Abbiamo il Dune italiano e non ce ne siamo (ancora) accorti

Lo sappiamo bene, in Italia quella branca della speculative fiction detta “fantascienza” ha poca fortuna: considerata letteratura di serie B per nerd che non vogliono affrontare la realtà, non è mai riuscita ad affermarsi nella cultura “ufficiale”, complice il disprezzo mal dissimulato anche da grandissimi editori come Fruttero e Lucentini che, malgrado con la collana Urania avessero portato la fantascienza oltreoceano, ritenevano che “un disco volante non sarebbe mai atterrato a Lucca”.
Certo, vi sono le eccezioni, come la fortunata saga di Eymerich di Valerio Evangelisti, ma l’Italia rimane il paese dove l’orrore cosmico de Le venti giornate di Torino di De Maria è rimasto quasi sconosciuto per quarant’anni o Dissipatio H.G. di Guido Morselli è un culto per pochi eletti.
Negli ultimi anni però qualcosa sta cambiando, grazie a un ricambio generazionale che ha dato una svecchiata al gusto comune, che ha fortunatamente riposto i romanzi di Giorgio Faletti sullo scaffale (o usati come gamba del tavolo) e alla critica: l’interesse di pubblico che ha suscitato la versione cinematografica di Annhilation, l’exploit di una serie tv come Black Mirror, il rinnovato interesse per Star Wars o le edizioni italiane di libri come Le Visionarie hanno contribuito a ridare dignità alla fantascienza, complice anche lo sdoganamento del termine “new weird” per indicare quella commistione fra horror, sci-fi e fantasy che sta attirando interesse in tutto il mondo.

Mancavano le grandi saghe in pianeti lontani, ed ecco che a settembre esce in Italia la seconda trasposizione cinematografica (la prima, di David Lynch, era stata un fallimento di critica e pubblico) di Dune ed è subito un fenomeno.


Basata sul primo romanzo omonimo della lunga saga scritta da Frank Herbert, ambientata prevalentemente sul pianeta Arrakis, chiamato anche “Dune”, una landa desertica e inospitale, unico luogo di produzione, raccolta e raffinazione del Melange o Spezia, una preziosa e insostituibile sostanza, fondamentale per la struttura simil feudale della società galattica, organizzata attorno al Landsraad, all’Impero e alle Gilde. Arrakis e la sua complessa ecologia fanno da sfondo alla sfida per il controllo del pianeta, narrata inizialmente tra la dinastia Atreides e quella Harkonnen.
Questo primo film, dicevamo, è stato un successo, ma forse non tutti sanno che in Italia negli ultimi dieci anni abbiamo visto la nascita di un’altra saga che narra di un pianeta desertico: Mondo9.
L’autore è Dario Tonani, giornalista che si era già fatto notare per lo splendido Infect@, romanzo cyber noir che deve qualcosa a un’altra grande della fantascienza dello Stivale: Nicoletta Vallorani.
Nell’estate 2008 esce, a opera di Tonani, sulla rivista «robot» il primo racconto del ciclo, Cardanica.
Ambientato su un pianeta lontano quasi completamente deserto, gli esseri umani si danno battaglia su navi mostruose che solcano le sabbie infette.
Il racconto è narrato dalle voci desolate di due sopravvissuti a un naufragio che, poco a poco, scoprono la vera natura del mezzo cui stanno cercando di raggiungere un porto sicuro, catapultando ben presto la narrazione in una dimensione horror realmente spaventosa.

Le navi, su Mondo9, sono metallo e carne fusa assieme e di carne si nutrono, risultando esseri senzienti e non solo mezzi di locomozione meccanici.


A Cardanica fanno seguito inizialmente altri tre racconti (RobredoChatarra e Afritania), poi se ne aggiungeranno altri cinque, pubblicati dalla Delos Books e dalla 40K Books .
Il primo ciclo di quattro racconti verrà poi raccolto dalla Delos in un unico volume, dal titolo complessivo di Mondo9.
In questa prima parte del ciclo il pianeta viene esplorato da più punti di vista, che delineano un mondo spaventoso e ostile: mentre le navi combattono fra loro in una guerra senza fine, gli umani cercano di sopravvivere sia ad esse che da un morbo che trasforma il loro corpo in metallo.
È un’epopea di morte, quella di questi racconti, dove i cadaveri si ammucchiano sotto stormi di uccelli servitori (e nutrimento anch’essi) delle navi, mentre all’interno di queste si muovono nuove forme di vita ibrida fra macchina e corpo.
Ci sono infatti “gli interni”, le persone risucchiate dalla nave che, in un limbo fra la vita e la morte, comunicano con gli esseri umani, e poi c’è una nuova specie, i mechardionici, esseri sopravvissuti al morbo completamente metallici, che sopravvivono soltanto rubando i cuori umani.
Ed è dai Mechardionici che parte il nuovo ciclo di racconti, pubblicati inizialmente solo in e-book, che vanno a costituire un vero e proprio romanzo breve chiamato, per l’appunto, Mechardionica.
La struttura è infatti pù lineare e si basa quasi completamente sulle gesta di Asur, mechardionico, e di una bambina nomade prima suo ostaggio poi sua complice, Naila.

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In questi cinque racconti esploriamo ulteriormente Mondo9, entrando a Mecharatt, la gigantesca città portuale dove loschi traffici e omicidi da parte dei Mechardionici sono la normale quotidianità, e assistiamo all’epica battaglia fra Asur e la nave che lo ha “generato”.
La saga, che già aveva evidentissime sfumature steampunk, si colora di tinte a la Perdido Street Station di China Miélville e di un afflato epico senza però abbandonare i toni scuri della ruggine e splatter della carne che avevano caratterizzato i primi racconti.
Tutte e nove le novelle vengono ripubblicate da Urania in un unico libro, Cronache di Mondo9, con alcuni intermezzi che legano un racconto all’altro così da creare un unico grande romanzo.
Il libro non solo è un successo fra la critica di settore nazionale, ma viene premiato come uno fra i dieci migliori romanzi di fantascienza internazionale da una rivista giapponese.
Tre anni dopo, Mondadori dà alle stampe il seguito Naila di Mondo9: Ritroviamo Asur, molti anni dopo, e soprattutto Naila, che nel frattempo è diventata capitana della Syraqq, e approfondiamo la natura delle navi, che possono avere anche un genere nonché accoppiarsi.
L’epica di Mechardionica in questo romanzo s’intensifica andando a lambire i confini del fantasy, con l’ossessiva ricerca da parte di Naila della “Grande Onda”, mentre l’amico Asur, ibrido fra umano e macchina, appare sempre di più come l’unico essere su questo mondo crudele capace di provare emozioni.
Ma nel libro, malgrado la palese anaffettività dei personaggi e i cumuli di cadaveri da morte violenta che anche qui si ammucchiano, sembra far capolino un’umanità che si fa strada fra la ruggine e il metallo, a partire dal bambino che Naila, afflitta dal morbo, porta in grembo.

Tutto un mondo attorno a Dario Tonani - Fantasy & Fantascienza
Dario Tonani, via Nuove Vie

Con Naila di Mondo9 conferma la grandezza di una saga che sa affrontare con perizia i grandi temi di quest’epoca: l’ibridazione fra umano e meccanica, il salto di specie, il genere, finanche il rapporto fra macchine e animali non umani e infine, l’horror vacui che caratterizza anche il nostro mondo, tanto che alla lettura di Cronache e di Naila non si può non associare le pile di corpi, di cadaveri e di ruggine ai ormai sempre più cupi mucchi di cartelloni pubblicitari, corpi in movimento (meccanico?) e macchine del nostro tempo, con addirittura lo spauracchio di un morbo che condiziona la vita quotidiana.
Con il ciclo di Mondo9 Dario Tonani ci regala una saga che può tranquillamente competere con il successo che sta avendo Dune al botteghino, e a confermarlo c’è la ristampa del libro quest’anno per la collana Urania Jumbo, se i lettori e le lettrici italiane non ne prenderanno atto vuol dire che Fruttero e Lucentini si sbagliavano: un disco volante è atterrato a Lucca, ma gli esseri umani, arrugginiti da un sentir comune provinciale nel suo elitarismo, non hanno saputo vederlo.

Luca Gringeri


cronache di Mondo9 di dario tonani
mondadori, urania (2015)
disponibile in e-book
Illustrazioni di Franco Brambilla



Un Numero, una Data, il Mondo, Noi Stessi: indagine selvaggia sul significato di 2666

1.     La Parte delle Poetesse Visionarie

2666 è l’ultimo, lunghissimo e ambizioso romanzo di Roberto Bolaño. Si tratta di un romanzo polifonico diviso in cinque parti. Nella prima, quattro accademici (Jean-Claude Pelletier, Piero Morini, Manuel Espinoza e Liz Norton) sono alla ricerca dello scrittore tedesco Benno von Arcimboldi, di cui non si sa nulla ma che, secondo alcuni, si troverebbe nella città messicana di Santa Teresa. Giunti in quella città, i critici conoscono Óscar Amalfitano, docente cileno che ha tradotto in spagnolo alcuni romanzi di Arcimboldi. La seconda parte vede come protagonista Amalfitano stesso, il suo passato tumultuoso con la ex moglie Lola, la sua crescente preoccupazione per la figlia Rosa e la strana paranoia scatenata in lui da un libro di geometria. Nella terza parte, il giornalista afro-americano Oscar Fate giunge a Santa Teresa per seguire un match di pugilato, ma rimane incuriosito dai femminicidi che dilagano nella città. Amalfitano riesce a convincerlo a prendere con sé sua figlia e i due, Fate e Rosa, lasciano Santa Teresa dopo aver assistito alla conferenza stampa di Klaus Haas, accusato dei femminicidi. La quarta parte è un elenco dettagliato dei delitti di Santa Teresa, inframmezzato da varie vicende, come quella del giornalista Sergio González che prima segue il caso di Klaus Haas e poi viene contattato dalla deputata Azucena Esquivel Plata, che gli chiede di ritrovare un’amica scomparsa. La quinta e ultima parte vede come protagonista lo scrittore Benno von Arcimboldi. Della struttura dell’opera e delle storie che 2666 contiene, genera e spezza se ne è discusso e tuttora se ne discute in abbondanza. Permane, al di sopra dei contenuti e dei ‘dettagli’ delle diverse trame e sottotrame, un enigma: perché 2666 si intitola ‘2666’? Questo titolo, così presente sulla copertina, è in realtà un’assenza ragguardevole all’interno del romanzo: non c’è nessuna traccia del numero ‘2666’ all’interno di 2666.

