Vedei | Noemi De Lisi

La nostra casa è fatta di polvere.
La tua vita antica, il parto di tua madre nella camera da letto, tuo padre moribondo nella camera da letto, i nostri orgasmi nella camera da letto. Mi hai costretto nel perimetro dei tuoi detriti, a scavare nella polvere per tracciarci, a imparare il nostro linguaggio vivo, qui dove abitano i morti.
Da bambino, nella casa vecchia, aveva indicato davanti a sé, oltre la ruggine del balcone. La punta dell’unghia gli era cresciuta tutta assieme, aveva bucato l’afa squagliata del pomeriggio fino a raschiare la sagoma in lontananza: – Che cos’è? – Suo padre si era girato sulla sedia rossa di plastica attratto dal sentiero invisibile dell’unghia: – Una gru –  e aveva buttato il fumo dalla bocca appannando l’aria. 
– E che fa la gru?
– Niente fa, la vedi, per ora sta ferma, poi vola.
– E dove va? 
– Si fa i tragitti su e giù con le ali, così, ma però sempre qua torna.
Suo padre si era messo a ridere, aveva spolverato la cenere della sigaretta sulla coscia nuda: – Dai, aspettiamo quando si muove – lo aveva afferrato da sotto le ascelle e lo aveva poggiato sul ginocchio. Rosi stava scomodo in bilico sull’osso pungente e gli davano fastidio i peli, gli facevano sudare lo slip del costume,  – Stai qui con me.  – Dove abitano ora non vanno più in giro per casa in costume, perché tanto, nella città nuova, non c’è mai lo stesso vento bollente e impolverato di Palermo.

Adesso l’aria sopra le strade è aspra e rinsecchita; non si butta addosso alle cose, non le avvolge, non le copre, non le trasforma più in niente.

