Poema pornografico d’amore (2 di 2) | Francesco Salmeri

 

 

“Non ho alcuna voglia di andare domani al negozio. Il lavoro è una merda”.
“E cosa vorresti fare, se no? C’è qualcos’altro che vorresti fare?”.
“No, lo sai che non è questo… Non so”.
“Sei stanca? Vuoi che ti faccia un massaggio quando torniamo a casa?”.
“Forse. Perché no? Non mi dispiacerebbe. Sono sempre stanca, sai, amore?”.
“Lo so, amore, sei sempre stanca. Cosa dovrei fare con mio fratello? Ci tengo molto alla tua opinione e sono molto confuso”.
“Non so che dirti. Ma tu riesci sempre a cavartela e lui ha letteralmente un’adorazione nei tuoi confronti. Farebbe tutto ciò che gli dici”.
“Forse prima, ma adesso non ci sta più con la testa. E frequenta brutta gente. Temo che si sia messo a spacciare. Devo trovargli un lavoro”.
“Ma se a malapena ce l’hai tu. Magari Giacomo ti può dare una mano…”
“Sì, hai ragione. Lui ha molti contatti”.
“Ire?”.
“Sì”.
“Ti amo”.


Quanto la amo. Anche se non riesco sempre a capirla. Ed è imprevedibile. Prima mi ha toccato sotto il tavolo. Lei non si vergogna mai, non le importa di ciò che pensano gli altri. Forse qualcuno ha visto. Ha una sessualità insaziabile. Non vedo l’ora di scoparmela. Sicuramente ne ha una voglia matta e io non vedo l’ora. Stanno camminando e si distrae un attimo per guardarle il seno, non così procace, come per assicurarsi di averne veramente voglia. Quasi non vede una macchina ben disposta ad un incidente. Irene gli stringe con forza il braccio. Che belli i suoi seni e la sua liscia bianca pelle. Anche se ultimamente ha dei brufoli bruttini sulle scapole.
Scene erotiche nella sua testa prima di pensare al fratello. Che ama tantissimo. Davanti al Palazzo Fuksas ci sono i soliti assembramenti di africani, tra gli ultimi a presidiare la piazza, ma tra i più discreti. Non parlano mai ad alta voce e per lo più non parlano. Un arabo chiede a Mauro se vuole del fumo. Gli fischia nel linguaggio cifrato degli agenti dello spaccio. Mauro scuote impercettibilmente il capo per rifiutare. Intesa. L’arabo continua per la sua strada.
“Sarà uno nuovo”.

Lei non si vergogna mai, non le importa di ciò che pensano gli altri. Forse qualcuno ha visto. Ha una sessualità insaziabile.

Di Mauro non posso dire molto, anche perché lo odio. Egli è un personaggio sbiadito che non merita ulteriore caratterizzazione. La sua insignificanza si misura con la lunghezza del suo pene minuscolo (l’autore si riserva il diritto di lasciare intendere che per lui non vale lo stesso). Il percorso fino a casa trascorre con un’unione sudaticcia tra le mani amanti.
A Torino non si respira. Le mani non respirano. Io non respiro e li ho seguiti. Mentre Mauro cerca la chiave giusta tra le numerose e inutilizzate del mazzo, Irene silenziosamente sbuffa. Salgono gli scalini uno ad uno. Irene si libera di tutto ciò che la impacci nel farsi una camomilla: la camicia e le scarpe.
“Amore, vuoi una camomilla?”.
Accetta il maschio dall’altra stanza. Si stava anche lui levando le scarpe. Si libera di tutto ciò che lo impacci e la raggiunge da dietro. Le cinge i fianchi e le bacia il collo. Poi la testa nel solito incavo. L’acqua bolle e la camomilla ha il privilegio di dissiparsi nell’acqua calda. Si seggono e lasciano le tazze a fumare sul tavolo.
Irene si accende una sigaretta, la fuma melanconicamente. Come fumano le donne in attesa che si raffreddino le loro tazze di camomilla. In quanto narratore ho tali doti visionarie. Non parlano. Cioè, non sento nulla dalla porta. La sigaretta sta per terminare, Mauro si alza. Le si avvicina e la bacia chinandosi. La sigaretta cade nel portacenere e Irene viene sollevata dalle ascelle per farsi baciare meglio e cinta nuovamente. Le mani indugiano sui fianchi, ma sanno bene qual è il loro compito. Irene era in reggiseno; ora non più. Irene si lascia amorevolmente trasportare sul letto. Lascia che le si sfilino i pantaloni ed è percorsa da un’eccitazione sottocutanea. Irene si lascia leccare la fica e gode. Irene gode e lascia che si sentano dei gemiti per indirizzare la lingua di Mauro. Irene gode meccanicamente, a guisa di personaggio eliotiano. Ma gode, tuttavia. Io lo sento e lo avrei saputo comunque. Anche questo rientra nelle mie doti visionarie.
Che bella la sua pelle nuda e bianca. I nei sulla sua pancia. Quanto la amo. Spero che dai suoi occhi socchiusi possa scorgere la mia erezione poderosa. Anche se non riesco mai a averne una vera. Devo toccarmi io. Solo la mia mano stimola adeguatamente il flusso di sangue. Ma lei mi eccita tantissimo. Davvero tanto, questo sgradevole clitoride.
Mauro si sente pronto e baldanzoso per la penetrazione. L’impaccio e la pienezza del primo ingresso. L’adattamento e lo sport. Pure è vero che è distratto e non riesce bene a concentrarsi, guarda il cuscino. Ma nuovamente i gemiti lo indirizzano e incoraggiano. Deve andare più forte. È quasi surreale. Aumenta la velocità. Se prima il suo fisico da giornalista e da carnivoro fatica, una scarica elettrica lo ricarica. Usa tutta la forza di cui è capace. Le stringe i seni violentemente, le tira i capelli per avere l’illusione dello stupro. Che bello scopare e penetrarla! Il suo corpo così mobile scosso dai miei colpi! Quanto vorrei essere io al suo posto! Quanto vorrei che mi scopassero come la scopo io!
Nella mente di Mauro si cristallizza l’immagine di sé piegato prono su un divano. Il nero muscoloso – “nero” ha una carica erotica che ad “africano” manca, l’autore si scusa – di cui aveva prima ammirato i bicipiti fa di lui un timido e succube fanciullo.
Un orgasmo intenso.

Illustrazione di Dino Buzzati

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