Ma prima di tutto, cosa dovrebbe significare ‘2666’?

Secondo un’interpretazione comune, il numero del titolo si riferisce a una data e dovrebbe quindi essere pronunciato ‘duemilaseicentosessantasei’. Questa interpretazione si basa su alcuni elementi presenti non in 2666, ma in altri romanzi di Bolaño. La poetessa real-visceralista Césarea Tinajero, verso la fine di Detective Selvaggi, vaneggia su una data futura intorno all’anno 2600, quando a suo dire accadrà qualcosa di apocalittico. Auxilio Lacouture, che si autoproclama “la madre di tutti i poeti messicani”, protagonista di uno dei capitoli più intensi di Detective Selvaggi e che in seguito riprenderà vita nel romanzo breve Amuleto, proprio in Amuleto è colta da una visione notturna: le strade infinite di Città del Messico si trasformano sotto i suoi occhi in un cimitero proveniente dal futuro, precisamente dall’anno 2666. Si tratta di un cimitero in cui sono sepolti tutti i poeti di cui lei è la madre.

Abbiamo dunque due personaggi che parlano di una data e quella data diventa poi il titolo dell’ultimo romanzo di Bolaño, in cui però quei due personaggi non compaiono. Entrambi i personaggi sono donne, poetesse e visionarie: vedono il futuro, vivono in un tempo che non è né lineare né circolare, ma spiraliforme. Non è implausibile supporre che molte delle cose che affermano questi due personaggi non vadano presi alla lettera. Auxilio Lacouture, in particolare, sembra possedere una ‘mente metaforica’: a volte vede Città del Messico come se fosse un corpo, col suo groviglio di calles e avenidas a formarne l’intreccio di vene e nervi. Allo stesso modo, parla di ‘2666’ come una data che in realtà significa qualcos’altro: per lei, quell’anno è il cimitero verso cui tutti i poeti tendono, inclusa lei stessa. Il numero 2666 è sì una data, ma quella data è anche un luogo metafisico.

Inoltre, se da un lato Césarea Tinajero è la fondatrice della poesia real-visceralista, dall’altro Auxilio Lacouture è “la madre di tutti i poeti messicani”: le due poetesse visionarie rappresentano pertanto un’origine, l’”inizio” tanto simbolico quanto carnale della letteratura. Allo stesso tempo, di tutti i personaggi di Bolaño loro due sono anche le uniche a presagire la ‘fine’, vedendo in anticipo il cimitero 2666. In altre parole, l’inizio (Césarea e Auxilio) pre-vede (o forse contiene) la fine.

Ma la fine di cosa? La fine dei poeti, in quanto 2666 è il cimitero nel quale essi verranno sepolti. È anche, in un certo senso, la fine di Bolaño stesso, dal momento che 2666 è il suo ultimo romanzo, scritto poco prima della sua morte. Questa fine, questo numero che indica una data che indica un luogo mortifero, è necessariamente qualcosa di negativo?

2.     La Parte della Rivoluzione

Nel 1975, un Roberto Bolaño poco più che ventenne, assieme a Mario Santiago Papasquiaro, José Vicente Anaya, e altri ruggenti giovanotti di Città del Messico, fondano il movimento letterario dell’infrarealismo. Secondo l’infrarealismo, la realtà è più vasta di ciò che esperiamo: fra un pianeta e l’altro, o fra il nucleo di un atomo e i suoi elettroni, c’è un vuoto impercepito. Questo vuoto non è al di sopra o al di là del reale. Gli infrarealisti non sono ‘surrealisti’: non sono interessati alla sur réalité, ma alla infra-dimensione che si frappone fra le cose, che non supera la realtà ma piuttosto ne fa parte. Il vuoto, questo spazio infra le cose, non è il regno dell’inconscio, ma la dimensione del possibile. Fra una cosa e l’altra, fra una stella e un pianeta, fra il nucleo di un atomo e i suoi elettroni, c’è un’assenza, un non-luogo tanto indescrivibile quanto reale, che è anche una potenzialità. Per citare il poeta Paul Éluard, insomma: “C’è un altro mondo, ma è dentro di questo”.

Essere infrarealista significa non solo riflettere sulla realtà così com’è qui e ora, ma anche esaminare la sfera del possibile e tentare di ‘attualizzare’ ciò che ancora non è, o che è solo a livello potenziale. L’infrarealismo, di conseguenza, non è solo uno stile letterario o poetico, ma anche uno stile di vita. Per un infrarealista essere un poeta non significa limitarsi a rappresentare il mondo, ma significa semmai intervenire nel mondo: il poetare fa parte della realtà e dei modi per cambiarla. Il Manifesto infrarealista, scritto nel 1975, recita: “La nostra etica è la Rivoluzione, la nostra estetica la Vita: una-sola-cosa.” La poesia è un modo per rendere attuale ciò che è contenuto nell’oceano di potenzialità del vuoto. Di conseguenza, l’unica poesia possibile non può che essere la rivoluzione.

L’ambizione rivoluzionaria dei poeti infrarealisti può essere compresa come reazione all’establishment culturale che in quel periodo dominava in Messico grazie all’appoggio del PRI, il Partido Nacional Revolucionario, che governò ininterrottamente per settantuno anni.

Durante il suo lunghissimo governo, il PRI non smise di ricevere l’appoggio di scrittori, artisti e intellettuali che il partito stesso prezzolava, istituzionalizzava e ‘irreggimentava’. La politica che appoggia la cultura che appoggia la politica: un sistema perverso (ma non inusuale, né tremendamente originale) che Mario Vargas Llosa, nel 1990, durante una conferenza a Città del Messico, non mancò di definire “la dittatura perfetta”. (Fra parentesi: Mario Vargas Llosa non venne più invitato in Messico a tenere conferenze.) È in questo contesto sociale, culturale e politico che prende vita l’ideale infrarealista: scrivere poesie è prima di tutto un’azione, ma non tutte le azioni poetiche consistono nella composizione dei versi. Poetare, per gli infrarealisti, può anche significare manifestare per le strade, o interrompere le conferenze di Octavio Paz e degli altri intellettuali a busta paga del PRI.

A parte la loro etica dall’azione rivoluzionaria, non bisogna dimenticare che gli infrarealisti possiedono anche un’estetica legata a una metafisica. Il loro ideale estetico è la vita: una cosa sola con l’azione rivoluzionaria e con il mondo che tale azione va via via attualizzando. L’opera d’arte, in quanto gesto rivoluzionario, interviene nel mondo e fa parte del mondo. Non bisogna dimenticare che l’infrarealismo è prima di tutto una forma di realismo: l’opera d’arte fa parte della realtà e la realtà entra dentro l’opera d’arte. Il poeta infrarealista, quindi, non fa altro che riempire il ‘vuoto’ fra l’opera e il mondo, contribuendo con il proprio realismo a generare una nuova realtà.

3.    La Parte della Realtà

Le due opere maggiori di Roberto Bolaño, Detective Selvaggi e 2666, sono due romanzi infrarealisti, quindi (a modo loro) realisti. Molti degli avvenimenti raccontati in Detective Selvaggi sono accaduti veramente. I protagonisti sono Arturo Belano e Ulises Lima, due giovani poeti che vivono a Città del Messico e che fanno parte del cosiddetto realismo viscerale, altri non sono che Bolaño stesso e il suo amico Papasquiaro, fondatori dell’infrarealismo. Né è difficile riconoscere nel personaggio di ‘Octavio Paz’, preso di mira dalle proteste e dalle interruzioni goliardiche del gruppo dei realisti viscerali, il ‘vero’ Octavio Paz. ‘Piel Divina’ è Jorge Hernández, celebre trasformista messicano dichiaratamente bisessuale e soprannominato, appunto, Piel Divina; le ‘sorelle Font’ sono le sorelle Llarosa; ‘Iñaki Echavarne’ è Ignacio Echevarría, critico letterario e amico di Bolaño; eccetera.