– Ciao, sangue mio, com’è andata?
– Mamma…
– Ch’è successo?
Sua madre smette di girare il forchettone nella pentola e guarda Rosi col bianco della pupilla che gli fa impressione; allora lui butta di nuovo la faccia accartocciata sul pavimento, e sussurra che ha preso una nota. Gli occhi di sua madre rientrano nei contorni, seppelliti fra le grinze delle palpebre strizzate; lascia il forchettone nell’acqua bollente, prende l’orlo del grembiule di cotone a quadretti, se lo mette in faccia e sparisce. Di lei rimangono solo i capelli legati in cima con un tuppo e le mani gonfie in una catena di vene: respira forte e poi grida soffocata, come faceva contro il cuscino prima che lasciassero la casa vecchia. Rosi si strappa le pellicine sul labbro col margine dei denti, le dice di smetterla, non è successo niente, non è giusto che si metta a fare così. Il professore gli ha fatto venire i nervi, e i suoi compagni pure, che schifo. Quelli, anziché difenderlo, gli hanno pure riso in faccia, quello glielo poteva solo correggere il tema; mica è stato giusto leggerlo davanti a tutti, se era sbagliato! Mica si ragiona così, qua ragionano tutti alla rovescia in ’sta città.
– Eh, ringrazia a tuo padre, che ci ha fatti trasferire… shhh, zitto, che qua è.
La porta d’ingresso si chiude con un botto. Ogni giorno suo padre torna dall’autofficina per la pausa pranzo, cammina veloce per il corridoio: prima si sente la puzza di motore mischiata alle pestate delle scarpe di ferro e poi spunta lui con la tuta blu macchiata di grasso nero, aloni e croste. Sua madre spegne il fuoco, scola la pasta e sorride: – Ciao, Salvo, è pronto. – butta due cucchiaiate di condimento con broccolo, acciughe, passolina e pinoli nella pentola coi bucatini scolati e squarati, mescola tanto per sporcare, colorare, poi fa i piatti e alla fine mette il resto in cima a ognuno, una quartara di condimento, tre montagne: – Lo sai che non ci ho pensato, di nuovo, a come chiamano qua le cose? Gli faccio al fruttivendolo di darmi un broccolo e quello mi ha preso gli sparacelli. Non mi entra in testa che qua dicono cavolfiore per dire broccolo – si mette a ridere e posa i piatti a tavola. Quando suo padre si siede, la puzza di gas di scarico e grasso di motore fa galleggiare le posate, i bicchieri, smuove tutti i contorni, è afa. Prende il contenitore con la mollica atturrata e la sparge sulla pasta facendo il verso della mitraglietta: – Perciò, e tu che hai con ’sta faccia, com’è andata a scuola? – Rosi è seduto con le mani in mezzo alle cosce, la testa bassa; alza il mento e guarda sua madre: – Niente è successo, Salvo, non t’arrabbiare… gli hanno fatto una nota. – Suo padre continua a mangiare: prende arrotolate sempre più spesse, si squarcia la bocca, si vedono le otturazioni d’oro dei molari in fondo, mastica, si sporca il pizzetto col condimento rappreso di mollica. Lascia cadere la forchetta nel piatto, una campana squillante, strappa un pezzo di busta del pane in mezzo alla tavola e se lo strofina raschiando le labbra: – Ti sei dimenticata a mettere i tovaglioli. – Scusa – sua madre salta dalla sedia e prende il rotolo di carta, glielo posa davanti. – Che minchia hai fatto? – Rosi sfila le mani dalle cosce, afferra il bordo del tavolo e gli guarda la scritta Fiat cucita sul petto della tuta. Gli dice che il professore ha portato i temi corretti, quelli in cui dovevano raccontare un bel ricordo della loro vita. Lui ha scritto di quella volta che hanno visto la gru dal balcone; che l’uccello, di lato, aveva una sola gamba, si intrecciava con l’altra solo a tratti, nei nodi delle ossa, e formava una sagoma merlettata. Da lontano, le piume appiccicate una dietro l’altra formavano dei tubi rigidi, grumi frammentati, sbiaditi, un corpo leggerissimo, vuoto. La gru era rimasta ferma davanti a loro, piegata in avanti col becco appuntito teso a raccogliere qualcosa; aspettavano che volasse. Rosi alza gli occhi sulla fronte rigata di suo padre; si è tagliato da poco i capelli, così si vede di più che ce l’ha alta come la sua. – Ha detto che è pieno di errori, uno peggio dell’altro, non sembra manco scritto in italiano. Poi ne ha letto un pezzo, e tutti si sono messi a ridere, perché c’era scritto: “Quando ero piccolo vedei una gru”.
– E perché che c’è da ridere?
– Si dice vidi.
– Ah e che ci danno i soldi per non fare niente a questo? Mica ci vai già insegnato a scuola. E tu pure che scieccu sei, non lo sai l’italiano?
Sua madre scuote la testa, il tuppo di capelli oscilla, schiocca la punta della lingua, fa come il rubinetto sgocciolante della casa vecchia.

Rosi parla smozzicando tutte le frasi, ingoia la saliva, il professore gli ha detto pure che il tema è sbagliato proprio alla base. Dovevi descrivere un ricordo reale; così, invece, cosa vuoi dimostrare?

Mi stai solo prendendo in giro, mi fai perdere tempo, ti devi rendere conto che qua siamo in prima media, ti devi abituare a pensare al concreto, senza le truffe e le favole che sei abituato a fare dalle tue parti. Le gru in città non si vedono, manco a Palermo, con tutto che sta praticamente in Africa. È inutile che scrivi queste cose; ti consiglio un bel ripasso di geografia oltre che di grammatica. Poi il professore si è messo a ripetere “vedei la cattedra, vedei la lavagna” mentre indicava i mobili della classe. A Rosi sono diventate le orecchie bollenti, gonfiate dalle risate dei suoi compagni che rimbalzavano sulle pareti e gli tornavano dentro. Si è alzato dal banco, si è avvicinato alla cattedra, ha sbattuto le mani sul piano, ha preso il suo tema e lo ha stracciato, ha fatto saltare in aria i brandelli sulle teste dei compagni, poi si è voltato, ha sputato ed è uscito dalla classe.
– Ah e sputi in faccia al professore?
– No, Salvo!
Il grido di sua madre s’intreccia al rumore dello schiaffo, della sedia che cade all’indietro. Suo padre, una creatura mitica: la metà che si sporge su di lui è l’animale; la metà nascosta sotto il tavolo è l’uomo. Le posate tremolano, un bicchiere si rovescia, annega un piatto; lo schiaffo gli storce gli occhi, gli cambia la faccia, distrugge il profilo curvo di Palermo, che lui ancora imita, raddrizza tutte le linee, le fa aguzze, traccia il nuovo percorso della sua vita.

