Dilàniati,
ché della lana avevo il nome
come l’edera ha il sangue.
Lungo tutti i binari
– scomposti:
tu spargiti e non tergere
le guance, sul lento aprirsi
della folla – come braccia
d’un mare già spoglio,
tremante
d’elettriche lingue
che attraversano il flusso
rosato del tempo
quando ha fame
e ruggine, ai lati.
Dìsfati:
ch’è presto per i ragni
e la terra non geme
– gremita –
se non per sgranchirsi
le ali.
Strette
le tue radici, protese,
non toccano i sintomi
fondi del caos, i nervi
nel litio – solo austeri
corpi cinerei. N’eri:
figlio e motore.
Ché della lana avevo
il suono, sul labbro:
come ciglio increspato
di strade sfinite, venose;
pre/sfumature.
Lànciati:
e non temere i rovi che stringono;
certi flutti di luce;
certe incolpevoli aurore.
Ché non fanno rumore
se non dentro,
dov’è sera
e non restano braci.
Lì ti ho.
Come l’edera e il sangue;
dove la carne è foglio sottile.
E lì arde la voce – senz’arti
e non sa poggiarsi.
… Se non versano stragi, compagni,
Rosse son solo le dita!
Nel freddo ginnico
dei sotterranei e tra i cortili,
dove si spengono i nettari,
le stelle filanti.
Spingono.
Ché non c’è fiato
in aprile,
nei pugnali
di un tango.
Dove i ragni sono
punti.
Sui fili.