Persino i personaggi e le vicende più inverosimili del romanzo sono ispirati a persone e fatti realmente accaduti. Auxilio Lacouture, la ‘madre di tutti i poeti messicani’, che rimane chiusa nei bagni del Dipartimento di Lettere e Filosofia della Universidad Nacional Autónoma de México, è Alcira Soust Scafo, poetessa uruguaiana e vagabonda, che nel 1968 rimase chiusa per giorni nei bagni del quarto piano del Dipartimento di Lettere e Filosofia, a leggere poesie e cibarsi di carta igienica. Lo fece per difendere l’autonomia della UNAM quando l’esercito irruppe nel campus per prelevare con la forza più di mille persone, fra studenti e docenti in protesta contro l’organizzazione delle Olimpiadi: un evento pubblicizzato come un’occasione di rilancio per la nazione, ma che da molti venne interpretato come uno spreco di denaro pubblico. Gli studenti e i docenti della UNAM furono quindi trasportati a Plaza Tlatelolco, detta anche Plaza de las Tres Culturas, dove vennero barbaramente massacrati per mano del loro stesso governo in quella che è una delle pagine più nere nella storia del Messico. Tutto quello che Auxilio Lacouture racconta è successo veramente ad Alcira Soust Scafo, unico baluardo inespugnato della UNAM.

Roberto Bolaño a Barcellona negli anni novanta

Essendo però non un realista qualsiasi, ma un infrarealista, Bolaño non si è limitato a cambiare i nomi e fare semplice cronaca. Per esempio ‘Césarea Tinajero’, la misteriosa fondatrice del realismo viscerale, è sì Concha Urquiza, una delle più grandi poetesse nella storia della letteratura messicana; ma se, da un lato, i personaggi di Belano e Lima vanno alla ricerca di Césarea, dall’altro è impossibile che negli anni Settanta i ‘veri’ Bolaño e Papasquiaro siano andati alla ricerca della Urquiza, che era morta negli anni Quaranta. In una prospettiva infrarealista ciò non pone necessariamente un problema: gli infrarealisti non sono interessati solo a quello che è accaduto, ma anche a quello che dovrebbe accadere per cambiare il mondo. Quale modo migliore di cambiare il mondo se non cambiare il passato? Non è dunque importante provare a scoprire e fare il conteggio di quante e quali delle cose raccontate in Detective Selvaggi siano successe ‘veramente’, perché l’importante è capire che tutto quello che è raccontato in Detective Selvaggi sarebbe potuto accadere.

I labili confini fra realtà e finzione letteraria in Detective Selvaggi sono cosa ben nota agli studiosi di Bolaño. Ciò che non viene sottolineato troppo spesso, è che Bolaño utilizza esattamente lo stesso approccio anche in 2666. La ‘Santa Teresa’ di 2666 è Ciudad de Juárez, capitale dello stato messicano di Chihuahua, dove, fra il 1993 e i primi anni 2000, vennero ritrovati i cadaveri di circa 370 donne, mentre altre 400 sparirono senza lasciare traccia. Fin qui, nulla di nuovo: che Bolaño si sia ispirato ai fatti di Juárez non è un mistero. Ciò che forse non è risaputo è quanto Bolaño abbia preso a piene mani dalla realtà. Alcune parti di 2666 sono talmente assurde che si farebbe fatica a definirle ‘realistiche’. Uno dei momenti più onirici della quarta parte, per esempio, vede l’arresto del tedesco Klaus Haas, accusato dei femminicidi. Un uomo alto, strano e inquietante, che finisce in gattabuia in attesa di ulteriori prove e del regolare processo. Mentre Haas è le sbarre, però, i delitti continuano, il che porta a pensare che o l’assassino non è lui oppure ha dei complici. A un certo punto, Haas convoca una conferenza stampa dal carcere, comincia a delirare sull’esistenza di gruppi di uomini facoltosi che ‘commissionano’ i femminicidi, una specie di sadica società segreta, il tutto in stile “lo so, ma non ho le prove”, o forse le prove ce le ha davvero, e ovviamente continua a proclamare la sua innocenza. Intanto Sergio González, giornalista di Città del Messico giunto a Santa Teresa per occuparsi del reportage sui femminicidi, riceve un numero di telefono dall’avvocata di Haas. Quando la sera compone quel numero, rimane sconvolto nell’apprendere che dall’altra parte del telefono non c’è l’avvocata ma Haas, che quindi non solo convoca conferenze stampe dal carcere, ma riesce anche a comunicare con l’esterno. Haas prova a rivelare alcune verità a González, ma sono verità ermetiche: parla di sogni che come un virus ‘contagiano’ i carcerati, parla di un rumore strisciante che dimostrerebbe la sua innocenza… Fuori dal carcere, intanto, la situazione coi delitti diventa talmente insostenibile che le autorità di Santa Teresa decidono di assumere un consulente, Albert Kessler, un ex-agente dell’FBI. Una decisione applaudita da alcuni ma criticata da molti, che interpretano l’arrivo di Kessler come l’ennesima occasione per confondere le acque.

Che dire di questi e simili episodi del romanzo? Sono talmente esagerati, ingarbugliati e bizzarri che sembrano avere poco a che fare con la realtà. Eppure, proprio come la storia apparentemente inverosimile di Auxilio Lacouture in Detective Selvaggi,così la storia di Haas è ispirata a fatti realmente accaduti. Nel 1995 un uomo statunitense di origine egiziana, Abel Latif Sharif, venne arrestato con l’accusa di essere il serial-killer di Ciudad de Juárez. Nonostante il sospettato numero uno fosse in carcere, però, i femminicidi continuarono. Sharif, che viveva in Messico da meno di un anno e che non parlava spagnolo, riuscì a convocare una serie di conferenze stampa dalla prigione. Un giornalista di Città del Messico, Sergio González Rodríguez, decise di recarsi a Ciudad de Juárez per seguire il caso Sharif. Nel mentre, le autorità messicane invitarono come ‘consulente alle indagini’ l’ex agente dell’FBI Robert Ressler… È evidente che moltissime delle cose che Bolaño ha descritto nella Parte dei Delitti, incluse quelle più strane e incongruenti, siano fortemente ispirate allo gnommero di una realtà che supera, o per lo meno anticipa, la fantasia. Questa realtà deforme, spaventosa e inquietante era già stata raccontata in Huesos en el desierto, il libro-reportage del giornalista Sergio González Rodríguez. Bolaño aveva letto quel libro e aveva contattato l’autore via email. Qualche anno dopo, Sergio González Rodríguez si trovò a passare da Barcellona, dove Bolaño viveva con la famiglia. Rodríguez e Bolaño si incontrarono e quest’ultimo fu chiarissimo nel rivelare al giornalista che un capitolo del suo romanzo 2666 avrebbe attinto a piene mani da Huesos en el desierto e che ci sarebbe stato persino un personaggio chiamato ‘Sergio González’ inequivocabilmente ispirato a lui.

Tutti i delitti raccontati nell quarta parte di 2666 sono la trasposizione fedele di alcuni dei delitti di Juárez. Notoriamente, questa parte è la più ostica di tutto il romanzo, in quanto contiene numerose descrizioni (fredde, distaccate, cliniche) delle vittime, della loro vita e del loro ritrovamento. Ci si potrebbe allora domandare quale sia il senso di una simile operazione letteraria. Il senso sta forse nella reazione che la parte dei delitti provoca nel lettore. I delitti sono orrore che, per accumulo, diventano noia e infine indifferenza. Più il conteggio delle vittime sale, più le perdiamo di vista: quelle donne sono davanti ai nostri occhi, l’orrore delle loro morti catturato nella pagina che leggiamo, ma più leggiamo e più svaniscono, non sono più persone, sono solo cadaveri anonimi verso i quali non proviamo assolutamente nulla, nomi privi di significato che scorrono via mentre noi, lettori affetti da voyeurismo selettivo, pensiamo ancora ai destini dei quattro critici, di Rose e Fate, o di Amalfitano.

Il delitto non solo uccide, ma deumanizza la vittima, che in effetti ‘scompare’: non esiste più, svanisce. Questo succede mentre noi lettori leggiamo la parte dei delitti di 2666, ma anche tutti i giorni, quando apprendiamo dal notiziario di morti, carestie, malattie: tutte cose per cui non proviamo nulla, perché il dolore degli altri, la loro morte, le grandi tragedie umane, non ci sfiorano. Ci commuoviamo più per un film, e quindi per un’opera di finzione, che per le tragedie del mondo reale. Ma Bolaño è un realista: le sue opere di finzione non vogliono né evadere dal mondo, né edulcorarlo. La parte dei delitti ci annoia perché nella realtà noi siamo i mostri insensibili che rimangono indifferenti al dolore che non sia il nostro, annoiati dalla morte altrui. Se da un lato, come Nicola Lagioia ha affermato in una lezione alla Scuola Holden, con Detective Selvaggi Bolaño ha anticipato il mondo contemporaneo fatto di relazioni globali e ‘networking’, dall’altro, in 2666 ha visto un mondo in cui l’esposizione alla violenza ci ha resi cinici e indifferenti di fronte al dramma della condizione umana: lo ha visto e ce lo ha mostrato.

Nel suo approccio al racconto della realtà, dunque, 2666 non si discosta da Detective Selvaggi: il realismo, che è una componente naturale dell’infrarealismo, in certi momenti diventa iper-realismo. Questa caratteristica è presente in entrambi i ‘romanzi maggiori’ di Bolaño. A livello di oggetti letterari, dunque, cosa sono questi romanzi? Memoir? Auto-fiction? Cronaca con altri mezzi? Possibile che dietro l’infrarealismo si nascondano, abbastanza banalmente, forme e stilemi già ampiamente collaudati da altri?