Escono in fretta nel tardo pomeriggio, prima che suo padre ritorni da lavoro. Sua madre ha portato il trolley, quello piccolo, che non se la fida a trascinare troppo peso, però le dà fastidio questo rumore delle rotelle sul marciapiede, tossisce per coprirlo: il ronzio è una scia dietro di loro, come se lui potesse seguirla e trovarli. Rosi invece ha riempito lo zaino della scuola, lo porta come se avesse un altro corpo, uguale al suo, aggrappato alla schiena. Raggiungono la stazione dei pullman, ci staranno un giorno intero per arrivare; sono soli come l’altra volta però col tragitto rovesciato. Suo padre si era trasferito per primo; dopo un mese, gli aveva mandato i soldi e loro erano potuti salire con l’aereo. Al decollo, sua madre aveva paura e gli stringeva la mano forte: – Sangue mio, ti scanti? Ci sono io, ci sono io. – lui rideva, gli sembravano le giostre natalizie di piazzale Giotto  montate dagli zingari, quando saliva su quelle più alte, arrugginite, e vedeva i palazzi capovolti. Il pullman si accende, la città nuova comincia a scorrere dietro di loro, una scia in frantumi che li riporta solo a pezzi, capelli, sudore, unghia, sputo; non è in grado di trattenere niente al loro passaggio, non è fatta di materia, quando si attraversa non si modifica, non si formano le crepe, non si scortica per risanarsi attorno ai loro corpi, non si addensa, evapora nel freddo secco. 

Dopo il matrimonio, i suoi genitori abitavano nel palazzo più antico del quartiere Zisa; in casa, gli infissi delle porte gonfi di umidità non si chiudevamo mai completamente, neanche premendoli con  rabbia, e l’intonaco del soffitto del bagno si sbriciolava a ogni doccia, nevicava. Era la stessa casa dove sua madre è nata, da dove è passata la sua famiglia senza mai comprarla perché il mutuo era un rischio. Suo padre ha continuato a pagare l’affitto tramandato, aspettando un contratto migliore mentre Rosi veniva concepito, partorito e cresciuto mangiando patate, acciughe, carciofi, aglio. L’autofficina poi aveva chiuso, quella centrale e la succursale, e da quando aveva perso il lavoro, suo padre, giorno dopo giorno, era diventato una ragnatela. Quando Rosi passava dal salotto per andare in bagno non si voltava; lo percepiva con l’angolo dell’occhio, un grumo di polvere sfuocato sul divano, una figura trasparente e sottile, un intrico, la bava di un ragno, le lacrime. Prima di trasferirsi su, aveva cominciato a dire che quella casa non era la loro, non lo era mai stata, che si dovevano togliere le foto dei morti, che portavano sfortuna, non era una casa viva. Un giorno, aveva tirato le cornici contro le pareti, i vetri sgretolati sul pavimento, la carta lucida strappata, i capelli di sua madre nel pugno, i denti strizzati, le grida, la sua metà trasformata in un cavallo mitico, gli zoccoli contro la schiena di Rosi, a calci finché non sviene. È ’a casa ri muoitti, sì, a to vita, ’a casa, unnu viri? Puru a me figghiu ci vulissi miettiri ’u nomi ri to patri, brava, r’accussì into ’u sangu c’avi ’u pruvulazzu comu attìa, site tutt’i stissivurricatiMa viri ùora ha cuminciari a parrari italiano, ’u capisti? Chista lingua ri muotti, unnè chiù a lingua mia, minn’agghiri.[1] Siete tutti uguali, sepolti, a stare qua fermo divento una stanza come voi, ma non ci sperare, non diventerò mai questa casa. 

