Osso Sacro | Urla dal confine tra mito e nuovi canti

Gli Osso Sacro sono un trio sannita che unisce i fratelli Carlo e Corrado Ciervo, musicisti e polistrumentisti di Benevento, con il poeta e performer sannita Vittorio Zollo. Il progetto Osso Sacro unisce la ricerca delle radici tradizionali con la sperimentazione sonora. Un modo nuovo di fondere la tradizione musicale con l’elettronica, la ricerca di testi tradizionali, improvvisazione teatrale e performance.

Il loro lavoro è stato premiato in varie occasioni, tra cui la IX edizione del Premio Alberto Dubito nel 2021. Urla dal confine è il loro primo album, uscito per la poetry label bolognese ZPL, e come suggerisce il titolo, si concentra sulla questione delle frontiere e della migrazione, con una forte attenzione alle tematiche sociali e politiche. Le poesie presenti nell’album affrontano in modo critico la questione delle barriere tra i popoli, la sofferenza e la fatica degli immigrati, la violenza della guerra e l’alienazione sociale. La musica spazia dal rock all’elettronica, con sonorità che si ispirano alla tradizione popolare mediterranea.

Tra le canzoni più rappresentative dell’album, la title track Urla dal confine, Demetra col tamburo e Pruserpina, tutti brani dove l’italiano si mescola alla lingua natìa di Zollo, quella campana, nella ricerca della costruzione di un nuovo mito, distante da quello religioso e più vicino al rito pagano, che unisce riferimenti classici a figure del cristianesimo. In particolare, il testo di Pruserpina, che prende a prestito il titolo da una poesia di Sylvia Plath, esempio di bellezza formale e profondità di sguardo, parla dell’emigrazione, della perdita delle radici e della ricerca di una nuova identità. Il testo affronta il tema della migrazione dal punto di vista della Proserpina, la dea romana del mondo sotterraneo, che rappresenta la figura del migrante che cerca di ricostruire la propria vita in un nuovo paese.

Frame dal videoclip di Pruserpina

La figura di Proserpina viene utilizzata come metafora della condizione del migrante, che cerca di adattarsi al nuovo ambiente, ma che allo stesso tempo cerca di mantenere la propria identità e le proprie tradizioni. La canzone è caratterizzata da un sound sperimentale e dalle sonorità del pianoforte e del violino, che contribuiscono a creare un’atmosfera malinconica e struggente. Quel che si evince dal brano è una condizione inedita della figura del migrante, che non vaga sulla Terra per punizione divina ma per grazia, essenza della sua stessa umanità.

PRUSERPINA

Rubare il fuoco per poco
Donarlo a chi ora minaccia
La stessa roccia alla quale incatenata fosti
E fatti non foste a viver da titani
Nella scintilla che mi vibra tra le mani e nelle nubi
Vedo nuovi satelliti squarciano il cielo di Scizia

Annego
La solitudine del raziocinio di Ipazia
E so che non è semplice
Crollare restando in piedi
Ma un vento lontano riporta quell’eco
Di una relazione tra il fulmine e Teti
Tutti tra chi dimentica il dramma
Ade decide di dati di doti di dita di Dite di vite di steli recisi

Easy, arde ‘a gramegna nei campi elisi da mis’
E mancano i surris’ int’ ‘i pais’
Stu fuoc’ m’eccis’, è cris’
Brucia ‘ngoppa a ‘sta pelle ‘na fiamma ribelle
Prometeo contadino, Sant’Antonio anacoreta
È sul quann’ chiude l’uocchi, ca uno pe’ vero se sceta

E sanguina ancora l’occhio dell’aquila
E appare come la vergine a Fatima
Il dio che commosso ci donò il fuoco
Che ci generò dall’Olimpo malato

