento nella pratica di chi, fino a poco tempo fa, si auto-definiva «poeta performer», ovvero colui o colei annovera, nel suo campo di ricerca, l’esecuzione dal vivo dei propri versi, il più delle volte su un palco, nella maggior parte dei casi riconducibile alla corrente della «poesia orale». Quella corrente che, come riporta Giovanni Fontana nella sua introduzione a Opera di Adriano Spatola [dia•foria, 2020], si serve del corpo per la risoluzione dell’antico quesito: è nata prima la foné o la grafia? Lo stesso Spatola sembra eludere la domanda, affermando: «Le parole racchiudono una casualità semantica che la scrittura soffoca e che la voce esalta. […] I testi poetici da cui parto sono estremamente semplici: si tratta di poesie concrete costruite sul modello del chiasmo, con una evidente volontà di retorica alta.»[1] Se all’interno della ricerca spatoliana verso una poesia totale – non solo orale o da camera – troviamo un dialogo aperto con le avanguardie storiche e un tentativo di fuga dal libro, con il Gruppo 63 e le edizioni del Mulino di Bazzano uniti per creare un’editoria altra rispetto a quella imposta dal mercato, lo stesso non si può dire per i poeti orali e performativi di oggi, che dal mercato attendono solo di essere accolti. Perché? Cercheremo di rispondere, nel corso di questi interventi – che saranno riuniti sotto il titolo esemplificativo di Contro il presenzialismo – e di comprendere le ragioni di questa frattura, sebbene oggi, anno 2021, stiano accorrendo molti degli elementi storici ed estetici utili alla nascita di una nuova tendenza poetica, riconoscibile come avanguardia.

Adriano Spatola, Aviation/aviateur, rivisitazione sonora di Francesco Aprile, video di Simon Christoph Krenn, via [dia•foria

Il «presenzialismo» o dell’attitudine a «presenziare» dei poeti orali

Con il termine «presenzialismo» s’intende l’attitudine contemporanea a recitare un testo interpretandolo e facendolo proprio, in linea con il pensiero del filosofo tedesco Edmund Husserl (1859/1938), per il quale la foné sarebbe stata la prima forma riconoscibile di comunicazione, antecedente alla scrittura; viceversa, senza la «presa diretta» costituita dall’enunciato verbale, la comunicazione resta sostanzialmente monca. Prosecutori di questa attitudine, i poeti della scena orale e performativa sembrano ricondursi a questo filone. I loro libri, però, non sperimentano con il testo; tolto di mezzo il corpo, la presenza del/la poeta, il testo rimane – dal punto di vista semantico – estremamente lineare, perfettamente leggibile e privo di particolari distorsioni. In che senso, allora, in assenza di un pubblico a cui rivolgersi, la loro poesia può dirsi «orale»? E cosa accade quando un/a poeta, auto-definitosi performativo/a, viene impossibilitato dalle circostanze a presenziare la propria poesia su un palco? Se il/la poeta è mediocre, si deprime. Se invece vuole destrutturare il linguaggio, riprendendosi uno spazio di autonomia estetica, sperimenta.