Per rispondere a queste domande bisogna continuare ad analizzare 2666, che non è solo un romanzo infrarealista ma, in un certo senso, propone e sviluppa al suo interno anche una ‘teoria’ dell’ infrarealismo stesso.

4. La Parte del Male Assoluto

Nella prima parte di 2666 veniamo a conoscenza, fra gli altri, del pittore inglese Edwin Johns, il cui quadro più famoso è “un’ellissi di autoritratto, talvolta una spirale di autoritratto (dipende da dove veniva contemplato), al cui centro, mummificata, era appesa la mano destra del pittore”. Il capolavoro di Johns è un pezzo di sé, la sua mano reale è anche un’opera d’arte. Questo prendere pezzi di sé per trasformarli in opera d’arte non è che la metafora, tutto sommato lampante, di quello che Bolaño aveva fatto in Detective Selvaggi, in cui aveva preso ‘pezzi di sé’, della sua vita e di quella dei suoi amici, per costruire il grande romanzo dei poeti messicani.

Altri quadri all’interno di 2666 sembrano giocare un ruolo premonitore, se non oracolare. Quando tre dei quattro critici vanno a Santa Teresa pernottano all’Hotel México, in cui ogni stanza è arredata in maniera diversa. Nella stanza di Espinoza c’era “un quadro di grandi proporzioni dove si vedeva il deserto e, sul lato sinistro, un gruppo di uomini a cavallo vestiti con camicie beige, come se appartenessero all’esercito o a un club ippico”. Espinoza fa un sogno in cui, seduto a bordo del letto, osserva le figure del quadro muoversi con una strana lentezza, “come se abitassero un mondo differente dal nostro, dove la velocità era diversa, una velocità che per Espinoza era lentezza, anche se sapeva che grazie a quella lentezza l’osservatore del quadro, chiunque fosse, non impazziva”. A parte i loro movimenti ‘fuori tempo’, nel sogno le figure del quadro hanno anche il dono della parola:

“E poi c’erano le voci. Espinoza le ascoltò. Voci appena udibili, all’inizio solo fonemi, brevi gemiti lanciati come meteoriti sul deserto e sullo spazio costruito della stanza d’albergo e del sogno. Fu però capace di riconoscere alcune parole isolate. Rapidità, premura, velocità, leggerezza. Le parole si facevano strada nell’aria rarefatta del quadro come radici virali in mezzo a carne morta. La nostra cultura, diceva una voce. La nostra libertà. La parola libertà suonava a Espinoza come un colpo di frusta in un’aula vuota”.

Nella rappresentazione artistica la realtà si manifesta così com’è ma con un ‘ritmo diverso’, per permetterci di coglierne le sfaccettature (ed evitare di impazzire). Il quadro della camera di Espinoza non fa altro che anticipare la teoria che Klaus Haas svilupperà centinaia di pagine dopo: il deserto del quadro è il deserto di Santa Teresa, dove verranno ritrovati i cadaveri di centinaia di donne, e forse è stato davvero tutta opera di quegli uomini a cavallo, membri dell’esercito o forse di un club esclusivo, che da un lato sbandierano i valori delle società liberali e capitaliste (‘libertà’, ‘velocità’, ‘leggerezza’), mentre dall’altro compiono i crimini più atroci semplicemente per il gusto di compierli.

In 2666 ci sono anche numerosi episodi in cui gli specchi giocano un ruolo particolare. Alcuni di questi episodi: il proprietario di una galleria d’arte vede lo spettro della nonna riflesso su uno specchio (nella Parte dei Critici); un tappeto sembra trasformarsi in uno specchio (nella Parte di Amalfitano); un filmato si interrompe con la cinepresa che si avvicina a uno specchio (nella Parte di Fate); uno specchio copre un passaggio segreto (nella Parte di Arcimboldi). In ciascuno di questi episodi lo specchio, la cui funzione dovrebbe limitarsi a quella di riflettere fedelmente la realtà, sembra possedere altre virtù e poteri: può celare allo sguardo un pezzo del mondo, o svelare l’esistenza di altre dimensioni, o rivelare lo sguardo di una macchina da presa a sé stessa. Forse con la sola eccezione del tappeto che si trasforma in specchio, raccontato da Lola nella Parte di Amalfitano, gli specchi di 2666 non sono oggetti ‘magici’ o inusuali. Al contrario, questi specchi riescono a celare, svelare e rivelare proprio proprio perché assolvono la loro comune e banale funzione di specchi: è nel momento in cui rimanda l’immagine fedelissima e precisa della realtà che lo specchio mostra la realtà così come non la si era mai vista prima.

Come il quadro di Edwin Johns, così anche gli specchi sono la metafora del romanzo infrarealista. Rappresentando la realtà così com’è, diventandone lo specchio fedele, sia che si racconti la propria vita o un caso di cronaca, il romanzo infrarealista mostra il mondo in un modo nuovo. Non è un caso che una delle conferenze nella quale i quattro critici della prima parte hanno la possibilità di ritrovarsi si intitola “L’opera di Benno von Arcimboldi come specchio del Novecento”: in 2666, romanzo di cui la quarta parte diventa lo specchio fedele dei femminicidi di Ciudad de Juárez, i romanzi di uno scrittore vengono definiti come lo specchio di un’epoca.

Il mondo di cui 2666 è specchio fedele è un mondo intriso di un male assoluto, totale, cosmico. Il numero ‘2666’ richiama inequivocabilmente il 666 dell’Apocalisse biblica. Si tratta del numero della Bestia, del male totale che governa un mondo irredimibile. C’è qualcosa di profondamente disturbante e irrisolto in questa constatazione. Come già spiegato, l’infrarealismo proponeva un ‘realismo rivoluzionario’: la realtà doveva essere rappresentata non solo così com’era ma anche per come sarebbe potuta diventare, il poetare degli infrarealisti avrebbe dovuto condurre al cambiamento rivoluzionario. In 2666, però, non c’è apertura al cambiamento: il romanzo ci mette di fronte a un mondo intriso di male assoluto e non propone alcuna alternativa, neppure ideale. È come se, avendo fatto entrare il mondo reale nell’opera d’arte, il romanzo infrarealista si sia ‘contagiato’, perdendo la sua potenza rivoluzionaria. Del resto tale contagio era inevitabile: nel momento in cui si dissolvono le barriere tra realtà e finzione,  il romanzo diventa uno specchio del mondo che a sua volta può essere letto, interpretato e decodificato come un gigantesco romanzo dell’orrore.

Il cortocircuito dell’infrarealismo si palesa nella struttura stessa di 2666, come schematizzato nella figura in basso, in cui le ‘parti’ in blu sono quelle che si svolgono a Santa Teresa, la linea arancione rappresenta l’arco narrativo di Amalfitano, la linea rossa quello di sua figlia Rosa e la linea nera quella di Arcimboldi.

Il ‘teatro-mondo’ di 2666 è la città di Santa Teresa. In questa città troviamo i critici che vanno alla ricerca di Arcimboldi, nonché Amalfitano e sua figlia Rosa. Amalfitano si presenta ai critici come il traduttore di alcuni romanzi di Arcimboldi, fra cui La rosa infinita: lui è quindi il ‘padre’ (o patrigno?) di ‘Rosa’ in molti sensi. Rosa è il personaggio che, in 2666, simboleggia la vita, la gioventù, l’eros e che, alla fine della terza parte, fugge da Santa Teresa con Fate (ovvero, ‘Destino’). La lunga parte sui delitti, la quarta, prende il via proprio dopo la fuga di Rose e Fate: senza più Rosa, Santa Teresa diventa un luogo privo di vita e di amore, un inferno privo della speranza nel futuro, un mondo intriso di un male totale.

È da notare che nonostante 2666 cominci con la ricerca ossessiva dello scrittore Arcimboldi, man mano che il romanzo si dipana è Rosa il personaggio di cui si perdono le tracce. Lei è colei che temiamo (oppure, sadicamente, speriamo?) di trovare fra le donne assassinate della quarta parte. Invece Rosa è proprio sparita: è uscita per sempre dal mondo terribile di Santa Teresa. Rosa, in definitiva, diventa l’assenza ragguardevole, il personaggio che esce di scena lasciando uno ‘spazio vuoto’. Ironicamente, nella quinta e conclusiva parte apprendiamo che probabilmente Arcimboldi, di cui tutti all’inizio erano alla ricerca, si recherà a Santa Teresa: perché il destino dello scrittore è quello di abitare il mondo governato dal Male. E probabilmente Arcimboldi sarà giunto a Santa Teresa prima dell’arrivo dei critici che lo stanno cercando: ovvero, prima dell’inizio di 2666. La fine di 2666 è qualcosa che ci conduce a prima del suo inizio e a quel punto non si può che ricominciare tutto da capo, con il critico Jean-Claude Pellettier che legge un romanzo senza sapere che si tratta della seconda parte di una trilogia.

2666 è un nastro di Mobiüs diabolico da cui è impossibile uscire: non ha un inizio o una fine, i suoi personaggi sono condannati a stare in mezzo a un fluire di eventi che non comprendono. Tutto ciò è sia la metafora della letteratura infrarealista che del suo definitivo fallimento. Non a caso, la città di Santa Teresa è il luogo in cui, come narrato in Detective Selvaggi, morì  Césarea Tinajero, colei che sta all’origine della letteratura e che aveva previsto ‘2666’: una data che è un luogo che è là dove l’inizio e la fine coincidono.