Rosi si era addormentato a tratti con la testa contro il finestrino del pullman, non poteva poggiarsi alla mano perché gli faceva ancora male la guancia, gli era venuto il livido. Apriva e chiudeva gli occhi spesso, vedeva l’autostrada, le luci arancioni diluviare; saltava in aria per le vibrazioni del motore, i sobbalzi delle ruote. – Guarda dove siamo – gli aveva detto sua madre stringendogli il braccio: erano usciti dal traghetto, sotto di loro, il mare d’olio; sopra di loro, i riflessi delle palme sul finestrino.

Sua madre aveva gli occhi infossati, stropicciati agli angoli, ma rideva schiarita dal giorno, fissando la città materiale lacerarsi per farli passare e poi ricucirsi usando i loro corpo come lembi.

Rosi preme le mani aperte sul finestrino: 
– Siamo tornati?
– Sì, sangue, siamo a Palermo.
– Ora andiamo nella casa vecchia?
– No, non possiamo andarci più. Ora ci vive un’altra famiglia, non te lo ricordi?
– È vero…
Il pullman continua a muoversi, ad allontanarsi dal porto, Rosi vede una gru ruotare lenta la sua meccanica e far scendere il carico su una nave, staccarlo, risollevarsi, spalancare le grandi ali curve con le piume nere, seguire lui e sua madre in volo, allungare l’ombra oscillando la punta del becco, superarli, per tracciare la mappa della loro vita.

Illustrazione di Rebecca Mock


[1] È la casa dei morti, sì, la tua vita, la casa, non lo vedi? Pure a mio figlio hai voluto mettere il nome di tuo padre, brava, così nel sangue ha la polvere come te, siete tutti gli stessi, seppelliti. Ma guarda che ora devi cominciare a parlare in italiano, hai capito? Questa lingua dei morti non è più la mia lingua, me ne devo andare.

Dispar’hêtre

Salita – le cascate


Intransigenze mute,
rabbiose devozioni.

C.S.I. – Blu

Una volta dormivo, ero capace di farlo. Una volta mi svegliavo e stavo a letto con piacere. Ora il piacere è la fretta di alzarsi. Ho un tremito, da qualche parte, che devo ascoltare. Mi alzo, mi vesto, apro la porta. Lascio la casa che dorme, entro nel paese che dorme. Se guardo in alto vedo la luce che comincia a estendersi sul profilo delle montagne a est. Tendo il passo verso di loro. Ogni mattina, mi chiamano. Io le ascolto come si ascolta una voce che prega, benevola e grave. Oggi mi arriva ovattata – è l’insonnia della notte che la ottunde, e me la porta via. L’ho capito subito, oggi, già nell’atto di aprire gli occhi. Ho capito che sarebbe stato un giorno faticoso, di piombo. Cammino da pochi minuti e penso all’abbandono: niente possiedo, a niente appartengo – agli alberi, forse. Di tutti gli elementi naturali sono loro i più felici: hanno la terra, hanno il cielo.
Per circa un’ora cammino in salita. C’è una strada sterrata, in fondo al paese, che sale a curve fino a un santuario scavato nella roccia dei monti. È una grotta: da bambina ci andavo a messa con mia nonna, di sabato, facevo il segno della croce dopo di lei e mi sedevo quieta tra i vecchi; quando pioveva, pioveva anche nel santuario, le gocce calavano dai massi impregnati d’acqua sopra le nostre teste. Ma sempre – anche con il sole, anche d’estate – c’era odore di umido, lì dentro. L’aria ne era così satura da appesantire il respiro. Mi domandavo che impatto avesse sui vecchi; li scrutavo, non sembravano in pena. Solo mia nonna, sul finire della messa, aveva male alle ossa, e si stringeva le ginocchia con le mani. A me quell’aria densa calmava, come un bagno di vapore.

Cammino da pochi minuti e penso all’abbandono: niente possiedo, a niente appartengo – agli alberi, forse.