Sulla cima di Atlante passando
Summonte s’arrampica a gente
Pe’ Mamma Schiavona
Nun è contemplato ‘u respiro
Affannato se saglie pe’ grazia
E no’ ‘p punizione
Cu fegat’ rutt’ pe’ via d’u supplizio
‘A criatura  resiste a ci s’a magna viva
‘Na foglia d’aliva int’a l’acqua sorgiva
Se secca, è abusiva
Ma è calore estiv’
‘Stu fuoco ca coce
E nun truammo pace
Accussì vann’ ‘i cos’
E nun tene riposo
Essa porta ‘stu peso
Dalla notte dei tempi
Pe’ l’eternità

E sanguina ancora l’occhio dell’aquila
E appare come la vergine a Fatima
Il dio che commosso ci donò il fuoco
Che ci generò dall’Olimpo malato

Pruserpina in catene ai confini del mondo
Ripensa a Prometeo ed Atlante assieme
Se perde ‘ntu mit’ ricorda Afrodit’

Ancora un grido muto che da lei proviene
Accetta la nemesi oppure rigetta
Il seme del demonio che origina l’ira
È ancora criatura innocente e perfetta
Sfiorandosi il ventre se spezza ‘u respir’
No no ‘n ce sta modo è l’eterno riposo
Mo o accetto ‘a mimosa o faccio com’ a Erode

Accussì vann’ ‘i cos’
E nun tiene riposo
Essa porta ‘stu peso
Dalla notte dei tempi
Per l’eternità

Osso Sacro, videoclip di Pruserpina
Testo e voce di Vittorio Zollo
Musica e arrangiamenti di Corrado Ciervo e Carlo Ciervo
Video di Michele Salvezza

GRAFICA DI TOI GIORDANI

Nuit Bleue | Sfogliando dal libro del punk

Nuit Bleue è un progetto hardcore/postpunk con base a Toulouse, in Francia, che vede un assetto scarno ma estremamente compatto formato da basso, batteria e sassofono sostenere due voci, Damien e Cicuta, il primo caratterizzato da uno scream viscerale, profondamente scavato nella ricerca più espressionista e coraggiosa delle esplorazioni vocali, e il secondo da un approccio che oscilla tra rap ed uno spoken word che può ricordare un po’ le imprese punk emiliane e un po’ il primo Teatro degli Orrori, concedendosi anche al canto o al recitativo laddove le atmosfere dei brani glielo concedono. Quello che appare infatti chiarissimo, fin dal primo ascolto del loro omonimo demotape live, è proprio l’ampiezza di varietà d’ambienti che la formazione decide di sondare con un’attitudine squisitamente narrativa e spontanea, costruendo la propria musicalità sulla solida base della direzione del proprio discorso e del sentire sottostante, svelandolo fino alla nuda carne. Così quindi l’orecchio si ritrova all’interno di racconti in cui, nel suo dipanarsi, la forma-canzone, già esplorata in massima libertà dalla formazione, si permette di spostarsi da violente staffilate di chiara scuola hardcore ad aperture sonore che possono ricordare i The Comet is Coming tanto quanto gli Zu, i Marnero quanto gli Sleep, spaziando tra jazz, stoner, postrock e rap, mentre al microfono suggestioni bilingue si alternano in massima libertà, concedendo ad ogni brano la sua forma più sincera.

Ed è così che la penna di Damien, estremamente teatrale e cruda, compare tanto in esplosioni brevi quanto in tirati monologhi dove forse più che negli altri brani l’intero muro di suono sembra agire, espressionista, come cassa di risonanza della parola, mentre quella di Cicuta può prendersi più spazio, scegliendo di accostare ad una semplicità di scrittura che suona come necessaria, nello sporgersi di ciò che dice, vezzi di forma e sprazzi d’immagini che arrotondano il discorso per farlo sposare con la musica in un’ottica più ampia dove il ruolo di trascinatore e trascinato si fondono. Nella formazione è infatti davvero centrale la danza tra i desideri espressivi dei due poli, la parola agìta ed il suono degli strumenti, che nella musica dei Nuit Bleue più che essere corpo unico sembrano costantemente lasciarsi spazio e venirsi addosso in un pogo di necessità che si sostengono a vicenda fino alla prossima, vicinissima, ondata. Questa chimica versatile si svela in un’altra forma ancora quando, in Feu Bleu, il microfono viene passato al rapper Kaio Dayo del collettivo Zook’ook, sempre con base a Tolosa, dimostrando ancora una volta con quanta attenzione i mondi sonori della band mutino forma in maniera sincera e radicale riconoscendo le differenti energie portate dal polo parlante. Sotto questo punto di vista il ruolo della batteria spesso stupisce nella tremenda aderenza con cui risolve il dialogo con la voce, imbastendo una sottile trama di accenti e dinamiche legatissima al verso, con un’aderenza simile a quella di Michele Koukoussis nel Bhutan Clan.

