La tua lingua è una lingua biforcuta e noi
la faremo a striscioline la tua e il linguaggio
di tutti
ricorda che li punto cozzerà, tremerà a contatto
del punto che si chiama altro […]
e sarà il nostro moto quello
d’un atomo, universale.
Patrizia Vicinelli, È ora di spezzare questa combustione
Sotto cieli costellati di satelliti, capitali, radiofrequenze, l’isteria di massa avanza dalle terre di un pianeta che oramai frigge alle stesse temperature di una cotoletta di pollo. Chi vaneggia da decenni l’imminente fine di ogni ideologia, chi l’avvenuta fine della Storia, chi rifugge l’incedere barbaro dei moti sociali, chi ritorna al corpo, chi auto-narra le proprie vanaglorie artistiche tramite un post su qualche social, chi soccombe, chi si strangola attorno a fragili certezze categoriali, le poche intraviste in una squallida epoca spettacolare e pornografica. “Après nous, le déluge” soleva proferire Madame de Pompadour al proprio amante borbonico intuendo la prossimità del caos che sarebbe seguito alla caduta della monarchia. Ciò che tuttavia costituisce il fil rouge di questi stati percettivi intimamente contemporanei – siano essi manifestati in un testo poetico ad alta voce, sia nello spot pubblicitario di un dentifricio – è la violenza, simbolica o fisica, come veicolo dell’affermazione del proprio orizzonte artistico ed esistenziale.
Laddove i pilastri culturali vacillano è la brutalità dell’ordine che si riafferma: la realtà fluida, sempre più complessa rispetto alle categorie con le quali le società la pensano, genera indeterminazione e quest’ultima a sua volta genera ansie, paura di contaminazione ed esigenze di purificazione del proprio quadro di riferimento simbolico. La violenza soggiace a tutto quanto. Come avverte l’antropologo americano Appadurai, la violenza nell’epoca della globalizzazione sembra riprodurre certezze in un segmento storico contraddistinto da insicurezze profonde e diffuse come il collasso degli stati, la deregulation economica e le capillari forme di impoverimento sistematico (Appadurai, 2015).
Se la confusione fa da vincitrice in questo quadro, evidente è come le soggettività immerse nei discorsi culturali ed artistici ostentino e ricalchino modelli più che mai privi di ogni qualsivoglia relativismo.
Se la confusione fa da vincitrice in questo quadro, evidente è come le soggettività immerse nei discorsi culturali ed artistici ostentino e ricalchino modelli più che mai privi di ogni qualsivoglia relativismo. Poesie piene di cliché come dice qualcuno, rivendicazione del mezzo – orale? testuale? – come etica funzionale, retrograde difese ad uso e consumo di una filologia archeologica, self-promoting, cabaret.
Già un anno fa io e Davide Galipò, come gruppo d’azione poetica Salinika, ci eravamo esposti nel merito dello stato delle cose della poesia italiana evidenziando l’urgenza di ritornare alla carnalità del verso. Un anno è passato e le barbarie non sono diminuite, su nessun terreno. Pratiche artistiche di varia natura scorrazzano sincretiche da un’autostrada all’altra, eppure ciò che manca è lo spettro critico, la forma di coscienza collettiva, quella che ha costituito la base di ogni grande movimento storico e che ad oggi, nell’epoca della de-socializzazione, dell’individualismo e del culto del volontariato magico (Fisher, 2014) finisce per essere appiattita, nella grande onda di sterilità prodotta dal capitale e dalla capitalizzazione dell’immaginario, a suon di divismi e pleonasmi.