5. La Parte del Lettore

È ora di tirare le somme di tutte queste considerazioni. Come il ‘666’ dell’ultimo libro del Libro dei libri, così anche ‘2666’ rappresenta una fine, una conclusione: non solo l’ultimo libro di Bolaño, ma anche la fine della letteratura infrarealista (il cimitero dei poeti nella visione di Auxilio Lacouture, l’evento terribile vaticinato da Césarea Tinajero). Una fine che era già stata prevista all’origine dell’infrarealismo stesso (simboleggiata, appunto, dalla Tinajero e dalla Lacouture). L’infrarealismo si proponeva di essere una ‘poesia rivoluzionaria’, un poetare in grado di cambiare il mondo attualizzandone le possibilità, investigando il vuoto fra le cose esistenti. Il suo fallimento consiste nel realizzare che, per quanto si possa provare a cambiare il mondo, quest’ultimo rimarrà un luogo maledetto: il male è la sostanza di tutte le cose e il romanzo, con la sua forma caotica, disordinata e spesso spietata, non può che esserne lo specchio inesorabile. L’unico realismo possibile è quello in cui si rappresenta un mondo, quello di Santa Teresa, in cui Rosa sparisce per sempre e al suo posto rimane la morte.

L’opera d’arte è lo specchio del mondo e il mondo è dominato dal male: tutto questo diventa 2666, ovvero ‘due volte 666’, un numero che è una data che è un luogo simbolico, quello della letteratura, dove assistiamo allo spettacolo terrificante del male sdoppiato, della rappresentazione di un mondo che si guarda nello specchio della letteratura mentre la letteratura ‘muore’ della sua stessa incapacità di cambiare il mondo che rappresenta.

Eppure si ha la sensazione che qualcosa continui a sfuggire. Concentrandosi sulla relazione diadica tra rappresentazione e rappresentato forse si perde di vista qualcosa di così fondamentale che a parlarne esplicitamente si rischia la banalità: ovvero, il fatto che nessuna rappresentazione può essere riconosciuta come tale in mancanza di un osservatore. In fondo, la rappresentazione artistica del mondo sta negli occhi di chi la guarda. Da un lato, il romanzo può essere specchio della realtà solo se c’è un lettore, dall’altro, però, anche i lettori fanno parte del mondo che il romanzo rappresenta. È possibile scrivere un romanzo capace di contenere in sé i propri lettori?

Ritornando ai numerosi specchi di 2666, il gioco di riflessi e rappresentazioni collassa nel momento in cui abbiamo non uno, ma due specchi messi l’uno di fronte all’altro. Questa situazione capita a Liz Norton. Se nella camera dell’Hotel México in cui alloggia Espinoza c’è un quadro emblematico e profetico, in quella della Norton ci sono due specchi giustapposti. Come Espinoza, anche la Norton sogna il mobilio della sua camera d’albergo, rimanendo turbata.

“Nel suo sogno, la Norton si vedeva riflessa in entrambi gli specchi. In uno davanti e nell’altro di spalle. Il suo corpo era leggermente obliquo. Era impossibile dire con certezza se volesse avanzare o retrocedere […] All’improvviso la Norton si rese conto che la donna riflessa nello specchio non era lei. […] Quando aprì gli occhi, lo sguardo della donna nello specchio e il suo s’incrociarono in un punto imprecisato della stanza. Gli occhi di lei erano uguali ai suoi. Gli zigomi, le labbra, la fronte, il naso. La Norton si mise a piangere e pensò che piangeva dal dolore o dalla paura. È uguale a me, si disse, ma lei è morta. La donna provò a sorridere e poi, quasi di colpo, una smorfia di paura le sfigurò il volto. Allarmata, la Norton guardò indietro, ma dietro non c’era nessuno, solo il muro della stanza. La donna tornò a sorriderle. Stavolta il sorriso non fu preceduto da una smorfia, ma da un’espressione di profondo abbattimento. E poi la donna sorrise ancora e il suo volto si fece ansioso e poi inespressivo e poi nervoso e poi rassegnato e poi passò attraverso tutte le espressioni della follia e ogni volta le sorrideva di nuovo, mentre la Norton, ritrovato il sangue freddo, aveva tirato fuori un taccuino e prendeva appunti velocissimi su ogni cosa che accadeva, come se vi fosse cifrato il suo destino o la sua parte di felicità sulla terra, e continuò così finché non si svegliò”.

Per certi versi, il sogno di Espinoza e quello della Norton sono simili: entrambi si confrontano con la rappresentazione del mondo (il quadro e lo specchio), che rivela al loro sguardo qualcosa di inquietante. Ma mentre, nel suo sogno, Espinoza si limita a osservare dall’esterno il quadro del deserto, in quello della Norton è lei stessa a far parte della ‘rappresentazione’: lei entra nel riflesso dello specchio, ma ciò che vede è qualcosa di strano, una donna che è lei ma che non è lei. Guardandosi allo specchio, Liz Norton vede sia sé stessa che qualcos’altro.

Più di 600 pagine dopo, nella quarta parte, il giornalista  Sergio González, che sta seguendo le bizzarre conferenze stampa di Haas, viene contattato dalla deputata Azucena Esquivel Plata, la quale teme per la vita di una sua amica sparita nel nulla a Santa Teresa. La deputata racconta al giornalista di essersi recata lei stessa a Santa Teresa e di aver alloggiato presso l’Hotel México, che è dunque un albergo dei destini incrociati. Probabilmente la deputata ha dormito nella stessa camera in cui aveva dormito Liz Norton, o per lo meno in una camera molto simile. Racconta infatti la deputata:

“Cercai di dormire, ma non ci riuscii. Per un po’ guardai fuori dalla finestra i palazzi scuri della città, i giardini, i viali su cui di tanto in tanto passava una sola macchina ultimo modello. Girellai nella stanza. Notai che c’erano due specchi. Uno in fondo e l’altro vicino alla porta, e che non si riflettevano. Ma se assumevi una determinata posizione, allora uno specchio compariva sulla superficie dell’altro. Quella che non vi compariva ero io. Che strano, mi dissi, e per un po’, mentre mi vinceva il sonno, feci verifiche e provai posizioni. Arrivarono così le cinque del mattino. Più studiavo gli specchi, più inquieta mi sentivo. Capii che a quell’ora era ridicolo andare a letto. Mi infilai sotto la doccia, mi cambiai, preparai la valigia.”

Liz Norton e Azucena Esquivel Plata: ancora una volta due donne, come nel caso di Césarea Tinajero e Auxilio Lacouture. Questa volta non si tratta di poetesse visionarie, ma di una ricercatrice universitaria e di una giornalista convertita alla politica: due donne molto concrete, che abitano il mondo che vedono invece di seguire visioni e premonizioni. Due donne che vivono due esperienze simili ma diverse: mettendosi fra i due specchi giustapposti, Liz vede qualcosa che è e che non è sé stessa, mentre spostandosi Azucena vede i due specchi riflettersi l’uno nell’altro ma non è più in grado di vedere la propria immagine riflessa. Cosa significa?

La letteratura infrarealista voleva investigare lo spazio del possibile, il vuoto indescrivibile che esiste fra le cose. Ciò che si frappone fra il mondo e il romanzo che lo rappresenta sono i lettori, gli abitanti della dimensione ineffabile che esiste fra rappresentazione e rappresentato. I lettori possono decidere se limitarsi a osservare la relazione rappresentativa fra l’opera e il mondo che si specchiano a vicenda nell’eterno gioco dell’arte che imita la realtà che imita l’arte. Oppure possono scegliere di ‘mettersi in mezzo’, di cercare sé stessi sia nel mondo che nell’opera che lo rappresenta. In altre parole, possono decidere di leggere un romanzo come se quel romanzo non li riguardasse, oppure possono giungere alla realizzazione che quel romanzo, parlando del mondo, parla anche di loro che del mondo fanno parte.

Ci sono romanzi che, come scrisse Henry Miller in Tropico del Capricorno, si leggono come se si avesse la febbre e dopo la febbre ci si accorge di aver compreso qualcosa di sé stessi. Succede così sempre, a ogni lettore e con ogni romanzo? Certamente no, ma forse nella sua ultima opera Bolaño aveva compreso che nonostante un romanzo o una poesia non potranno mai portare a una rivoluzione radicale della società, della cultura e della politica, in alcuni casi possono rivoluzionare qualcos’altro: la coscienza dei lettori, l’identità di coloro che abitano nello spazio vuoto fra la letteratura e il mondo.

Ciò che Bolaño scriveva non era la autofiction di sé stesso, ma la autofiction di noi che lo leggiamo. Siamo tutti abitanti di Santa Teresa e per uscirne non dobbiamo ‘metterci di lato’ per studiare e analizzare quante e quali parti del romanzo corrispondano ‘veramente’ alla realtà. Non dobbiamo nemmeno cercare di inferire le motivazioni dell’autore a partire dalla sua opera: come Piero Morini confida a Liz Norton, probabilmente Edwin Johns si era mozzato la mano e l’aveva trasformata in un quadro semplicemente per denaro. Allo stesso modo, poco importa se il ‘vero’ Roberto Bolaño abbia scritto i suoi romanzi per arricchirsi o per seguire qualche intento più nobile: il lettore che si illude di essere il biografo e l’interprete dello scrittore è condannato a non comprendere nulla né dell’opera, né del mondo che rappresenta e nemmeno dello scrittore, il quale è sempre il vero biografo, interprete e creatore del suo lettore (per lo meno di quello ‘ideale’, per usare l’espressione di Umberto Eco).