Già attivo dal 2019 sotto forma di duo e con una notevole esperienza di palco maturata principalmente nella scena punk d’oltralpe, il gruppo già mostra nella sua demo una solidità ragguardevole e una fantasia molto spiccata, soprattutto in una ricerca volta alla performance del verso in dialogo con un immaginario, quello punk, che concede veramente tanta libertà quanta se ne desidera prendere. Nella crudezza dei loro arrangiamenti si nasconde moltissimo potenziale, che talvolta brilla. Nella ricerca vocale una volontà unitaria che punta a rispettare quello che dal foglio emerge con la fedeltà più dolorosa e bambina, senza compromessi. Questo potenziale ha già scaturito fiammate esplosive, nulla ci rimane che augurarci che tutto questo prenda sempre più fuoco.

(Isidoro Concas)

Terroristes (Nemmeno Le Lacrime)

Aaaahhhh!

Quanto è bello l’amore!
Quella mano che ti scava nello stomaco e ti strizza l’interiora com’uno straccio!
Neanche le montagne russe reggono il confronto!
Ed io!
Non sono mai stato così felice di morire un’altra volta tra le tua braccia!
Oh sì!
Lieto m’è il vomitar su questo foglio! Sto ‘na bomba!
Ma dove cazzo sei finita?

Oramai ricordo a malapena
La tua faccia si confonde
Ve ne son quarantamila tutte uguali
La tua voce s’è già persa
Come un jingle che ho sentito da bambino
Un motivetto sciocco che non riesci più a capire se hai inventato
Ogni momento ogni sorriso ogni parola sussurrata con dolcezza
Pensavamo l’uno senza l’altro di non poterci stare
Invece hai visto che bel sole, mia cara,
Hai visto che bel sole?


A chi importa di noi?
Forse ad un dio stanco e ormai attempato, le tempie calve, che ci guarda dai cieli?
Ho sentito dire ch’egli ama tutti, nessuno escluso
Ma a parer mio è già lungo tempo che non ci degna d’uno sguardo


A chi importa allora?
Allo Stato? Quale dei tanti?
Il signor Stato che per noi ha pensieri, prego, si faccia avanti
No, invero per esso siam vari / tra i molti
Com’a seguito d’una battaglia i nomi che si susseguono dei soldati morti
Chi si cura di noi?
I nostri parenti?
Tra chi è morto, tra chi è matto, chi lontano e chi nemmeno sa che esistiamo?


Chi si cura di noi?
I nostri fratelli? Troppo impegnati a guardarsi la punta delle scarpe?


Chi vuoi ch’abbia la mole di prendersi una tale responsabilità?
Puoi chiederlo forse alla città, per la quale non siamo mai stati più anonimi?


Chiedilo allora a una montagna
Ch’indifferente svetta alle nostre gioie e alle nostre pene
Inamovibile e codarda, per noi non alzerebbe mai un dito
Volgiti al vento se ti va
Ti lascero’ fare
E t’accorgerai che per risposta otterrai soltanto il suono della tua voce


A chi importa di noi?
Ad una qualche azienda? Un sito internet?
Puo’ darsi, ma giusto per venderci cianfrusaglie, al pari d’un truffatore

Per chi contiamo?
Per i nostri amici?
Per i quali a dir molto un mese siam pettegolezzo e un minuto dopo una seccatura?