La cultura del digiuno, collage di Chiara Vesce, Voce del verbo agire, 2016

Il Gruppo 93 e l’impossibilità del concepirsi «avanguardia» nel postmoderno

Quando Mario Bàino, Biagio Cepollaro e Lello Voce diedero inizio, alla fine degli anni Ottanta, al Gruppo 93, la loro preoccupazione principale era di venire additati come una «neo-neoavanguardia» e dunque di essere facilmente storicizzati e fatti fuori dal panorama letterario. Perciò si affrettarono – da abili postmoderni – a liquidare il discorso avanguardista, prendendone le distanze, per poi percorrere strade diversissime tra loro, chi introducendo il poetry slam nel contesto italiano e chi relegandosi a commentatore della scena ai margini di «Baldus» prima e «Il Verri» poi, senza produrre una sostanziale rottura con le forme e le sperimentazioni antecedenti. Mentre Cepollaro parlerà apertamente del Gruppo 93 come una «compresenza conflittuale»[2] fra avanguardia e suo opposto, Voce affronterà il tema dell’«avanguardia nostro malgrado»[3]. Non per nulla, il Gruppo 93 viene fondato nell’89, anno della caduta del muro di Berlino e del crollo delle ideologie. Non ha mai voluto fondare un’avanguardia, non solo per ragioni storiche, ma anche estetiche: con Fukuyama a paventare la tanto decantata «fine della storia» era difficile – se non impossibile – assumersi un tale rischio, ma anche nei testi di Voce, Cepollaro e Ottonello non c’è alcuna volontà di creare una rottura con le forme del passato. Tutt’altro: consci del fatto che anche lo sperimentalismo era diventato tradizione, questi poeti hanno sapientemente assunto delle forme e delle pratiche provenienti dalla neoavanguardia, senza decostruirle, ma facendole proprie, in pieno stile presenzialista. Volevano ricondurre la Vicinelli, Costa e Spatola al loro discorso postmoderno sul corpo e sull’oralità – che solo in parte riguardava la loro ricerca – e farli rivivere nelle loro poesie, senza contrapporvisi, in un momento storico in cui, per ammissione dello stesso Voce, c’erano solo rovine e il fatto di scrivere poesie che non riguardassero la «parola innamorata» già gli bastava. Ora si tratta invece di riconoscere quali elementi, oggi, potrebbero superare il postmoderno per approdare a una nuova consapevolezza, adesso che la pandemia sembra aver messo in discussione le nostre sedimentate certezze, primo fra tutti il corpo del/la poeta che si esibisce su un palco e ora che urge la necessità di altri linguaggi, contrapposti a quelli passati, in grado di rappresentare l’accelerazione data dalla ripresa della storia.

Consci del fatto che anche lo sperimentalismo era diventato tradizione, i poeti del Gruppo 93 hanno assunto delle forme e delle pratiche provenienti dalla neoavanguardia, senza decostruirle, ma facendole proprie, in pieno stile presenzialista.

Il testo poetico come «dispositivo»: nuove tendenze dell’avanguardia

Molti dei «cronogrammi», delle «anascritture» e dei «zeroglifici» che leggeremo a partire dagli anni ‘60 nei lavori di Balestrini, Accame, Spatola sulle riviste «TAM TAM» e «Malebolge» hanno avuto origine da un calligramma di Stephane Mallarmé, Un coup de dés jamais n’abolira le hasard (1914), in cui i riferimenti simbolici del poeta francese si sposavano per la prima volta con la proprietà tipografica delle parole, che cadono casualmente sulla pagina in modo da amplificarne i significati. Quest’attitudine alla poesia come «dispositivo», per innescare sensi e linguaggi altri rispetto allo scarno panorama letterario, la ritroveremo anche in alcuni lavori di Roberto Sanesi, che da fine traduttore di T. S. Eliot ben conosceva le istanze decostruzioniste della poesia d’oltreoceano. Tutti questi autori avevano ben presente la ricerca del filosofo algerino Jacques Derrida (1930/2004), per il quale, a differenza di Husserl, non esiste nessuna intenzionalità nel discorso verbale e qualunque testo, per definirsi tale, dev’essere scritto. La performance nasce dalla presa in carico del testo, che va per forza di cose distanziato dal pubblico, separandolo da esso, pena la sua inconsistenza. Una volta che viene eseguito – messo in atto – diventa un’altra cosa: interviene la «fonoritmia»[4] (cfr. Rosaria Lo Russo) a enucleare il processo creativo del/la poeta, rendendolo fruibile all’ascoltatore. Ma il testo è comunque un dispositivo: sta lì a rammentare la ricerca che sta dietro alla performance, attraverso tecniche e strumenti riconoscibili. A volte, arrivando a negare il processo di lettura, in una tendenza che potremmo definire «catamoderna»[5]. Non è forse questa la sede opportuna per ricordare che il vero virus, da sempre, è il linguaggio[6]? La parola, nella sua forma più autentica e concreta – la parole poetica – cerca oggi un nuovo corpo ospitante per riprodursi. Un corpo fatto non più di carne, ma di dati.

La parola – questo virus che fagocita qualunque cosa al suo passaggio – non morirà con la fine della nostra civiltà: ci sopravvivrà.