Per uscire da Santa Teresa dobbiamo prima abitarla fino in fondo. Entrare in quell’orrore, in quella miseria, in quella malvagità, che altro non è che l’orrore, la miseria e la malvagità del nostro mondo. Chiederci quanto di quell’orrore, miseria e malvagità appartenga a noi stessi. Dobbiamo incontrare il nostro cadavere nelle pagine di un romanzo, la nostra morte, per capire noi stessi e poi rinascere.

2666 è quindi la fine della letteratura e degli scrittori (del loro ego, della loro presenza ingombrante), attraverso la quale può scaturire una vita rinnovata: perché in fondo 2666 è una fine che contiene l’inizio.


Roberto Bolaño, 2666 (Adelphi Edizioni)
pp. 963, traduzione italiana di Ilide Carmignani

La scomparsa del mondo e l’illusione della letteratura

Dei punti toccati da Davide Galipò nella puntata precedente di Contro il presenzialismo[1], me ne interessano in particolare due. Uno – di tipo teorico-critico – è il discorso sul “corpo poetico” (poesia orale, performance, palcoscenico…) in relazione alla sua scomparsa di fronte alla pandemia (e cioè alla scomparsa degli spettacoli “dal vivo”); l’altro – più storico – riguarda quelle nuove esperienze artistiche che Galipò segnala (mappa, collega) proprio in merito alla presenza in poesia (del corpo, ma direi anche del viso – cioè del corpo piegato a un’apparenza che ha fini diversi da quelli artistici).

Certamente – e ce lo dice del resto lo stesso Galipò, con la ricognizione che apre l’articolo – la questione del poetico che eccede il foglio, si fa situazione e performance, precede di gran lunga la pandemia. Tuttavia la parola “presenza” oggi acquista un significato specifico, storicamente determinato, dunque diverso da quello che aveva prima del 2020. “La scuola in presenza, “gli eventi in presenza” sono espressioni marcate proprio in quanto alludenti al loro contrario: quello che si è configurato da un anno a questa parte è infatti principalmente uno scenario dell’assenza, delle relazioni umane trasumanate in una messinscena virtuale.

Accelerazione della sottrazione

Suonerà millenaristico, ma concedetemi trenta secondi di Apocalisse: in questa realtà dematerializzata l’Occidente ha trovato la sua forma finale, il culmine di una storia che negli ultimi decenni ha sempre più optato per la spettralità, dai nuovi media al non-luogo dei centri commerciali[2], dallo streaming che sostituisce i dischi al sempre più consolidato smart working. Tutto retto, del resto, da un’invisibilità strutturale, che è quella del capitalismo, sistema – sempre più spesso accettato come natura, per giunta – che per statuto separa la materia (immobile) dal suo valore economico (mobile). Come scrive Marx, «a prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa intricatissima, ricca di sfumature metafisiche e di arguzie teologiche. […] il tavolo rimane legno, oggetto sensibile e comune. Ma quando appare come merce si trasforma in un oggetto sensibilmente soprasensibile»[3].

Eppure, rientrando nell’ambito della letteratura, la pandemia ha portato all’evidenza – dunque, tutto sommato, ha presentato – la struttura occulta su cui si fonda l’intera “fiera del libro”. Basta pensare alle presentazioni e ai festival: interamente crollati. E non si può prevedere con certezza quando (se) si riuscirà a recuperare del tutto la realtà dell’evento (culturale) in quanto esperienza di un tempo in uno spazio. Tuttavia – e questo è il punto – sarebbe semplicistico immaginare un sistema editoriale e letterario sconfitto dalla pandemia come accadimento funesto e oltreumano. Al contrario, ciò che suggerisco è proprio di guardare alla pandemia come occasione di disseppellimento, rivelazione di qualcosa che era già contenuto nel mondo pre-pandemico. Del resto, è evidente in quasi tutti i settori come la pandemia abbia accelerato l’imposizione di alcuni meccanismi cui già si aspirava: lo smart working e la scuola digitale ne sono esempi chiarissimi. Ebbene, in letteratura è successa una cosa simile: la pandemia ha accelerato la rivelazione di qualcosa che già c’era, ovvero la virtualità intrinseca del sistema letterario italiano odierno.

Presenza e presenzialismo

Quando dico virtualità, qui, lo intendo nella sua forza etimologica, cioè come derivato di virtus, dunque facoltà, potenza, qualcosa che sta in potenza. Virtualità vuol dire di fatto assenza, possibilità d’essere ancora a venire. La letteratura è dunque virtuale nel senso che, nella nostra società, non ha luogo, non è presenza. E non lo ha in duplice maniera: come “comunità” (o meglio, connessione, insieme di contatti) principalmente digitale (il “dibattito”, o più precisamente la pubblicità, si svolge sui social); come pratica non premiata dalla logica (in quanto “inesatta”) e dall’economica (in quanto scarsamente vendibile) del capitalismo.

Poiché improduttiva, la letteratura è relegata all’ambito dell’inutile e acquista, al più, valore di intrattenimento. Da questa subalternità, che è strutturale e pre-pandemica, capiamo che la “presenza” (festival, presentazioni, ecc.) che adesso ci sembra fisicamente irraggiungibile, era in verità già prima in larga parte presenza di una messinscena, l’esercizio inerziale di un corpo fantasmatico quale può essere la letteratura privata di incidenza (politica e gnoseologica) nel reale. Anche in questo senso si può parlare allora di presenzialismo: non presenza effettiva (che è un esserci, qualcosa di prezioso, come ci ha mostrato proprio la pandemia), ma virtuosismo del presenziare. Il presenzialismo è l’ideologizzazione della presenza, che, al massimo del suo parossismo, diventa un’assenza di sé a se stessi (alienazione), un essere-per-l’immagine.

Sottraendo una volta per tutte il reale oltre il virtuale, la pandemia ha dimostrato definitivamente il grave scollamento letteratura/realtà.

E si colloca qui, allora, la domanda circa le esperienze artistiche, che, private del loro habitat (festival, presentazioni, ecc.), si sono trovate sfollate nel non-luogo della loro spettralità, faccia a faccia con la propria irrealtà storica. Ora, di fronte a questa presentificazione dell’assenza, si hanno in linea di massima due possibilità: o trasferire del tutto la kermesse letteraria in una realtà seconda che non sia infettata e impraticabile come la prima (dunque, ovviamente, sui social), o problematizzare il rapporto dell’arte con la realtà attraverso una dicotomia presenza-assenza che appare più complicata del previsto e più simile, forse, a una dicotomia tra presenzialismo (che è, come detto, un’alienazione, dunque un’assenza nella presenza apparente) e assenza vera e propria (cioè rifiuto del sistema tout court, esilio, «contro il presenzialismo»). Nel primo caso, naturalmente, la natura virtuale del sistema letterario non viene risolta, ed anzi, funzionando interamente anche sui social, dimostra definitivamente la propria inconsistenza. Nel secondo, al contrario, assistiamo a un tentativo di dialogo con la storia, a una reale domanda sull’esserci e sul senso della poesia di fronte alla sparizione del mondo.

Fuori dall’immagine oppure immagine fino in fondo

Osservando le nuove proposte artistiche segnalate da Galipò – che funzionano innanzitutto prendendo la poesia come pratica, non come esposizione – ho pensato che forse sono due, principalmente, le strade da percorrere per un superamento dell’impasse descritta finora.

La prima di queste riguarda, naturalmente, il corpo. Si è capito che questo non può essere inteso come figura, come viso (visum, visto, simulacro), e che la “presenza” d’altro canto può scindersi in un presenzialismo che è presenza d’immagine (quindi assenza di sé) e una presenza effettiva (possesso di sé). Ecco, questa seconda opzione è quella che ci interessa.

Il corpo qui è una tridimensionalità che si scopre oltre l’immagine, irriducibile alla scena, informata da un qui ed ora insignificabile se non attraverso la sua esperienza diretta. In questo senso il valore del corpo potrebbe essere riscoperto proprio come origine, cioè come sostrato “insignificato” che produce significato (la poesia) ma lo tiene legato a un’esperienza indicibile; ne fa, insomma, radiazione di un’origine autentica.

Su questo fronte si possono collocare esperienze diverse. Ci rientrano indubbiamente quelle che insistono sulla phoné, e che quindi danno al corpo un ruolo significante, semantizzato, non di semplice veicolo; ma risultano tridimensionali in tal senso anche l’asemic writing, ad esempio, che sposta la significatività dalla grafia come parola alla grafia come gesto, nonché la stessa “lirica” (post, neo-, qui non importa), se funziona come atto «ritualistico»[4], dunque come unità inscindibile di significato e significante, e non come occasione confessionale.

