Vedei | Noemi De Lisi

La nostra casa è fatta di polvere.
La tua vita antica, il parto di tua madre nella camera da letto, tuo padre moribondo nella camera da letto, i nostri orgasmi nella camera da letto. Mi hai costretto nel perimetro dei tuoi detriti, a scavare nella polvere per tracciarci, a imparare il nostro linguaggio vivo, qui dove abitano i morti.
Da bambino, nella casa vecchia, aveva indicato davanti a sé, oltre la ruggine del balcone. La punta dell’unghia gli era cresciuta tutta assieme, aveva bucato l’afa squagliata del pomeriggio fino a raschiare la sagoma in lontananza: – Che cos’è? – Suo padre si era girato sulla sedia rossa di plastica attratto dal sentiero invisibile dell’unghia: – Una gru –  e aveva buttato il fumo dalla bocca appannando l’aria. 
– E che fa la gru?
– Niente fa, la vedi, per ora sta ferma, poi vola.
– E dove va? 
– Si fa i tragitti su e giù con le ali, così, ma però sempre qua torna.
Suo padre si era messo a ridere, aveva spolverato la cenere della sigaretta sulla coscia nuda: – Dai, aspettiamo quando si muove – lo aveva afferrato da sotto le ascelle e lo aveva poggiato sul ginocchio. Rosi stava scomodo in bilico sull’osso pungente e gli davano fastidio i peli, gli facevano sudare lo slip del costume,  – Stai qui con me.  – Dove abitano ora non vanno più in giro per casa in costume, perché tanto, nella città nuova, non c’è mai lo stesso vento bollente e impolverato di Palermo.

Adesso l’aria sopra le strade è aspra e rinsecchita; non si butta addosso alle cose, non le avvolge, non le copre, non le trasforma più in niente.

– Ciao, sangue mio, com’è andata?
– Mamma…
– Ch’è successo?
Sua madre smette di girare il forchettone nella pentola e guarda Rosi col bianco della pupilla che gli fa impressione; allora lui butta di nuovo la faccia accartocciata sul pavimento, e sussurra che ha preso una nota. Gli occhi di sua madre rientrano nei contorni, seppelliti fra le grinze delle palpebre strizzate; lascia il forchettone nell’acqua bollente, prende l’orlo del grembiule di cotone a quadretti, se lo mette in faccia e sparisce. Di lei rimangono solo i capelli legati in cima con un tuppo e le mani gonfie in una catena di vene: respira forte e poi grida soffocata, come faceva contro il cuscino prima che lasciassero la casa vecchia. Rosi si strappa le pellicine sul labbro col margine dei denti, le dice di smetterla, non è successo niente, non è giusto che si metta a fare così. Il professore gli ha fatto venire i nervi, e i suoi compagni pure, che schifo. Quelli, anziché difenderlo, gli hanno pure riso in faccia, quello glielo poteva solo correggere il tema; mica è stato giusto leggerlo davanti a tutti, se era sbagliato! Mica si ragiona così, qua ragionano tutti alla rovescia in ’sta città.
– Eh, ringrazia a tuo padre, che ci ha fatti trasferire… shhh, zitto, che qua è.
La porta d’ingresso si chiude con un botto. Ogni giorno suo padre torna dall’autofficina per la pausa pranzo, cammina veloce per il corridoio: prima si sente la puzza di motore mischiata alle pestate delle scarpe di ferro e poi spunta lui con la tuta blu macchiata di grasso nero, aloni e croste. Sua madre spegne il fuoco, scola la pasta e sorride: – Ciao, Salvo, è pronto. – butta due cucchiaiate di condimento con broccolo, acciughe, passolina e pinoli nella pentola coi bucatini scolati e squarati, mescola tanto per sporcare, colorare, poi fa i piatti e alla fine mette il resto in cima a ognuno, una quartara di condimento, tre montagne: – Lo sai che non ci ho pensato, di nuovo, a come chiamano qua le cose? Gli faccio al fruttivendolo di darmi un broccolo e quello mi ha preso gli sparacelli. Non mi entra in testa che qua dicono cavolfiore per dire broccolo – si mette a ridere e posa i piatti a tavola. Quando suo padre si siede, la puzza di gas di scarico e grasso di motore fa galleggiare le posate, i bicchieri, smuove tutti i contorni, è afa. Prende il contenitore con la mollica atturrata e la sparge sulla pasta facendo il verso della mitraglietta: – Perciò, e tu che hai con ’sta faccia, com’è andata a scuola? – Rosi è seduto con le mani in mezzo alle cosce, la testa bassa; alza il mento e guarda sua madre: – Niente è successo, Salvo, non t’arrabbiare… gli hanno fatto una nota. – Suo padre continua a mangiare: prende arrotolate sempre più spesse, si squarcia la bocca, si vedono le otturazioni d’oro dei molari in fondo, mastica, si sporca il pizzetto col condimento rappreso di mollica. Lascia cadere la forchetta nel piatto, una campana squillante, strappa un pezzo di busta del pane in mezzo alla tavola e se lo strofina raschiando le labbra: – Ti sei dimenticata a mettere i tovaglioli. – Scusa – sua madre salta dalla sedia e prende il rotolo di carta, glielo posa davanti. – Che minchia hai fatto? – Rosi sfila le mani dalle cosce, afferra il bordo del tavolo e gli guarda la scritta Fiat cucita sul petto della tuta. Gli dice che il professore ha portato i temi corretti, quelli in cui dovevano raccontare un bel ricordo della loro vita. Lui ha scritto di quella volta che hanno visto la gru dal balcone; che l’uccello, di lato, aveva una sola gamba, si intrecciava con l’altra solo a tratti, nei nodi delle ossa, e formava una sagoma merlettata. Da lontano, le piume appiccicate una dietro l’altra formavano dei tubi rigidi, grumi frammentati, sbiaditi, un corpo leggerissimo, vuoto. La gru era rimasta ferma davanti a loro, piegata in avanti col becco appuntito teso a raccogliere qualcosa; aspettavano che volasse. Rosi alza gli occhi sulla fronte rigata di suo padre; si è tagliato da poco i capelli, così si vede di più che ce l’ha alta come la sua. – Ha detto che è pieno di errori, uno peggio dell’altro, non sembra manco scritto in italiano. Poi ne ha letto un pezzo, e tutti si sono messi a ridere, perché c’era scritto: “Quando ero piccolo vedei una gru”.
– E perché che c’è da ridere?
– Si dice vidi.
– Ah e che ci danno i soldi per non fare niente a questo? Mica ci vai già insegnato a scuola. E tu pure che scieccu sei, non lo sai l’italiano?
Sua madre scuote la testa, il tuppo di capelli oscilla, schiocca la punta della lingua, fa come il rubinetto sgocciolante della casa vecchia.