Mentre cammino in salita non ho tempo di pensare. È il momento dello sforzo fisico: finché perdura, io non esisto. Non c’è visuale, lungo la salita, ai lati della strada soltanto i boschi. Una volta in cima ritrovo il cielo, ormai aperto al giorno – è un giorno di sole, senza nebbia, senza una nuvola. Per accedere al santuario si attraversa uno spiazzo di ciottoli scuri. Da un lato lo spiazzo si affaccia sul vuoto. Tra lo spiazzo e il vuoto, c’è una ringhiera di ferro. Mi sporgo e con gli occhi seguo il precipizio fino all’acqua del fiume che tumultua, giù in basso. Osservo le cascate scivolare sulle pareti rocciose delle montagne intorno a me, cadono giù, verso le profondità del fiume. Ascolto il fragore, l’urto con le pietre sull’alveo. È come un richiamo.
Si apre un sentiero, in fondo allo spiazzo, che costeggia la montagna e poi si immerge nella macchia degli alberi. Mi scosto dalla ringhiera e proseguo in quella direzione, superando il santuario. Entro nel bosco.

Terreno piano – il bosco

Dissonanze chiassose e confuse,
armonie affannate e sconnesse.

Mi accorgo che è quasi primavera. Nel sottobosco, i bucaneve fioriti d’inverno si piegano in giù, a petali chiusi: guardano la terra. Il sole filtra tra le fronde, strette a cupola sopra di me, gettando una luce che brilla di verde. C’è un mondo che vive, qui; i fruscii sulla terra secca segnalano la fuga degli animali al rumore dei miei passi.
Quand’ero piccola venivo in questo bosco insieme a mio padre, alla fine dell’estate, in cerca di funghi. Io li indicavo soltanto, senza toccarli. Lui veniva a controllare con il cesto sottobraccio, studiava la struttura e il colore; mi diceva: “Guarda sotto il cappello, da lì capisci se è buono o velenoso”. Io riconoscevo solo quelli gialli e spugnosi, non buoni. Avevo voglia di esplorarli con le mani, testarne la consistenza premendoli tra le dita. Avevano un aspetto malato, e per questo la mia tentazione mi spaventava.
Vedo ogni cosa, lungo il sentiero. Farfalle gialle su fiori gialli, il muschio soffice delle rocce sotto il tessuto di foglie ai miei piedi, le vibrazioni di un’ape. Tutto mi attraversa e mi si incolla: non posso tenermi separata, anche se voglio, non posso concedermi indifferenza. Com’era una volta, quando sapevo dormire? Non c’era fretta, mai; e c’era distacco, tra me e le cose: percepivo così poco. Ora vivo con un filo di ferro che mi entra in verticale dalla testa ai piedi; sempre vibra, e mi costringe a vibrare. Vibro al vibrare di tutte le cose. Persino il volo di quest’ape può farmi stare male. Osservo il bosco ai lati del sentiero. Le file degli alberi mi guardano. Arriva un respiro, dal loro fondo in penombra, che vuole calmarmi. E sembra un monito. Dovrei mettermi in fila anch’io, stare ferma tra cielo e terra, insieme ai faggi. Ma ecco che un raggio di sole si inclina e mi entra negli occhi, tutto si infuoca e trasalisco. Controllo il sentiero dietro e davanti: non c’è nessuno. Allora corro. Corro e lascio che i muscoli si esaltino. Inciampo nei rami, ma non fa niente: ho una crisi di gioia. Prendo velocità e tutto scompare, tutto si riduce alle sequenze captate dagli occhi: schegge di bosco, macchie di colore. Il mio corpo sparisce: io sono i miei occhi.
Intravedo la fine del sentiero, rallento. Di nuovo cammino. Sto per lasciare il bosco, tra poco comincia la strada tra i prati. Sfioro un tronco con le dita, è ruvido e immenso. Cerco la sua cima. Fermati, dice. Attenta a queste crisi di gioia, tra cadere in basso e cadere in alto non c’è differenza; eccesso di morte, eccesso di vita – la stessa cosa, ma rovesciata.

Com’era una volta, quando sapevo dormire? Non c’era fretta, mai; e c’era distacco, tra me e le cose: percepivo così poco.

Discesa – l’orizzonte

La libertà è una forma di disciplina.