Esempio di asemic writing

L’altra strada, all’opposto, è proprio la frequentazione (problematizzata) dell’assenza, ovvero la sfida diretta alla virtualità. Il lettore mi scuserà se parlo di un’esperienza che mi riguarda, ma lo si prenda come spunto di riflessione: quello che il liminalismo – dal mio personale punto di vista, è chiaro – sta portando avanti, ad esempio con le sessioni di scrittura collettiva su Dropbox[5][6], è proprio un’esposizione dell’identità ai flussi depersonalizzanti della rete. Non l’uso della virtualità come contenitore, ma la sua esplorazione abissale, spinta al punto da farla deflagrare: è l’allegoria rivelatoria di un processo che avviene quotidianamente, ovvero la trasformazione delle identità negli account, la liquefazione delle persone. Il cambio di medium o di impostazione ad ogni opera, poi, prevede che il liminalismo si auto-esaurisca in continuazione, come azione di una scrittura che deve confrontarsi in primis con una realtà mercificante ed effimera. In conclusione, dunque, possiamo dire così: le due strade sono la pars costruens e la pars destruens di un processo di riscoperta della tridimensionalità oltre la presenza-assenza del presenzialismo, del fondamentale “egologismo” di una letteratura senza realtà. E questa riscoperta, che cavalca la scossa operata dalla pandemia, vale come presa di coscienza e smascheramento delle illusioni – della società come natura e della letteratura come società.

Collage di copertina di Luc Fierens

[1] https://neutopiablog.org/2021/04/16/contro-il-presenzialismo/

[2] «I non luoghi rappresentano l’epoca, ne danno una misura quantificabile ricavata addizionando […] le vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti «mezzi di trasporto» (aerei, treni, auto), gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e, infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di se stesso.» Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1992, p. 58.

[3] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, 1.

[4] https://www.alfabeta2.it/tag/poesia-contemporanea/

[5] https://www.utsanga.it/aprile-astolfi-caggiula-garrapa-perozzi-latimeriidae-indagine-per-un-manifesto-del-liminalismo/

[6] https://www.utsanga.it/aprile-astolfi-caggiula-garrapa-perozzi-latimeriidae-indagine-per-un-manifesto-del-liminalismo/

Che fare con il pubblico?

A maggio 2020 la redazione di «Neutopia» ha prodotto un inserto, NEUTOPINA®: 80 mg di letteratura per soluzione orale. All’interno, diversi contenuti tra cui un racconto pensato per essere messo in scena non in un patio ma in un cortile condominiale, di fronte a un pubblico di ragazzini e gatti più o meno randagi. Tale racconto prende le mosse da uno studio sul teatro più sperimentale di García Lorca, sottoponendo – tramite un innesto – l’autore stesso alla stessa operazione di crudeltà che egli agiva nei confronti dei personaggi, del direttore di scena e soprattutto del pubblico.

Scritto a Cuba nel 1930, il dramma El público fa parte del cosiddetto teatro «irrepresentable» cui lo stesso autore faceva riferimento, in un’intervista del 1933, con queste parole: «non è mai stato rappresentato perché non lo si può rappresentare». Si dovrà infatti aspettare cinquant’anni dopo la sua morte per le prime messe in scena, orfane comunque di una versione definitiva dell’opera, tradita da un solo originale manoscritto, edito nel 1967 da Martínez Nadal.

Risposta – ben più compiuta – a una prima sperimentazione surrealista messa in campo da Buñuel con il suo Hamlet, El público di Lorca si presenta come una successione di «sei atti e un assassinio» che anticipa le stesse logiche della Crudeltà auspicata da Antonin Artaud nel Teatro e il suo doppio (1938). Il Direttore confessa: «Ho scavato il tunnel per impossessarmi degli abiti [di scena] e mostrare il profilo di una forza nascosta, non lasciando al pubblico altra scelta che assistere, pieno di spirito e soggiogato dall’azione.» E ancora: «Questo è teatro! Se ho trascorso tre giorni lottando contro le radici e i getti d’acqua, l’ho fatto allo scopo di distruggere il teatro.»

Anamnesi

 

 

 

A voi –
baritoni ben nutriti –
che da Abramo ai nostri giorni,
rintanati in grandi teatri
arieggiate Romei e Giuliette.[1]

Sembra stia ascoltando questi versi del poeta russo, Federico, sorridendo con malizia mentre concepisce un’opera che al teatro al aire libre – teatro all’aria aperta – si sottrae per inaugurare un nuovo teatro, quello bajo la arena, sotto la sabbia, occultato. Rinviene, dando uno scossone al genere, quelle zone d’ombra che lo ammorbavano; ne mette a nudo i meccanismi, ne calpesta i punti di stagnazione, servendosi dei suoi cliché e tic per sradicarne la struttura.

Abbiamo Romeo e Giulietta. Il sepolcro. Il direttore di scena si giustifica di fronte ai cavalli che gli comunicano l’imminente distruzione: non può zittire la maschera e scendere nel sepolcro, scoprire il bluff. Che fare, dunque, con il pubblico?

Con un sapiente sabotaggio, il teatro di Garcia Lorca si distrugge da sé; basta un punto che salta, una chiave di volta: la scena si svolge, la storia, quella che conosciamo tutti, ha il suo compimento. Romeo. Giulietta. La coppia. L’amore. La morte.

Ma qualcosa non torna. Tutto va a rotoli: il pubblico si rompe, non riceve quel che credeva. Giulietta non si trova. Giulietta è un fanciullo. Giulietta c’è. Giulietta è Giulietta, ma Giulietta è un fanciullo. Giulietta è legata sotto una sedia, in mezzo al pubblico. Non c’è nessun pubblico. Giulietta è sul palco e recita. Giulietta è un fanciullo.

UOMO 1
Loro hanno paura del pubblico. Io so la verità, io so che non cercano Giulietta e nascondono un desiderio che mi ferisce e che leggo nei loro occhi.

CAVALLO NERO
Non un desiderio, tutti i desideri. Come te.

UOMO 1
Io non ho che un desiderio.

CAVALLO BIANCO
Come i cavalli, nessuno dimentica la propria maschera.

UOMO 1
Io non ho una maschera.

DIRETTORE
Non ci sono che maschere. Avevo ragione, Gonzalo. Se ci burliamo della maschera, lei ci appenderà a un albero come il ragazzo d’America.

GIULIETTA (piangendo)
Maschera! [2]

Reminiscenza platonica caricata di nuova, abbacinante luminosità, i cavalli portano avanti le istanze del desiderio, degli impulsi di natura erotica. Illuminano le ombre riempiendo tutte le fessure – dello spazio, del tempo, della parola e con il gesto – con il loro membro, in una penetrazione ricorsiva, inappellabile, nelle fibre del teatro che vengono ad aprirsi.

La maschera non è un oggetto. Quando è oggetto, la maschera non è una maschera, è una maschera coagulata, rappresa, si spazza con un rapido svolazzo della mano. La maschera che va tolta è quella che sta ovunque, ipertrofica, che non ricopre tutte le superfici ma costituisce tutte le superfici.

Una cosa è costretta, per apparire, a mimare stati strutturali, a immergersi in stati di forze che le servano da maschere. Fin dall’inizio investe già sotto la maschera, attraverso la maschera, le forme terminali e gli stati superiori specifici che ulteriormente porrà in modo autonomo. [3]

La maschera è liquida. Lorca s’impegna per sostituirla. Conosce bene la sua natura: è maestro dell’acqua, ne districa la dialettica: se l’acqua scorre, è vita, se si ferma è morte.

Nella raccolta Poeta en Nueva York (1929), il componimento dedicato al Rey de Harlem è tutto un agitarsi di suoni e di forme in accordo a ciò che viene definito «el insomnio de los lavabos»: forte e inarrestabile come l’acqua che scroscia «insonne», senza posa, il vitalismo che il poeta associa alla comunità afroamericana la designa come quella parte di umanità che può rovesciare il sistema disumanizzato e disumanizzante cui è preda la metropoli statunitense. Se l’acqua invece stagna, se smette di scorrere, diventa uno specchio de lo podrido, della morte:

 E resto con le mani vuote nel rumore della foce. [4]

Da qui la necessità di aprire tagli, far sgorgare: l’acqua, come il sangue. Così, nel famoso Romancero Gitano (1928), gli zingari sono trapassati da questa scia che è la loro pena negra, in un rincorrersi di vita e di morte, spargendo le strade di sangue come di lacrime. Il sangue è per Lorca il simbolo più significativo. In esso la dialettica tra la vita e la morte si ingarbuglia e riassume i suoi due estremi. Il sangue versato è, al tempo stesso, liquido sacrificale – devastazione, morte – e liquido incendiario – catarsi, amore.

Un proverbio arabo dice: il sangue è versato, il pericolo è passato. Il pericolo sussiste invece quando il sangue non perviene. Federico gestisce i simboli come punti salienti che riguardano ogni uomo, cui l’uomo risponde come a un patto antichissimo; affida al liquido rosso l’azione-rivoluzione. Ad esempio, in Poeta en Nueva York, incita la sua corsa furiosa in mezzo ai grattacieli e ai tentacoli del capitalismo, fino a farlo sfociare verso Wall Street con una possente imprecazione; lo lascia scorrere, lascia che aderisca ad ogni cosa per penetrarla e cambiarla di segno.

La maschera è liquida. La maschera è ovunque. La maschera è morale, è borghese; è un’ombra fasulla, ci sta dietro e ci anticipa. Lorca s’impegna per farla saltare.

DIRETTORE
In mezzo alla strada la maschera ci abbottona ed evita il rossore imprudente che talvolta affiora sulle guance. In camera, quando ci mettiamo le dita nel naso o ci esploriamo con delicatezza il sedere, il gesso della maschera opprime la nostra carne tanto che possiamo a malapena stenderci sul letto.

UOMO 1.
La mia lotta è stata contro la maschera, per riuscire a vederti nudo.