E chi allora?
I giornalisti? No, che idea sciocca
E’ ovvio che noi non siam persone da prima pagina o che fan notizia

Quindi a chi chiediamo?
Alle stelle? Al sole? Alla Luna?
A venere? Marte? Mercurio? Giove?
Ai pianeti più lontani? O forse all’universo stesso?
Si, come se gliene fregasse qualcosa

Mi credi forse così sbadato?
Certo che ho chiesto alla gioia, e sai che mi ha risposto?
Che sono un avido bastardo

All’amore dunque?
Ohhh, ci ho sperato
Ma sai quanto fosse volubile quel maledetto cane

Dimmi una cosa
A chi importa di noi
Se non è importato a noi?
Chi si prenderà cura di noi
Se non ci siamo presi cura di noi?

Ed in fondo il peggio non è certo l’odio
Ma sapere che il nulla si fa strada come un verme
Sul cadavere della nostra felicità

Non sai che gioia è fingere
Che la prossima volta sarà diverso

Mia cara, hai visto che bello?
Non ci restano manco le lacrime
Oh si!
Non ci restano manco le lacrime

Voce e testo di Cicuta
VOCE e batteria DAmien
Basso Johan
SAX jb

Get up, stand up. Una storia d’amore | Andrea Frau

Il fatto che lui uscisse con una ragazza italiana non era visto di buon occhio dalla famiglia, genitori in testa. Jin si vedeva con l’italiana magra, come la chiamavano i suoi, dopo lavoro. Rimanevano a chiacchierare in macchina anche fino all’alba. Quando bevevano un po’ più del solito lei provava anche ad abbozzare qualche frase in mandarino, per lei era facile parlare d’amore, perfino in quella lingua straniera, lui invece faceva fatica, non aveva ancora trovato una lingua adatta ai suoi sentimenti.

Trame sfuggenti | Il Trip in Blue dei Catash

Preciso nel suo descriversi già dal nome, è Trip in Blue il primo brano pubblicato in veste ufficiale dai Catash, formazione già finalista allo scorso Premio Dubito e attiva da diversi anni nella poesia performativa. Al microfono e alla penna Francesca Mazzoni, che decide per l’occasione di dedicarsi solo alla voce lasciando la stratificata e brillante architettura del suono a Carlo Corso e Corrado Ciervo, il primo alla batteria e il secondo al violino, che costruiscono per il brano un’atmosfera aleggiante, diluita, che accoglie sotto la sua superficie cristallina tanto materiale sonoro che riemerge come i dettagli nascosti nei film man mano che si procede al riascolto.

Nel caso specifico, però, un ulteriore livello di stratificazione di segnali arriva dall’opera video di Alessio del Donno che, tramite la cernita e la manipolazione di materiale video d’archivio risalente al Giappone della metà del ‘900, consegna nel visuale una trama tanto intensa quanto quella dei suoni. A nuotare a bracciate lente e godute in mezzo a questo sprizzare di stimoli è la voce della Mazzoni che, nel seguire l’andamento sognante del lavoro a partire dal testo fino ad arrivare al multimediale, non radica nella consegna del significato il suo lavoro vocale che, anzi, si concede di vagare libero tra i territori che il gioco musicale concede, spostandosi dal cantato al recitativo su più piani che acquisiscono il senso nel leggerli appunto come elemento sonoro che dichiara un mood, e non come interpretazione teatrale di un testo, sciogliendo la metrica dagli appoggi che le parole imporrebbero per cercare quel che è più comodamente aderente alla tessitura sonora che la circonda da ogni parte. “Si sveglia una saracinesca e solleva l’occhio pigro della merce” è un verso che viene consegnato, non a caso proprio verso la metà del brano, ormai con una attitudine vocale così ibrida da non poter più esser detta nè canto nè recitato, perfettamente in mezzo.