Rosi parla smozzicando tutte le frasi, ingoia la saliva, il professore gli ha detto pure che il tema è sbagliato proprio alla base. Dovevi descrivere un ricordo reale; così, invece, cosa vuoi dimostrare?

Mi stai solo prendendo in giro, mi fai perdere tempo, ti devi rendere conto che qua siamo in prima media, ti devi abituare a pensare al concreto, senza le truffe e le favole che sei abituato a fare dalle tue parti. Le gru in città non si vedono, manco a Palermo, con tutto che sta praticamente in Africa. È inutile che scrivi queste cose; ti consiglio un bel ripasso di geografia oltre che di grammatica. Poi il professore si è messo a ripetere “vedei la cattedra, vedei la lavagna” mentre indicava i mobili della classe. A Rosi sono diventate le orecchie bollenti, gonfiate dalle risate dei suoi compagni che rimbalzavano sulle pareti e gli tornavano dentro. Si è alzato dal banco, si è avvicinato alla cattedra, ha sbattuto le mani sul piano, ha preso il suo tema e lo ha stracciato, ha fatto saltare in aria i brandelli sulle teste dei compagni, poi si è voltato, ha sputato ed è uscito dalla classe.
– Ah e sputi in faccia al professore?
– No, Salvo!
Il grido di sua madre s’intreccia al rumore dello schiaffo, della sedia che cade all’indietro. Suo padre, una creatura mitica: la metà che si sporge su di lui è l’animale; la metà nascosta sotto il tavolo è l’uomo. Le posate tremolano, un bicchiere si rovescia, annega un piatto; lo schiaffo gli storce gli occhi, gli cambia la faccia, distrugge il profilo curvo di Palermo, che lui ancora imita, raddrizza tutte le linee, le fa aguzze, traccia il nuovo percorso della sua vita.

Escono in fretta nel tardo pomeriggio, prima che suo padre ritorni da lavoro. Sua madre ha portato il trolley, quello piccolo, che non se la fida a trascinare troppo peso, però le dà fastidio questo rumore delle rotelle sul marciapiede, tossisce per coprirlo: il ronzio è una scia dietro di loro, come se lui potesse seguirla e trovarli. Rosi invece ha riempito lo zaino della scuola, lo porta come se avesse un altro corpo, uguale al suo, aggrappato alla schiena. Raggiungono la stazione dei pullman, ci staranno un giorno intero per arrivare; sono soli come l’altra volta però col tragitto rovesciato. Suo padre si era trasferito per primo; dopo un mese, gli aveva mandato i soldi e loro erano potuti salire con l’aereo. Al decollo, sua madre aveva paura e gli stringeva la mano forte: – Sangue mio, ti scanti? Ci sono io, ci sono io. – lui rideva, gli sembravano le giostre natalizie di piazzale Giotto  montate dagli zingari, quando saliva su quelle più alte, arrugginite, e vedeva i palazzi capovolti. Il pullman si accende, la città nuova comincia a scorrere dietro di loro, una scia in frantumi che li riporta solo a pezzi, capelli, sudore, unghia, sputo; non è in grado di trattenere niente al loro passaggio, non è fatta di materia, quando si attraversa non si modifica, non si formano le crepe, non si scortica per risanarsi attorno ai loro corpi, non si addensa, evapora nel freddo secco. 