Stephane Mallarmé, Un coup de dés jamais n’abolira le hazard, Traduzione fonetica, via You Tube

Uno di questi strumenti, a differenza del caos propugnato dal Futurismo e del caso introdotto dal Dadaismo o ancora, dell’uso violento del cut-up di Balestrini nella Neoavanguardia, è stato proposto dallo «zapping» di Charlie Nan, che a tal proposito scrive: «Più il linguaggio del poeta aggredisce le immagini del presente, maggiormente i suoi versi saranno una proiezione del futuro.»[7] Un’altra forma di poesia come dispositivo potrebbe essere intravista nell’aggressione dei simboli dell’arte conservatrice del passato: «Manomettere i simboli dello stato fascista è un’opera di caritatevole buongusto»[8], scrivevamo quattro anni fa sull’opuscolo di SALINIKA, Poesia e rivoluzione è poesia, e a tal proposito le azioni iconoclaste del Black Lives Matter e del movimento femminista sulle statue – simbolo del potere patriarcale e colonialista – sono particolarmente illuminanti. C’è chi vede in quest’opera di decostruzione e di riappropriazione dello spazio urbano una semplice azione di vandalismo. Io la chiamo Poesia. Per capire come scrivere poesie oggi, però, dobbiamo interrogarci sull’ipertesto, vero strumento di scambio e comunicazione nell’epoca del postumano.

Milano, marzo 2019, statua di Indro Montanelli imbrattata di rosa durante un’azione di Non Una Di Meno

«Liminalismo»: processare la poesia

Oggi un testo può essere copiato, tagliato, incollato, riproposto in infinite combinazioni differenti. Nella semiotica, qualunque sistema di segni (linguistico, visivo, gestuale, musicale) viene considerato come «testo». È inevitabile, dunque, per la poesia contemporanea, orientarsi a tutti questi media per rappresentare la crisi del linguaggio, che è a sua volta messa in atto dal declino in corso nella società occidentale, indagandone le zone liminali. A partire da alcune sperimentazioni di Francesco Aprile, che nei suoi Code Poems (Post-Asemic Press, 2020) propone il linguaggio HTML proprio della programmazione web come nuova forma di riappropriazione poetica e linguistica, arriviamo a concepire la poesia come «passaggio» di informazioni da un server a un altro. Com’era stato previsto da Jonathan Swift, nel postumano la poesia potrebbe diventare il linguaggio prediletto delle macchine. Questa tendenza, ospitata sul nuovo numero di marzo della rivista «Utsanga», viene ripresa e ampliata da Andrea Astolfi, Cristiano Caggiula, Gianluca Garrapa e Antonio Francesco Perozzi, attraverso una serie di sessioni di scrittura collettiva in contemporanea, utilizzando un paper di dropbox. In tal modo, a partire dal concetto di desiderio, è stata effettuata una forma di scrittura «non monolitica», dove il primo elemento ad essere messo in discussione è quello dell’autorialità: secondo le funzioni del programma, infatti, se un autore A viene modificato da un autore B, all’autore B viene attribuito automaticamente l’intero testo. L’opera poetica, in tal senso, non si evince più dalla critica al prodotto finito, ma dal suo «processo.» Riprendendo dal loro anti-manifesto sul liminalismo: «e così il glitch creò l’uomo, e vide che era cosa buona.»[9]

Il dominio tecnologico sembra aver trovato finalmente la sua rappresentazione in poesia. A ben guardare, questi autori non si definiscono nemmeno poeti: somigliano più a dei programmatori, che dal linguaggio del web traggono una fredda bellezza.

Aprile-Astolfi-Caggiula-Garrapa-Perozzi, Latimeriidae, via Utsanga

Il «glitch» come manifestazione del desiderio: nuovi zeroglifici e interferenze sonore

Come riportato da Kenneth Goldsmith in Scrittura non creativa (Nero Edizioni, 2019), «Come un’immagine .jpeg è un linguaggio organizzato per permetterci di vedere determinate immagini e non altre, così la poesia è un linguaggio organizzato per evocare alcune immagini» del presente, del passato e del futuro. Pensate ai numeri e ai simboli che compongono il linguaggio HTML: questi, a loro volta, costituiscono un testo. Ma cosa accade se a questi elementi se ne sottrae uno? O se il codice viene modificato? Si produce un «errore» nel software, l’immagine risulta sfalsata. È questo il caso del glitch visivo di Nicolò Gugliuzza, forma di scrittura asemica che si manifesta come una riappropriazione della capacità desiderante del poeta, con i suoi «zeroglifici» contemporanei. Una scrittura aperta, in assenza di parole, che però mantiene integra la sua capacità espressiva.