Ma se questa è la diagnosi, ahimè, delle cose, quali sono i sintomi espressi dai soggetti immersi nella lotta su più piani, siano quelli culturali ed artistici, siano quelli prettamente politici? Da un lato i flussi simbolici globali hanno consentito nell’età della globalizzazione la trasformazione delle proprie vite sociali tramite la costruzione e l’ibridazione di diversi immaginari, se intendiamo, sempre ricollegandoci ad Appadurai, immaginario come opera di riconfigurazione del presente tramite un’azione, una pratica culturale nutrita di orizzonti storici, collettivi e sociali. Dall’altro tali virgulti di potenziale creativo sono stati completamente vittima di un conglobamento da parte dell’omologazione imperante del capitalismo astratto-finanziario, artefice di un regime di inclusione di ogni alterità dentro l’impotente griglia del simulacro spettacolarizzante: riprendendo le parole di Mark Fisher, il grande trionfo del Capitalist Realism sta nel determinare nelle coscienze dei processi di costruzione alternativa al capitale l’incapacità di ragionare in modo critico sulle forme di disavowal, ossia di disconoscimento, nelle quali sono immerse. Istanze rivoluzionarie, forze desideranti, nomadismi insurrezionali, collettivizzazione dello spazio artistico, tutto quanto è vittima di un turn-over globale in cui ogni possibilità viene radicalizzata e sussunta da un ordine che non è più materiale, bensì è prima di tutto ideologico e mentale, spaziale e temporale. È da questa situazione di frammentazione capillare e di completa impotenza davanti ai meccanismi dialettici tra cultura e contro-cultura che emergono la faziosità tra le parti ed al contempo l’incapacità di pensar-si e rappresentar-si al di là di categorie ereditate dal passato, indossate ed attribuite dalle proprie squallide cerchie sociali – slammer, filologi, rapper, poeti, scrittori, teatranti, comici, ecc. È da questa miserabile situazione, caratterizzata da un provincialismo più che mai contemporaneo ed ideologico, che nasce un terreno fertile per la diffusione di contenuti insulsi, banali, fuori da ogni dialettica storica, come i temi universali e assoluti, diluiti tuttavia nella povertà di gusto e nella loro attuale veste storica: l’intrattenimento. È da questa contingenza, da questa poetica dei telefoni bianchi, che deriva l’estenuante pratica essenzialista della remunerazione tramite promozione, dell’impresa dei Like e dei commenti, la logica imperante nel bel paese del volemossébene, con annessi circuiti clientisti ed immensa miseria culturale.
Riprendendo le parole di Mark Fisher, il grande trionfo del Capitalist Realism sta nel determinare nelle coscienze dei processi di costruzione alternativa al capitale l’incapacità di ragionare in modo critico sulle forme di disavowal, ossia di disconoscimento, nelle quali sono immerse.
Prima della sua scomparsa, Mark Fisher ci ha lasciato in eredità una grandissima intuizione e nozione, ossia quella del capitalismo reale come meccanica di annichilimento di ogni forma differente di esistere e, conseguentemente, produttore dell’immensa deflazione della coscienza che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni. Tuttavia, come egli stesso intuiva in questi ultimi tempi, più la realtà si fa plastica, più la temporalità dell’esistente perde di consistenza in seguito all’ubiquità dell’agency virtuale (cfr. il concetto di Hauntology), più lo spauracchio dell’incubo nucleare si paventa, più si retrocede come in un rewind moderno alle forme di organizzazione socio-economica precedenti al neoliberismo, più si danno le condizioni per l’emergere di una nuova forma di coscienza collettiva in grado di maturare una potenzialità creativa, necessariamente politica ed artistica, che possa condurci al di fuori da quest’estenuante riflessione senza fine sulla nostra epoca. Riprendendo le parole del critico inglese: “Quando le persone sviluppano una coscienza di gruppo o di classe non registrano solamente qualcosa che è vero, ma quando si costituiscono come gruppo hanno già cambiato il mondo. La coscienza è quindi immediatamente trasformativa e un salto di coscienza diventa la base per altre forme di trasformazione.” (Mark Fisher in un intervento presso la mostra All of this is temporary, in Verso l’Acid-Communism. Presa di coscienza e post-capitalismo, trad. di Andrea Fumagalli e Davide Gallo Lassere, Effimera).
Quando le persone sviluppano una coscienza di gruppo o di classe non registrano solamente qualcosa che è vero, ma quando si costituiscono come gruppo hanno già cambiato il mondo.
Urgenza pertanto. Contro ogni sintesi dialettica retta sulle facili dicotomie che emergono in tempi di guerra. Per una nuova consapevolezza creativa ed artistica, per una decolonizzazione dell’immaginario, per una decostruzione di ogni narrativa retta su categorie improprie e devianti, per una nuova estetica che si sappia far motrice di contaminazione, di riappropriazione del senso, che sappia divenir veicolo nella ricerca di nuove forme artistiche e sociali al di fuori dell’ingerenza mercificatoria del capitale, che sappia dotarsi di spazi in cui molecole creative possano riconsegnare alla Poesia il suo ruolo essenziale, ossia di rottura del linguaggio, dunque di rivolta.