Bucare la maschera per vedere il corpo nudo. Soltanto la sete consente di praticare questo “buco”. La sete è il desiderio, l’Eros. L’autore è dunque una porta che si apre: el desnudo que amasa la sangre de todos.[5] Al suo petto, al suo torace aperto, riconduce tutto. È un flusso: il sangue va e viene, sale, scende. Opera. Il sangue circola. È questo il meccanismo da innescare, la rivoluzione.

Calma la sete di sangue di coloro che guardano il nudo.
Ciò che importa è questo: buco. Imboccatura
.[6]

Il meccanismo si innesca nella carne. La carne si può operare. Non l’aria, non il teatro, non la struttura. Sulla carne si agisce, e la carne si porta via tutto. Su. Giù. Il sesso dei cavalli cerca la «porta» di Giulietta. Per salvarla dal suo destino. La liberazione è qualcosa che passa attraverso il sesso. In questo modo, spoglia l’opera dall’ambiguità elisabettiana.

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Alex Rigola, El público (2015), Teatro Alhambra di Granada

Soglia

Federico colloca al centro del palco un paravento. I personaggi lo attraversano. Il codice impazzisce, si rivela. Usando la lente del surrealismo, possiamo dire: l’inconscio emerge – e non è uno ed è uno. Si può leggere, il codice è intermittente. Le interferenze sono il codice. Si possono leggere. Per Deleuze e Guattari: passaggi, soglie, gradienti.  Le intensità vanno costrette nel canale, affinché avvenga la trasformazione.

I TRE CAVALLI
Spogliati, Giulietta  […] vogliamo resuscitare!

L’amore può innescare il fremito che muove le fondamenta. L’amore-desiderio è il bisturi per l’operazione. Resuscitare è sacrificio. Sangue. Crocifissione. Il lessico, così come il sistema di rimandi, è biblico – evangelico – e blasfemo ad un tempo. Federico porta un nuovo messaggio, uno scarto maggiore, più radicale. Il suo amore non è quel sentimento cattolico con cui la Chiesa non fa che perpetuare disuguaglianza e repressione, non è quella «lama d’abbagli» con cui anche Artaud allude al Papa – Lorca neppure lo risparmia, chiamandolo «vecchio dalle mani traslucide» che, stordito, ripete «amore amore amore» – nelle sue invettive: è un’altra lama, più invasiva, più umana e spietata ed esatta. Riporta in superficie «il problema rimosso», «il segreto occultato»[7]. È un altro amore, questa lama. Federico la fa agire sulla scena: è membro maschile – la lama penetra – è desiderio – il suo, omoerotico, fino ad allora nascosto – ed è l’amore che rovescia il teatro, genere della finzione sublimata, buttandolo sulle ginocchia per mettergli in bocca la verità.

Bucare la maschera per bucare tutte le cose. Liberare il flusso. Se l’acqua stagna e muore, il sangue della morte agisce: dalla morte si muove e si rimette in circolo.

L’autore tocca un punto dolente e tutto si agita. Con un segno minimo, che scardina quel paravento posato in mezzo alla scena. Tutti passano attraverso. Tutti si spogliano, manifestano gli strati. Un trucco. «¿Quién pasa a través de quién?» Gli uomini – il direttore, Gonzalo, Enrique – sono una ballerina, un perverso dotato di frusta, una donna in pigiama che toglie e mette un paio di baffi.

Ma Federico vuole di più. Federico vuole arrivare al punto, toccare il nudo centro, il buco, la sottrazione ultima: Federico vuole l’ultimo. L’unico che può scomparire e portarsi dietro tutto è l’uomo ch’era già nudo, dentro e fuori. Lui che diceva: «Io non ho maschera» – era già tutti e nessuno. Senza soglie. Viene sopraffatto e si offre. Non potrebbe altrimenti. Ma non soffre. Gode?

Il desnudo abbandona per sempre la maschera, dall’inizio dell’opera. La scena simula l’interno di un teatro. In mezzo alla scena, sdraiato su un letto, accerchiato da infermieri, c’è l’uomo nudo. Un teatro, nel teatro, sta crollando. Il teatro si apre, si chiude, si apre. Bisturi.

NUDO
Quando finite?

(Sta per iniziare l’operazione.)

INFERMIERE (entrando rapidamente)
Appena cessa il tumulto.

(Su, giù, su, giù.)

NUDO
Cosa vogliono?

INFERMIERE
La morte del direttore di scena.

Lo zoom fa l’ultimo scatto in avanti.
L’autore è nel teatro – l’autore è l’uomo nudo.

INFERMIERE
Verrò con il bisturi per darti la ferita al costato.

(Il punto è quasi chiuso; quasi aperto.)

NUDO
Lo voglio.

(S’offre.)

Autore è chi opera il desiderio.
L’uomo nudo è sul tavolo, accerchiato da infermieri.
Dice:

NUDO
Ho sete.

 

Esito

 

 

 

 

Soltanto un mago dei fraintendimenti quale Indro Montanelli poteva arrivare a parlare della produzione teatrale del poeta granadino come di una sua «ambizione sbagliata»[8], inscrivendo l’autore in quella tradizione borghese cui egli apparteneva soltanto geneticamente e negando la portata critica e politica della sua opera, convalidando di fatto quella miope ricezione della produzione lorchiana che si ebbe in Italia.

Quando, nel 1951, scrive sul Corriere della Sera alludendo al «tradizionalismo implicito» dei suoi drammi, Montanelli confonde con il folklore l’ambientazione popolare di Bodas de Sangre, de La casa de Bernarda Alba, di Yerma (portata in scena in Italia da Marco Ferreri, NdR) senza coglierne il risvolto critico, la denuncia sociale specchiata nelle vicende delle protagoniste femminili. Ignora, inoltre, quello specifico enfoque che il Gruppo del ‘27 aveva nei confronti della tradizione. Muovendosi tra i due poli – tradizione e avanguardia – il gruppo surrealista formatosi nella Residencia de Estudiantes di Madrid agiva sulla prima senza scrupoli: prova ne sono le numerose sperimentazioni ad opera di Lorca, Buñuel e Dalí fin dal 1924, anno del rifacimento del Don Juan di Zorilla (1844), in cui venivano inseriti in un copione dell’Ottocento elementi anacronistici, come una moderna macchina da scrivere. Montanelli ignora, infine, Il pubblico.

Per mettere in atto il suo smascheramento, Lorca sottrae il Romeo e la Giulietta di matrice shakespeariana cambiando di segno la loro storia d’amore: sostituendo Giulietta con un fanciullo, utilizza la scena come una soglia, una porta tramite la quale far passare, aprendola, un desiderio omoerotico fino ad allora tenuto stretto nelle maglie della repressione.

Complice la censura del regime franchista, la storia delle rappresentazioni di El público prenderà avvio soltanto nel 1986, con la produzione di Lluís Pasqual i Sánchez messa in scena al Piccolo Teatro di Milano e nel 1987 presso il Teatro María Guerrero di Madrid, fino ad arrivare al 2015, con l’adattamento del Teatro de La Abadía di Madrid con la regia di Alex Rigola, di cui proponiamo i video e le immagini.

Tutto si confonde, ed è qui che si produce l’apertura.[9]

L’opera si articola – e disarticola – come ciò che l’analisi deleuziana definirebbe un viaggio in intensità fino a farsi ordigno, innescando, come un’operazione, la liberazione del desiderio: flusso che supera gli sbarramenti e i codici. Soltanto così l’uomo finalmente «si esibisce come uomo libero», come uomo del desiderio.

La tela sprofonda in se stessa, è trafitta da un buco, un lago, una fiamma, un’esplosione.[10]

Che fare quindi con il pubblico?

VOCE (Fuoricampo)
Signore.

VOCE (Fuoricampo)
Cosa?

VOCE (Fuoricampo)
Il pubblico.

VOCE (Fuoricampo)
Che entri.

Immagini e video tratte da El público (2015), regia di Alex Rigola
Teatro La Abadía di Madrid

ELENA CAPPAI BONANNI (Cuorgné, 1996) è redattrice della rubrica di poesia Poiein di «Neutopia». Laureata in Lingue e Letterature Moderne presso l’Università di Torino con una tesi sulla poesia e sul teatro surrealista in ambito ispanico, scrive poesie in italiano e spagnolo tendenti a un surrealismo a tratti insurrezionale, che si spinge a definire “insurrealismo”. Nel 2018 Chance Edizioni ha dato alle stampe la sua opera sperimentale Askatasuna, presentata lo stesso anno al Salone Internazionale del Libro di Torino. Dal 2019 fa parte del progetto di spoken word Spellbinder.

 


[1] V. Majakovskij, All’armata delle arti, 1921
[2] F. G. Lorca, El público, Alianza, 2000, cit., p. 100
[3] G. Deleuze e F. Guattari, L’anti-Edipo, Einaudi, 1975
[4] F. G. Lorca, Navidad en el Hudson, da Poeta en Nueva York, 1929
[5] Las muchedumbres en el alfiler./ El desnudo que amasa la sangre de todos, / y mi amor que no es un caballo ni una  quemadura./ Criatura de pecho devorado. F. G. Lorca, Luna y panorama de los insectos, ibid.
[6] F. G. Lorca, Navidad en el Hudson, Op. cit.
[7] A. Artaud, Al Papa, in Lettere ai prepotenti, Stampa Alternativa, 1999
[8]http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Montanelli_Lorca_intervista_mancata.html
[9] G. Deleuze e F. Guattari, Op. cit.
[10] Ibidem