Nicolò Gugliuzza, glitch da Europe after the rain di Max Ernst, via Neutopia

E non è tutto: nel linguaggio HTML i suoni possono diventare colori, i colori sensazioni tattili, le sensazioni tattili forme. È un’orgia sensoriale casuale che farebbe impazzire i futuristi. Un tentativo di questo tipo – di modificazione del «codice» rispetto allo standard – lo ritroviamo nelle interferenze[10] di Elena Cappai Bonanni e nella serie Couplets[11] di Alessandra Greco, laddove il sonoro interviene a ricombinare elementi già codificati. Se nel caso di Cappai Bonanni Il meriggio di D’Annunzio, nell’interpretazione di Herlitzka, viene mischiato con interventi discontinui in lingua araba, che vanno a intersecarsi con il testo originale per creare nuovi, inaspettati significati, in Greco assistiamo a una ridefinizione ipertestuale della parola «ricordo», con diverse varianti di testo che vengono recitate ora dall’autrice, ora dal riproduttore automatico, accompagnate da diverse composizioni di musica elettronica di Luca Rizzatello.

Elena Cappai Bonanni, Interferenza 1Meriggio, via Utsanga

Alessandra Greco, Couplets. Relazioni tra i recinti e l’ebollizione, musica di Luca Rizzatello, poesia visiva di Luc Fierens, via Neutopia

Per questa puntata ci fermiamo qui. Rimando alla risposta di quanti, con i propri articoli e interventi, vorranno contribuire a questa ricerca, in un periodo come quello che stiamo attraversando, sapendo che oggi più che mai – come ha scritto Luc Fierens – nella poesia c’è bisogno di una voce indipendente, di una voce autentica, che tagli con le forme del passato con la precisione e la nettezza del rasoio.

Collage di copertina di Luc Fierens


Davide Galipò (Torino, 1991) si laurea nel 2015 all’Università di Bologna con una tesi sulla poesia dadaista nella neoavanguardia italiana. Nello stesso anno dà alle stampe la raccolta di poesia visiva ViCoL0 – Giornale in scatola inesistente. Contribuisce a fondare il Gruppo d’azione poetica Salinika, nel quale milita fino al 2017. Dal 2016 dirige «Neutopia – Rivista del Possibile». Finalista al Premio Alberto Dubito con il progetto spoken word music LeParole, con cui realizza l’EP Volontà di vivere, alcuni suoi testi vengono inclusi in Rivoluziono con la testa (Agenzia X, 2017). Nel 2018 pubblica un suo saggio su Patrizia Vicinelli nell’annuario di «Argo», Confini (Istos Edizioni). Nel 2019 suoi testi critici vengono inseriti nel catalogo della personale di Luc Fierens, Punti di vista e di partenza (Fondazione Berardelli). Finalista al Premio InediTO con il progetto spoken word music Spellbinder, con cui realizza l’EP Madrigale. È ideatore del festival Poetrification_urbanismo inverso. Nel 2020 pubblica la raccolta di poesie Istruzioni alla rivolta (Eretica Edizioni).