Altrettanto fluide e ricostruite sono le proposte sonore di Corso e Ciervo che, partecipando entrambi ai momenti di registrazione e missaggio del brano, nella selva delle sovraincisioni costruiscono un gioco alternato di strumenti raccolti nel loro corpo più concreto e di segnali così effettati da essere ormai puro suono senza emettitore da definire, materia sonora che scivola negli anfratti lasciati dai piatti di una vaporosa batteria e le linee più riconoscibili di violino. La struttura del pezzo è una pasta sonora non riconducibile nè ad un loop, nè a una improvvisazione, nè decisamente a una qualsiasi più rigida forma-canzone: svincolandosi per ultima necessità anche dalla definizione di un genere musicale a cui fare riferimento, la produzione del duo cerca di seguire la sensazione di scollegamento da ogni riferimento prospettico che il lavoro di Francesca Mazzoni richiede, arrivando ad un corpo unico, specifico e senza definizioni, come il Neutro per Roland Barthes, che acquisisce il suo specifico tono eludendo i paradigmi.

Il debutto della formazione è un terreno molto libero, a perdita d’occhio in ogni direzione, immerso tra sensazioni di corpi e flash di una città al suo risveglio, una piccola perla psichedelica che, smarcandosi da ogni forma, lascia immaginare evoluzioni ancora più libere, varie e mutevoli, nel continuare del lavoro della formazione – cosa che ci si augura di tutto cuore, vedendone i presupposti.

Isidoro Concas

TRIP IN BLUE

Leggerissimi, leggerissimi, leggerissimi

Appiattiti sotto la nebbia resteranno
Incastrati nel moto perpetuo
Gli ultimi lembi del vestito di scena

Ci scioglierà un vento elettrico
Ci scioglierà un vento elettrico

Minuscoli origami di corpi
Sfrecceranno nel cielo
Ci esaleremo nell’aria, fra le mani
Con il gelo spezzato dal fumo di un’auto
Fra di loro, i margini delle buche nella strada
Slabbrati, a smorfie con degli scatti col flash
Che bramano
Come vedove in pelliccia
Il calco di una città
Poeticamente a pezzi

Si sveglia una saracinesca
E solleva l’occhio pigro della merce
Noi fluttuiamo insensibili ai dolori tradizionali
Ci agganciamo come rettili
Solo al blu
Solo al blu

M’assomiglierà nessun blu
M’assomiglierà nessun blu
Mai visto su nessuna brochure o etichetta
O lattina o vetrina
O bomboniera di nozze
Mai visto, mai visto
Ci diremo, intrecciando le dita sotto il mento

Vorremmo ricordarci così
All’ombra di chiome al propano
Scambiarci sguardi assenti
Appollaiati sui bordi dei segnali stradali
Che ci indicano cosa comporta la scelta

Per scelta, per bisogno
Vorremmo perderci, vorremmo perderci

Ci siamo persi già

Voce di Francesca mazzoni
Musica di carlo corso e corrado ciervo

Esplorando il termine | Un’intervista a Carlo Corallo

Carlo Corallo, fine penna ragusana classe ’95, fin dall’inizio del suo percorso tra rap, storytelling e poesia ha cercato di evolvere il proprio linguaggio espressivo perché il suo istinto lirico si sposasse al meglio con la sua produzione, carica di immagini con un intento narrativo dove anche gli aspetti più tecnici del rap vengono utilizzati al fine di raccontare una storia. Il suo nuovo album, Quando le canzoni finiscono, è un ulteriore gradino scalato in questo suo cercare ed è un concept album dedicato a quel momento in cui qualcosa finisce, e a ciò che da lì prosegue. Per esplorare assieme questa sua nuova opera, l’abbiamo raggiunto per un’intervista.

Buondì Carlo, benvenuto su Neutopia. Il tuo nuovo album, Quando le canzoni finiscono, è una nuova tappa del tuo percorso tra scrittura e musica e decide di incentrarsi su un tema molto specifico: il termine di un qualcosa, il suo finire e quel che resta. In che modo hai incontrato la necessità di esplorare questo sentire, e come hai deciso di svilupparlo?