C.S.I. – Depressione caspica

È tutta discesa, adesso. Da qui la prospettiva è vasta: indietro posso vedere la grotta del santuario, in fondo allo spiazzo; intravedo le cascate, ma non sento il loro schianto.
Tutto è estensione, adesso, intorno a me. Ho gli occhi ancora appannati dalla fatica, la vista si semplifica alla spianata blu del cielo, alla spianata verde dei prati. È bene: vedere di meno, sentire di meno. C’è qualcosa sulla linea di confine tra i due colori che mi attira, come un segreto. È l’inclinazione piana di quella linea: non cerca di salire, non vuole scendere. Tra il blu e il verde procede orizzontale: non cade. Dovrei spianarmi allo stesso modo, forse, resistere ai richiami verticali. La strada che percorro è stretta e di cemento; la pendenza è forte, se cammino svelta ho fitte alle ginocchia. Allora cammino lenta, un passo dietro l’altro. A mano a mano che procedo ritrovo i contorni delle cose. Procedo e lascio andare la violenza dei pensieri: so zittirli. Il silenzio è pace, la pace è religione. Un cane mi si fa vicino, lo accarezzo tra le orecchie e cerco il suo padrone. Si percepiscono i primi rumori, appaiono le prime case. Un contadino in mezzo al prato ammucchia foglie e rami secchi e accende un fuoco. Con un cenno burbero mi saluta. Il cane gli corre incontro, ma sente il fumo e si blocca, abbaia contro le fiamme che iniziano a salire. Da qui riesco a scorgere casa mia, tra i tetti. Saranno tutti svegli a quest’ora. Lascerò sul pavimento la terra umida del bosco, andrò verso il bagno e troverò mia madre protesa verso lo specchio, ancora in pigiama. Guardandomi dal riflesso chiederà: “Com’è andato il giro?”. Quando sarò a un passo dal suo corpo sentirà sul mio gli odori di fuori, del bosco. È capitato: socchiude gli occhi e ispira con piacere dal naso, poi mi dice: “Sai di fresco, sai di aria”.

Fotografia di Polina Washington

La discesa

Molti anni fa, un martedì grasso, hanno cacciato dal paese la regina della festa insieme alle ancelle. A causa di uno scandalo, sono state allontanate. Ritorno vietato, pena la morte.
La notizia dell’esilio è rimbalzata veloce per tutta la valle, perciò non potevano scendere. L’unico rifugio era l’alta quota.
Con le guance bagnate e le gole scosse dai singhiozzi si sono arrampicate verso la cattedrale di roccia dolomitica illuminata ma ancora fredda. Si sono accampate.
In tre sono morte nei primi mesi. Due per il veleno di un fungo sbagliato, una si è buttata. È volata davanti alla grotta durante la notte. Si sapeva che l’avrebbe fatto. Piangeva tutto il giorno. Aveva cercato di tornare ma le avevano dato fuoco ai capelli. Si è buttata così: calva e senza sopracciglia. Quando l’hanno trovata, sulla lingua di macerie della vecchia frana, sembrava un piccolo porco. L’hanno cucinata la sera stessa e hanno mangiato in silenzio.
Le restanti si sono adattate. Con serenità e pazienza hanno cresciuto piedi di capra e calli spessi sulle dita. Si sono fatte animali nuovi.
Per tanti anni la comunità ha resistito.
Spingendo sulle cosce raggiungevano i giacigli nelle grotte nascoste lungo le pareti scivolose. Lavoravano sole, ma dormivano strette l’una all’altra.
In due hanno partorito due femmine. Da sole, sotto un abete o appoggiate a una grossa roccia calda. Le piccole sono cresciute adottate dal branco: scure, pelose e agili come scoiattoli. Sapevano che, se si mettevano una tetta in bocca, tutte le selvagge avevano latte da dare.
Erano figlie degli stessi uomini che allontanarono le madri dal paese e dal torrente, fin sotto le pareti ripide nell’ombra densa del bosco. Poche settimane dopo la sentenza, due cacciatori hanno trovato le donne che raccoglievano more, coi piedi nudi in mezzo ai cespugli di rovi. Hanno lanciato delle pietre per farle uscire dai gomitoli di spine e le hanno ingravidate sull’erba.

Aveva cercato di tornare ma le avevano dato fuoco ai capelli. Si è buttata così: calva e senza sopracciglia. Quando l’hanno trovata, sulla lingua di macerie della vecchia frana, sembrava un piccolo porco.