[1] G. Fontana, Guarda come il testo si serve del corpo, introduzione a Adriano Spatola, Opera, pp. 49-50, [dia•foria, 2020

[2] B. Cepollaro, La compresenza conflittuale. Quattro equivoci sintomatici sulle vicende del Gruppo 93, in «Baldus», anno II, n. 1, agosto 1991

[3] L. Voce, Il postmoderno è nostro: giù le mani!, http://www.lellovoce.it/Il-Postmoderno-e-nostro-giu-le

[4] R. Lo Russo, I mestieri del poeta (Intervista di Lello Voce),https://www.youtube.com/watch?v=RI4nfPc1ARY

[5] F. Muzzioli, Che cosa significa catamoderno?, https://francescomuzzioli.com/2018/12/02/cosa-significa-catamoderno/

[6] L’idea del «linguaggio come virus» viene indagata da William S. Burroughs come articolazione della sua teoria sul «controllo», dell’asservimento che il sistema sociale opera sull’individuo (cfr. A. Caronia, Dal cyborg al postumano, Meltemi, p. 136)

[7] C. Nan, Dal dripping allo zapping, in«Neutopia» Vol. II, marzo 2017, https://neutopiablog.org/2016/11/04/dal-dripping-allo-zapping/

[8] D. Galipò, Cos’è per noi l’azione poetica, da Salinika. Poesia e rivoluzione è poesia, marzo 2017, https://neutopiablog.org/2017/04/10/cose-per-noi-lazione-poetica/

[9] Aprile-Astolfi-Caggiula-Garrapa-Perozzi, Manifesto del Liminalismo, «Utsanga», marzo 2021, https://www.utsanga.it/aprile-astolfi-caggiula-garrapa-perozzi-manifesto-del-liminalismo-estratti/

[10] E. Cappai Bonanni, Interferenze, in «Utsanga», dicembre 2020, https://utsanga.bandcamp.com/album/elena-cappai-bonanni-interferenze

[11] A. Greco, Couplets. Relazioni tra i recinti e l’ebollizione, in «Neutopia» Vol. VII, p. 43, https://soundcloud.com/neutopiamagazine/couplets-alessandra-greco/s-ytQs901Hj7o

Tra ciliegi e robot | I due poli dell’uomo moderno

Ascolto Nicolò Gugliuzza dire i suoi versi da quando – universitario – lo conobbi in una delle molte manifestazioni letterarie in quel di Bologna, 100 Poeti per il cambiamento. Da allora, quando eravamo dei giovani studenti di lettere e di antropologia, molte scorribande si sono succedute, tra diapason suburbani e periodi di intensa attività culturale, sulla Bologna/Torino con biglietti mal timbrati. Lo ritrovo ora felicemente, nel suo Ciliegi e robot, uscito per i tipi di Edizioni del Faro alle soglie di questo 2021 che incalza. Ricevo il libro, che si presenta in un’elegante veste nera, avvolto da una busta gialla cosparsa di francobolli validi nell’UE. Sì, perché il nostro nel frattempo si è definitivamente trasferito a Bruxelles, città feconda di incontri artistici e derive esistenziali che a Nicolò hanno sempre solleticato l’intelletto e lo stomaco. Decido di leggere il suo libro camminando per strada, a voce alta, esattamente come si dovrebbe fare con un poeta orale che – più di ogni altro nella nostra generazione – ha dato vita a una serie di epifanie letterarie per me importantissime, da SALINIKA fino a «Neutopia», decretando un sodalizio artistico e umano che continua ancora oggi. Cammino lungo Corso Giulio in cerca di un ferramenta che fabbrichi ancora targhette per la posta, che in questo tempo di perdita dell’oggetto faticano a sopravvivere. Apro la prima pagina del libro alla fermata del tram 4, nello stesso quartiere dove Nicolò ha lavorato e vissuto con soggettività migranti: in esergo, una citazione di Eliade sottolinea la necessità di ripercorrere i propri passi, di andare a ritroso, per ritrovare il proprio senso e ricongiungersi all’inizio del mondo. La prima parte, Battito, contiene la produzione più sperimentale del poeta parmigiano, con l’aggiunta di qualche testo più recente. I suoi passi e i miei piedi danno il via ad un pentagramma comune di cui la città è lo spartito. In brani come Per favore non scioglierti rivedo le pulsioni oniriche di Nicolò, le sue bambole asfittiche perdersi in scenari sintetici: «Miss Pocahontas illumina il mio scheggiato volto/ piccoli tagli di un rasoio mal funzionante,/ persecuzioni giù in strada e nelle province/l’uomo alla croce ammutolisce/ nei silenzi di panchine/ adolescenti si passano Vodka rubata,/ai margini del purgatorio.»