Dopo il matrimonio, i suoi genitori abitavano nel palazzo più antico del quartiere Zisa; in casa, gli infissi delle porte gonfi di umidità non si chiudevamo mai completamente, neanche premendoli con  rabbia, e l’intonaco del soffitto del bagno si sbriciolava a ogni doccia, nevicava. Era la stessa casa dove sua madre è nata, da dove è passata la sua famiglia senza mai comprarla perché il mutuo era un rischio. Suo padre ha continuato a pagare l’affitto tramandato, aspettando un contratto migliore mentre Rosi veniva concepito, partorito e cresciuto mangiando patate, acciughe, carciofi, aglio. L’autofficina poi aveva chiuso, quella centrale e la succursale, e da quando aveva perso il lavoro, suo padre, giorno dopo giorno, era diventato una ragnatela. Quando Rosi passava dal salotto per andare in bagno non si voltava; lo percepiva con l’angolo dell’occhio, un grumo di polvere sfuocato sul divano, una figura trasparente e sottile, un intrico, la bava di un ragno, le lacrime. Prima di trasferirsi su, aveva cominciato a dire che quella casa non era la loro, non lo era mai stata, che si dovevano togliere le foto dei morti, che portavano sfortuna, non era una casa viva. Un giorno, aveva tirato le cornici contro le pareti, i vetri sgretolati sul pavimento, la carta lucida strappata, i capelli di sua madre nel pugno, i denti strizzati, le grida, la sua metà trasformata in un cavallo mitico, gli zoccoli contro la schiena di Rosi, a calci finché non sviene. È ’a casa ri muoitti, sì, a to vita, ’a casa, unnu viri? Puru a me figghiu ci vulissi miettiri ’u nomi ri to patri, brava, r’accussì into ’u sangu c’avi ’u pruvulazzu comu attìa, site tutt’i stissivurricatiMa viri ùora ha cuminciari a parrari italiano, ’u capisti? Chista lingua ri muotti, unnè chiù a lingua mia, minn’agghiri.[1] Siete tutti uguali, sepolti, a stare qua fermo divento una stanza come voi, ma non ci sperare, non diventerò mai questa casa. 

Rosi si era addormentato a tratti con la testa contro il finestrino del pullman, non poteva poggiarsi alla mano perché gli faceva ancora male la guancia, gli era venuto il livido. Apriva e chiudeva gli occhi spesso, vedeva l’autostrada, le luci arancioni diluviare; saltava in aria per le vibrazioni del motore, i sobbalzi delle ruote. – Guarda dove siamo – gli aveva detto sua madre stringendogli il braccio: erano usciti dal traghetto, sotto di loro, il mare d’olio; sopra di loro, i riflessi delle palme sul finestrino.

Sua madre aveva gli occhi infossati, stropicciati agli angoli, ma rideva schiarita dal giorno, fissando la città materiale lacerarsi per farli passare e poi ricucirsi usando i loro corpo come lembi.

Rosi preme le mani aperte sul finestrino: 
– Siamo tornati?
– Sì, sangue, siamo a Palermo.
– Ora andiamo nella casa vecchia?
– No, non possiamo andarci più. Ora ci vive un’altra famiglia, non te lo ricordi?
– È vero…
Il pullman continua a muoversi, ad allontanarsi dal porto, Rosi vede una gru ruotare lenta la sua meccanica e far scendere il carico su una nave, staccarlo, risollevarsi, spalancare le grandi ali curve con le piume nere, seguire lui e sua madre in volo, allungare l’ombra oscillando la punta del becco, superarli, per tracciare la mappa della loro vita.

Illustrazione di Rebecca Mock


[1] È la casa dei morti, sì, la tua vita, la casa, non lo vedi? Pure a mio figlio hai voluto mettere il nome di tuo padre, brava, così nel sangue ha la polvere come te, siete tutti gli stessi, seppelliti. Ma guarda che ora devi cominciare a parlare in italiano, hai capito? Questa lingua dei morti non è più la mia lingua, me ne devo andare.

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