Ho deciso di sviluppare questo tema quando mi sono sentito tradito dalla mia ispirazione e messo all’angolo dalle contingenze del periodo Covid. Io scrivo assorbendo i fatti della vita quotidiana e limitarmi a stare a casa mi ha bloccato a lungo la creatività. Appena ho deciso che il tema sarebbe stato quello della fine, ho letto tanti libri e guardato tanti film inerenti, in modo da trarre più ispirazione possibile sull’argomento. È un tema che mi affascina perchè è uniformante, in quanto ci riguarda tutti, ma personale allo stesso tempo. Sono partito da “Etimologia” per dare una sorta di anticamera al progetto, volevo parlasse di “inizio”. Le dieci canzoni che la seguono raccontano la fine in diverse sfaccettature e al termine dell’ultima di esse si ipotizza un nuovo inizio. È la rappresentazione dell’andamento ciclico della vita, scandito da momenti di luce e buio che si alternano. Detto questo, non tutti gli epiloghi descritti hanno una connotazione negativa, spesso donano al protagonista una sensazione liberatoria.

Passando velocemente da Thanatos a Eros, una cosa salta chiara alle orecchie, nell’ascoltare le tue nuove tracce: se l’amore è sempre stato nelle tue parole, raccontato da moltissime prospettive, è solo in questo album che compare più potentemente l’elemento carnale, in più pezzi ed in maniera più sanguigna. Pensi che questa cosa abbia attinenza col tema del finire, o è qualcosa che è comparso per altri motivi?

Sanguigno è un termine adatto alla descrizione del corpo presente in questo album. Il corpo accomuna l’origine e la fine: è divino quando crea e mortale quando si deteriora. Inoltre, per me è un fattore importantissimo che si sta perdendo tra i meandri di una socialità sempre piú informatizzata. Inoltre, i corpi delineati nel disco, sono corpi che adempiono la loro funzione nel mondo in quanto tali e, dunque, non ricevono mai un giudizio estetico, ma si limitano a percepire e dare sensazioni, a compiere azioni che ne modificano i destini. Descrivo il fisico talvolta nella sua componente mistica, come in alcuni brani quali “Etimologia” e “Quando le canzoni finiscono”, talvolta nella sua componente razionale in altri brani quali “Il capofamiglia” e “Natura umana”.

Il tuo stile è molto immaginifico, e spesso nei tuoi testi lo spostamento tra un’immagine e l’altra si appoggia sul perno del doppio significato dello stesso vocabolo, spesso con effetto a sorpresa. Anche “fine” è un termine (e anche “termine”!) che è ambivalente: è qualcosa che hai esplorato, nel lavorare il tema? 

Fin dai miei esordi mi servo di termini-passepartout in grado di significare qualcosa di lontanissimo da ciò che normalmente identificano. Mi diverto tanto a far rimare i concetti e a rendere il senso malleabile, più che a giocare col semplice suono delle parole. Tuttavia, non è l’unico stratagemma tecnico che uso all’interno dei miei brani; mi piace impreziosire i testi con varie figure retoriche, cercando di non eccedere rendendo il tutto troppo lezioso. Già in “Ogni uomo nasce libro” (2017) dicevo “il fine ultimo l’hai capito alla fine dell’ultimo capitolo…”. Le parole “fine” e “termine” si prestano ottimamente a questo trick ed è una fortuna perchè mi permettono di arricchire di sfumature un’opera già prismatica.

Com’è stato condotto il lavoro sulle strumentali? Se appare chiaro, infatti, che nelle tracce in featuring i suoni scelti (soprattutto nell’utilizzare le batterie) si avvicinino al mondo delle persone con cui condividi il brano, così come del resto fai anche tu, accomodando la penna ed il flow al loro stile, è nei brani in cui compari solo che i riferimenti si allargano e mutano col variare del tuo scrivere. Ci sono state scelte più direttive di altre, con più priorità, nello scegliere i suoni? 