Passavano gli anni e molte invecchiavano. Alcune avevano muschio sotto il seno e lasciavano che i ghiri, nelle notti di primavera, nascondessero i cuccioli tra i loro capelli. Molte dormivano tutto il giorno e tutta la notte, ma non erano morte.
La caccia e la mungitura degli animali erano solo per le due giovani, che si occupavano del gruppo piene di energia e gratitudine. Con il pelo fulvo e luccicante e gli occhi grandi per vedere al buio, sembravano sorelle. Se avessero avuto un nome sarebbe suonato come una canzone sottovoce.

Durante la primavera del ventesimo anno, una serie di nevicate tardive ha messo tutte a dura prova. Si stava accendendo la frenesia per il disgelo, le ragazze si preparavano al risveglio degli alveari e le anziane cominciavano a sorridere, quando hanno iniziato a scendere i fiocchi. Il sole di mezzogiorno sembrava non bastare per scaldare le gambe irrigidite delle vecchie. Ogni stomaco bruciava, ogni selvaggia sognava mirtilli e carne grassa.
La corteccia, gli insetti e le piccole prede appena uscite dal letargo non potevano bastare, così hanno deciso: le due giovani sarebbero scese in paese.
Era la prima volta per entrambe.
Per tutta la valle si diceva che la storia delle donne dei boschi era solo una voce, o una favola per bambini. I pochi cercatori di funghi che le avevano intraviste non venivano creduti. Era un bene, per le selvagge. La leggenda le proteggeva.
Le ragazze hanno preso istruzioni dall’ultima regina della festa: una bestia decrepita dalle orecchie di cerbiatto e le unghie pesanti da orso. Ha detto loro di scendere al villaggio di notte, di camminare erette su due piedi per fare meno rumore, di prendere tutto ciò che fossero state in grado di trasportare. Per quanto riguardava gli animali, avrebbero dovuto ucciderli lontano dalle case. Niente maiali, quando li uccidi gridano.
Alcune vecchie, nelle ore di veglia, hanno costruito cesti e gerle per il cibo rubato. Dopo tanti anni non si erano dimenticate come fare.

Con il pelo fulvo e luccicante e gli occhi grandi per vedere al buio, sembravano sorelle. Se avessero avuto un nome sarebbe suonato come una canzone sottovoce.

Il giorno della discesa era tutto pronto. Aspettavano. Sulla neve compatta non scricchiolavano passi.
Si sono incamminate con la luna alta che brillava sul pendio imbiancato e sul loro manto rosso. Hanno incontrato il primo sentiero all’altezza del lago. Non avevano mai visto uno specchio d’acqua tanto grande. Estasiate dalla scoperta, non si sono accorte che la loro pelliccia si era fatta più rada. Lungo il pendio alle loro spalle, una strada di ciuffi fulvi segnava il percorso.
Poche ore dopo hanno avvistato il lampione della piazza. Sapevano che avrebbero dovuto seguire la luce. Camminavano senza distogliere lo sguardo, mentre gli occhi si disabituavano al buio e le pupille diventavano tonde.
Ai margini del villaggio si sono prese per mano. Ormai erano due donne nude. Si sono sfiorate a vicenda la nuova pelle, liscia e bianca, e i capelli rossi. Sentivano freddo e avevano fame.
Dalle vetrine dei negozi, i cartelli pubblicitari mostravano uomini e donne sorridenti. Le ragazze, belle, osservavano il proprio riflesso, esploravano i cortili, le stalle, i fienili, giravano per il paese con la bocca aperta. Mai avevano visto l’immagine di un uomo, mai si sarebbero aspettate di scoprirsi simili a loro, mai avevano pensato di poter vedere tanto cibo tutto insieme, di indossare dei vestiti, di incontrare animali grassi come le vacche o docili come i gatti domestici.
La luce dell’alba le ha sorprese nel negozio della sarta. Giocavano a coprirsi, i piedi nelle maniche, le camicie in testa, le scarpe al posto dei guanti, quando, avendo notato la porta forzata, è entrato il fornaio.
Nessuno si è chiesto da dove venissero. Qualche vecchio l’ha pensato, ma non l’ha detto. Le belle donne sono un dono del cielo.
Mentre si decideva se dar loro un nome, nelle grotte le selvagge morivano di fame.

Illustrazione di Andrea Uncini