Collage digitale dell’autore via UTSANGA

Arriva il 4, salgo e mi faccio posto tra vite decomposte e facce sbucciate ed è come se mi trovassi catapultato a mia volta nella prosodia bop di questo menestrello del XXI secolo, questo cantore di vite annebbiate prestato alla poesia che ha ammaestrato il suo dire poetico in tutte le direzioni, visibili e sonore. Viviamo i tempi che scriviamo: così mi rendo conto che in Ciliegi e robot coesistono i due poli della vita dell’uomo moderno: da una parte la natura e dall’altra – non contrapposta ma innestata, partecipe – la tecnologia, nella sua inevitabile prospettiva futurista che si consuma in «sorbetti nebulosi». Scorre veloce il paesaggio periferico dal finestrino e l’autore e amico mi ricorda, nel limpido sole di un mattino di gennaio, che «non cadranno petali di pace/ tra le scorie male illuminate/ di fiabe sordide e strazianti.» È la mia fermata. Attraverso una traversa di corso Vercelli e riprendo la lettura del libro, che proseguo a de-cantare zigzagando – i passanti cominciano a squadrarmi in modo strano: sono queste le contrade del furore, e noi quella stirpe della cassa distorta che non chiede tregua in tempo di guerra, chiamata a risolvere la crisi esplosa a causa del debito «contratto dai padri». Suda e strepita nel vuoto lasciato dall’Onda, Nicolò, riporta in auge il suono di antiche battaglie (forse) perdute, per ricordarci chi siamo stati nel sogno e chi siamo nella vita.

A ‘sto giro Venere sta coi teppisti e pullula di mala vida accarezzata e annusata, vissuta con trepidazione per un attimo.

Qui perdo l’orientamento. Il civico che mi hanno dato è sbagliato. Chiedo indicazioni a una passante che porta il cane a spasso – imbottita di sciarpa e mascherina si scuce in un «di là» senza troppe storie. Seguo il suo dito indice e sbrigo la mia commissione. Uscito dal negozio, un DRIN isterico fa percepire il mio abbandono del campo imboccando la via. La seconda parte del libro, Fuga, riporta l’esperienza più mondana e flâneuristica di Nicolò, novello giramondo che à la manière de Jules Verne si muove su paesaggi sempre diversi, da Israele ai Balcani, raccontando in poesia gli aneddoti di incontri casuali, impieghi precari, megalopoli sperdute nel suo consueto stile musicale e sincopato. È questo il caso di Vorrei essere il sassofonista, dove i versi «comprendi dunque perché/ non esistono coralli/ a decorare questi anfratti opachi,/ è la fragilità del vuoto/ a tendere il coraggio alla ricerca di una brace» testimoniano una maturazione nell’orizzonte dell’autore, che dimostra di saper dosare le parole come un musicista farebbe con le note. Se in Last Balkan Express ritornano i temi sociali, sono soprattutto poesie all’amato se stesso quelle che compongono l’impalcatura di questa sezione, fatta eccezione per qualche sparuto verso d’amore, dove ci si abbandona, per una volta, a un romanticismo ai tempi dell’occupazione. Supero Piazza Crispi e attendo che scatti il verde. È ormai giunto il momento di riprendere la via del ritorno. Passato Corso Novara, mi rilancio a capofitto nell’ultima parte della raccolta, quella più prosaica, Respiro, dove la città e le luci al neon lasciano posto a un orizzonte mediterraneo, che rievoca le radici sicane di Nicolò: così, «mentre Notre Dame tace», il sole si fa rosso come nei migliori tramonti, la «bonheur de vivre» lascia spazio a un verso più melanconico, riflessivo, dove l’età degli eroi è finita e i cieli non sono più «sfibrati» come vagoni di un treno. Al contrario, si apprezza il profumo d’acacia, la luna è agrodolce come una fetta d’arancia, fino al momento di rimettersi in viaggio per la prossima stazione, la prossima dogana, celebrando gli ultimi momenti assieme, prima della fine della pagina.


Nicolò Gugliuzza, Tra ciliegi e robot (Edizioni del Faro, 2021)
67 pagine, Collana Sonar
Copertina dell’autore

Tra ciliegi e robot

Glitch Poetry