Ho cercato di utilizzare strumentali che mettessero a proprio agio gli ospiti dell’album, senza, però, snaturare il mio stile. Credo di sapermi adattare al mood sonoro degli altri, anche perchè ascolto generi di musica molto vari. Inoltre, ho scelto le basi a seconda della loro capacità di comunicare quanto espresso dalle parole. In questo secondo capitolo della mia discografia, mi avventuro maggiormente in soluzioni cantate e flow fuori dalla mia comfort zone: “Izakaya Jazz Interlude” ne è un esempio. Un tratto che, invece, ritorna dopo l’esperienza di Can’tAutorato, è la presenza di suoni ambientali, come il rumore dello sparo che fa scappare gli uccelli in “Qlcf”, il suono della pioggia in “Natura Umana” o il vocio dei bambini ne “Il capofamiglia”.

La tua scrittura abita quel terreno tra prosa e rap, tra liricismo e testo a cui ritornare, in cui sembrano confluire influenze più varie di quelle nel background di un rapper standard. Quali sono stati i passaggi e le suggestioni che ti hanno portato a Corallo per come è ora? 

Posso dividere le suggestioni che mi hanno accompagnato durante la creazione dell’album in quelle derivate  dall’arte pittorica, come nel caso di Ligabue, quelle musicali, come Kendrick Lamar, J. Cole, i Kings of Convenience, Sufjan Stevens, e quelle letterarie come Philip Roth, Kundera, Calvino, John Fante, Sandor Marai, Rigoni Stern e Andre Aciman.

ETIMOLOGIA

Parole dette a bassa voce
Soffiate oltre il collier d’oro
Da ore in bocca come un colluttorio dolce
Ed uno sguardo docile
Ma i tuoi capelli sono legni che mi basta torcere
E siamo torce, forse
È in volte come questa
Che penso che la mia etnia sia influenzata dall’Etna
Sudore se chiami per nome con quella cadenza lenta
E stai attenta alla scansione di ogni lettera
Tu rendi la passione un’esperienza
In cui ogni mossa è concеssa
Pure comandarsi a bacchetta
Ma per darе vita a un’emozione intensa
Che poi è la differenza tra un dittatore
Ed un direttore d’orchestra
La testa sta morendo al rogo
Io moderno Erodoto
Padre della storia nel senso di rapporto erotico
In un vorticoso incipit di voglia
Che ricorda i libri di scuola
Con gli indici prima di ogni parola
Ma ora, accolti questi baci apolidi
Il tatto è l’ultimo tratto prima di varie trasmigrazioni
Il contatto si fa simbiosi, fa dubitare del fatto
Che noi siamo due corpi soli e che siamo due corpi solidi
A rispondersi: “Stasera ho programmi”
Che ci fa sentire sempre più macchine e meno umani
Così vorrei bussassi, coi palmi sulla mia schiena

E che la testiera fosse una tastiera di vene pulsanti

Se io sono Bologna, tu sei San Petronio
Se io Xavier Dolan, tu Mommy
Ma con mille alibi tra le mani
Mentre un’aria estiva stimola l’umami
Così che i pensieri contrari di entrambi domani saranno unanimi
E distanti da credenti e padri
Ma anche noi con gli organi usati
Come strumenti per momenti sacri
Sai, il tuo mi piace, quasi
Perdo la pace se mi allontani
Forse è per questo che si piange appena nati
Il pericolo è di odiarsi tra anni
Durante vite lunghe in cui crescere insieme come le unghie
E magari farò il perito meglio di altri
Che un marito è già istruito
Al confronto continuo tra due caratteri
Da estranei conta un altro schema
Andare a cena è un rito per non star soli la sera
Concentrando la libido alla fine della pancia
Finché un liquido ci separa come alla fine della Pangea

O in una camera gelida o troppo calda

Con un parquet iridato e ogni parete bianca
Su cui strapparmi la giacca tipo avvocato radiato dall’albo
E starti accanto fin quando siamo irradiati dall’alba
Ormai quasi ogni tua usanza l’ho fatta mia
Ogni ansia o periodo di calma, ogni principio etico o follia
Per questo, quando dici: “Vieni da me”, sorrido
Perché per te è un invito, per me si tratta di etimologia

Concept & Film: Andrew Superview, Valeria Michetti
Starring: Ginevra Ambrosino, Nunzio Di Matteo
Testo e voce Carlo corallo
Produzione Osa